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 2010  luglio 28 Mercoledì calendario

«PER I 60 ANNI MI REGALO LA TERAPIA» —

Gabriele Salvatores si è fatto tre regali di classe: «L’incontro con uno psicanalista freudiano, pur con 20 anni di ritardo, per una revisione dei miei motori, per scoprire cosa mi è caduto per strada e non mi sono fermato a raccogliere; la giuria della Mostra di Venezia, spinto dal presidente, l’amico Tarantino; un documentario, richiesto e basato sulle ricche teche Rai sul 1960, l’anno in cui decisi, recitando a 10 anni in piedi su una sedia per la famiglia riunita, che da grande sì, volevo fare lo spettacolo».
Le candeline sulla torta sono l’ultimo pensiero «perché da sempre il 30 luglio tutti gli amichetti erano via. Certo lo so, i 60 anni sono una boa, io vorrei festeggiarli tutto l’anno: compleanno no stop, per non dargli importanza». Ci ragiona e confessa: «Li sento i cambiamenti, ad ogni età qualcosa perdi e qualcosa guadagni. A sessanta si diventa più selettivi negli affetti, si scopre il piacere del pensiero astratto, allo stile si sostituisce lo sguardo: finché cerchi non invecchi, come diceva Picasso».
Subito deve risolvere il problema del poco sonno: dove avrà sbagliato l’autore Oscar di Mediterraneo? «Partiamo dalla famiglia: io non ne ho avuta una classica, ma il set e il teatro l’hanno sostituita ampiamente, i film sono i miei figli, i colleghi sono parenti. Dicono che non bisogna fermarsi ai modelli consueti, guarda Happy family che del resto è stato il mio film best seller degli ultimi anni». Poi ci sono, a bollire nel subconscio number 60, le storie che avrebbe voluto girare e non ha potuto (Cromosoma Calcutta, chissà) «ma se mi guardo indietro ho fatto sostanzialmente quello che volevo. Il momento clou fu la vera scoperta del cinema, fino a Mediterraneo, quando mi sentivo in sintonia con lo spirito del tempo che migrava dagli ’80 ai ’90. Una felicità espressiva che poi si è ripetuta con Nirvana e Io non ho paura. Ma pure oggi, confesso, mi sento in un momento creativo, ho buone spinte».
Così, con Rulli e Petraglia, Salvatores sta scrivendo il prossimo film, Educazione siberiana dal best seller di Nicolai Lilin, prodotto da Cattleya ed Universal, set previsto a febbraio: Paesi freddi ma budget caldo. «Giriamo nell’ex Unione Sovietica ma non in Cecenia dove si svolgono i fatti. Sarà un racconto di cadenza mitica e romantica, in territorio suggestivo e misterioso: mi ha affascinato del libro il discorso antropologico su una civiltà anche assai crudele, come una volta i pellerossa della riserve, e con uno spirito panteista. Riassumendo: crolla il Muro di Berlino e la globalizzazione forzata mette a contatto improvvisamente pensieri e tradizioni contrastanti. Quanti criminali onesti si stanno riversando da voi in Europa, avverte l’autore, che tiene di riserva il confronto tra Male e Bene. Ma sarà anche un racconto di educazione violenta, con un ragazzo dagli 8 ai 18 anni e la storia di una gang di amici che si separano, tra ricordi dell’ungherese via Paal e dell’America di Sergio Leone ma con i kalashnikov pronti».
Al Lido, Gabriele conta di divertirsi assai: «Mi piace il confronto con i colleghi, la conoscenza più profonda con loro, l’immersione affettuosa nei sogni degli altri. Ogni festival è l’istantanea di quello che succede nel cinema».
Poi c’è questo documentario sul ’60 (magari a Venezia fuori gara? O Sky? O dvd?), l’anno d’oro del nostro cinema, dalla dolce vita in poi. «E non solo, ma le Olimpiadi, Kennedy, le migrazioni interne, la prefazione del boom: ho cercato di usare tutto questo enorme materiale per creare senza attori una vera fiction su una famiglia del Sud che viene a Milano, un po’ quella di Rocco di Visconti e un po’ anche la mia. Cinegiornali Luce, inchieste, Fellini e Antonioni, spezzoni straordinari di vita, storia vista da un bambino che forse sono io».
Infine, non ci si nega nulla, dirige il suo amico Diego Abatantuono in uno spot: l’importante è non fermarsi. « Io quando giro non sto mai male perché sono all’interno di un gruppo di persone affezionate, mi sento protetto. Ma è sempre molto difficile reggere l’ultima ripresa, la fine del gioco, la finzione che si rompe: Luc Besson ha smesso per questo, me l’ha raccontato lui».
Maurizio Porro