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 2010  luglio 26 Lunedì calendario

In Giordania torna la paura dei palestinesi - Ma chi l’ha detto che il mondo arabo è tutto, e soltanto, quello delle nostre cronache più nere

In Giordania torna la paura dei palestinesi - Ma chi l’ha detto che il mondo arabo è tutto, e soltanto, quello delle nostre cronache più nere. Uno viene ad Amman, Giordania, e una sera finisce al Grand City Mall, un centro commerciale di luci colorate e di shopping a tutto volume, e vede che la storia, alla fine, è più complessa: la folla spinge e preme, come ogni folla in ogni Mall, e anche qui sono soprattutto giovani, e soprattutto uomini. Gli abiti sono occidentali, e le ragazze e le donne hanno comunque i capelli sciolti, liberi; quelle che hanno il fazzoletto in testa, davvero poche, si notano subito, e però solo un occhio europeo pare accorgersene. In questo multisala passa un pezzo della storia d’oggi della Giordania, che val bene come il Paese simbolo d’ogni possibile Medio Oriente dentro incastri dove passato e futuro si mescolano con qualche incertezza. I manifesti dei cinema sono grandi, in inglese: c’è George Clooney seduto nel suo aeroporto di «Up in the Air», le nuove avventure di «Sherlock Holmes», anche «Avatar» naturalmente, con le promesse fantastiche del 3D e dei suoi occhialini di plastica. Potrebbe essere un qualsiasi altro cinema d’Europa o d’America, e i rari veli delle ragazze si perdono subito verso il buio delle sale. Amman sta a Levante, ben dentro il Levante; le frecce blu delle sue strade segnalano «Frontiera con l’Iraq», oppure «Frontiera con l’Arabia Saudita». L’Occidente è lontano da qui, ma nel grande viale del centro la boutique che ha una larga insegna in caratteri inglesi - si chiama «Gloria», con un corsivo gigantesco - espone ben al centro della vetrina un abito nero, lungo: è un hijab tradizionale, di quelli che si portano anche con il velo, però il mantellone ha il taglio della spaccatura laterale ben aperto, e la gamba bianca del manichino si mostra nuda e tentatrice fin quasi all’altezza dell’inguine. Un paio d’anni fa, o poco più, ci furono bombe e morti in tre grandi alberghi moderni, gli hotel che si affittano ai turisti dell’Occidente; si dice che dietro quelle bombe ci fossero i fanatici religiosi della «Fratellanza Musulmana». Se oggi il manichino di «Gloria» strizza l’occhio della sua blasfema provocazione, il tempo che è passato qualcosa deve pur aver mutato. Ma forse non troppo, o non tutto. In questi giorni, gli ospedali sono in agitazione: il ministero della Salute ha modificato i vecchi camici del personale sanitario, che erano tutti di un unico colore; «Quando si entra in un ospedale, si deve poter riconoscere subito dal colore con chi dello staff si ha a che fare», dice ragionevolmente Hatem Azruie, portavoce del ministero. Ma Hatem nasconde il problema: la protesta di infermiere e ostetriche racconta che le nuove uniformi impediscono di indossare lo hijab. In realtà, a protestare è lo Jinma, l’associazione di categoria, perché poi non è che tutte le infermiere ora indossino la lunga veste che noi occidentali chiamiamo chador. Ma il presidente dello Jinma scuote la testa: «Non è decoroso, la nuova uniforme è scostumata, mostra le forme delle nostre donne». E se questo è quanto si vede ad Amman, quando poi vai in giro per il Paese e passi per i vecchi villaggi è difficile che tu t’imbatta in qualche donna: nella provincia, caffè, bar, negozi, marciapiedi, la vita pubblica resta proprietà esclusiva degli uomini. Però poi parli con il ministro dell’Educazione, e Ibrahim Badran ti dice che «l’85 per cento delle scuole pubbliche del Regno sono collegate con Internet». Ma allora, qual è la vera Giordania? E qual è il vero mondo arabo? È probabile che siano entrambi, il nuovo e il vecchio, entrambi in una stessa geografia. In Medio Oriente i processi della modernizzazione passano attraverso un contrasto lancinante tra l’adozione delle nuove tecnologie, e dei costumi comportamentali dell’Occidente, e però anche la rigidità di pratiche d’uso che i secoli hanno codificato con obblighi strettamente vigilati. La Giordania non se ne distingue granché, pur con le sue proprie specificità di paese cuscinetto stretto tra le tensioni israelo-palestinesi, da una parte della sua labile frontiera, e, verso oriente, la rigidità dei regimi di Siria, Iraq, perfino Arabia Saudita. Schiacciata dentro questa tenaglia, la monarchia hashemita si è ritagliata uno spazio di vivibilità che la sapienza diplomatica del vecchio re Hussein aveva saputo custodire con saggezza ed equilibrio, progettando una credibile evoluzione democratica del sistema politico. Anche il nuovo giovane re Abdallah II predica la modernizzazione quieta, ogni angolo del Paese è affollato di grandi ritratti del re in abiti occidentali, ora con il casco dell’operaio, ora in uniforme, ora tra una folla di giovani, ma talvolta anche inginocchiato sul tappeto della preghiera con le mani giunte verso Allah; Abdallah deve interpretare l’anima complessa del Paese, servirne la tradizione e però anche immaginare un futuro di sviluppo. Non è facile. Il progetto accarezzato in Israele di accorpare in Giordania tutta la diaspora palestinese (già il 43 per cento dei giordani sono di origine palestinese) è un fantasma che inquieta sempre Amman; e i piani di Abdallah di offrire agli investitori arabi e occidentali una capitale finanziaria stabile e tranquilla sono sempre minacciati da quel progetto. Crescono malumori prima soffocati. E un manipolo di generali in pensione, vecchi ancora rigidi con grandi baffi e occhi di fuoco, severi nei modi come quando avevano ancora la loro divisa verde, in questi giorni ha scritto una lettera al sovrano, loro comandante in capo sempre. È una lettera rispettosa ma molto dura, segnala un pericolo, che la Giordania venga invasa dalla diaspora palestinese e perda la propria identità nazionale, diventando una pedina nella mani della politica americana in Medio Oriente. «Dal 1988 - dice il gen. Ali Habashnesh - 2 milioni di palestinesi hanno avuto la cittadinanza giordana e con loro ne sono altri 850 mila con una cittadinanza illegale; poi ci sono i 950 mila che ormai vivono nell’East Bank, cioè in Giordania, sia pure senza esserne cittadini, e altri 300 mila vengono da Gaza. È una invasione silenziosa». Scuote la testa grigia, amaro, e vuol dire che lui e gli altri che gli sono accanto, con i loro baffoni e la schiena diritta come un pezzo di legno, loro, non ci stanno. Il giovane re è aperto e sorridente, ma ha anche la mano dura, chiude in fretta i conti. Quando, alcuni mesi fa, il Parlamento è parso restio a concedere tagli alla spesa pubblica e riduzioni fiscali a imprenditori e investitori, il re lo ha sciolto d’imperio: elezioni, se possibile, tra un anno. Ed elezioni comunque con la stessa legge voluta da Hussein nel ’93, che toglie peso alle aree urbane - dov’è più alta e forte la concentrazione di palestinesi e di militanti islamici - e premia le aree rurali, dominate dalle alleanze tribali. Oggi il vecchio skyline di Amman è dominato da due enormi grattacieli grigi che svettano sul profilo della città, allungata in un saliscendi di collinette affollate come un fondale di presepe. Le due «torri gemelle» sono un investimento del principe di Dubai, simbolo delle aspirazioni della Giordania moderna. Finora la «invasione silenziosa» della diaspora palestinese è soltanto la minaccia di una lettera di vecchi generali in pensione, che ricordano ancora il Settembre Nero, quando re Hussein si liberò di un’altra «invasione», quella dei palestinesi di Arafat, e finì a cannonate. In quel settembre, re Abdallah non era ancora nato, e nemmeno i ragazzi che l’altra sera sciamavano nelle sale dei cinema del Grand City Mall. La storia della Giordania è stata sempre di saper assorbire le tempeste che rischiano di travolgerla, e uscirne sempre senza gravi danni. Almeno, finora.