MARCO SODANO, La Stampa 26/7/2010, pagina 9, 26 luglio 2010
Le aziende seguono l’economia globalizzata - E’ l’altra faccia della globalizzazione: chi va in giro per il mondo a caccia dei mercati migliori per vendere i suoi prodotti, inevitabilmente cerca anche chi può produrre alle condizioni migliori
Le aziende seguono l’economia globalizzata - E’ l’altra faccia della globalizzazione: chi va in giro per il mondo a caccia dei mercati migliori per vendere i suoi prodotti, inevitabilmente cerca anche chi può produrre alle condizioni migliori. Costi del lavoro ridotti, relazioni sindacali meno complicate (se non assenti), governi pronti a spalancare le braccia - a suon di incentivi e sgravi fiscali - a chi è disposto ad aprire una fabbrica nelle zone più povere del mondo. L’Europa lo ha scoperto con il crollo del muro di Berlino: nell’ormai ex mondo sovietico sono spuntati nel giro di pochi anni migliaia di impianti industriali figli di imprese occidentali. Nei cinque anni tra il 2001 e il 2006 circa tremila imprese circa 3.000 imprese - il 13,4% di quelle grandi e medie tra industria e servizi - si sono trasferite, dice l’Istat. Prima si trattava solo di lavorazioni pesanti, operazioni semplici ripetibili ovunque. Poi la manodopera è cresciuta, si è specializzata: e si sono aperte le porte anche a produzioni più sofisticate. Tra le mete preferite dell’impresa italiana in trasferta ci sono gli altri paesi europei, che hanno catturato più di metà delle delocalizzazioni (il 55%), con una preferenza spiccata per i paesi appena entrati nell’Unione europea. Nel resto del mondo vanno forte, Cina (16,8%) e Usa e Canada (complessivamente 9,7%), seguiti da Africa centro-meridionale (5%) e India (3,7%). Tra 2007 e 2009 hanno rallentato leggermente Ue, America e Cina, bilanciate da una crescita robusta degli investimenti in India, Africa e nei paesi europei extra Unione europea. Qualche cifra può chiarire la portata del fenomeno: un operaio cinese guadagnava, fino a pochi mesi fa, tra i 150 e i 200 euro al mese. Da questa primavera, quando il governo di Pechino ha concesso - e in qualche modo perfino incoraggiato - gli scioperi dei dipendenti di aziende straniere per i salari, s’è saliti a 250. Nei paesi dell’est europeo - dalla Romania alla Serbia - lo stesso operaio si accontenta di 450-500 euro al mese, con punte di 600. Chiaro che il paragone con un salario all’occidentale non è sostenibile, specie se si vede la faccenda dal punto di vista del datore di lavoro. Altrettanto chiaro il fatto che, se le aziende cominciano a ragionare in questo modo, i Paesi fanno altrettanto: almeno alcuni. È la competitività del territorio: burocrazia snella, tasse ridotte, agevolazioni, uffici di corrispondenza per gli stranieri che vogliono investire. Non è necessario andare dall’altra parte del pianeta: la Svizzera, per esempio, è molto attiva nell’attività di attrazione delle imprese che si trovano vicine ai suoi confini. Propone a lombardi e piemontesi spazi nuovi e una forfettizzazione delle tasse (che tra l’altro, nei primi cinque anni, sono vicine allo zero). Lo stesso ha fatto la regione francese della Maurienne, i cui uffici sono riusciti letteralmente a portare a casa decine di aziende piemontesi. In questi casi non è il costo del lavoro quanto il funzionamento della macchina pubblica a convincere un imprenditore che vale la pena di cambiare nazionalità a una fabbrica o a un laboratorio. L’ultima classifica della competitività prodotta dal World economic forum dava il Belpaese al quarantottesimo posto della graduatoria, battuta non solo da India e Cina ma anche dai vicini di casa d’Europa - Germania settima, Gran Bretagna 13esima, Francia 16esima, Spagna (33esima) - e letteralmente surclassata dai Paesi scandinavi (Svezia quarta, Danimarca quinta e Finlandia sesta). La Svizzera è prima. Questo spiega anche perché stentano gli investimenti esteri in Italia. I fattori negativi? agli ultimi posti per la fiducia pubblica nei politici (107esima), spreco del denaro pubblico (121esima), efficienza del sistema legale (128esima), trasparenza delle decisioni politiche (109esima). Male anche le infrastrutture: 59esimo posto, grazie alle linee telefoniche (34esimo) e nonostante gli aeroporti (85esimo).