Giovanni Stringa, Corriere della Sera 27/07/2010, 27 luglio 2010
SARKOZY, MERKEL E OBAMA: PER I GOVERNI L’AUTO SI FA IN CASA
Non solo Roma. Ma anche Berlino, Parigi, Londra e Washington. E, ci si può scommettere, la lista non finisce qui. Sono le capitali della politica che nell’ ultimo anno, anno e mezzo hanno alzato la voce (chi con pacato «understatement» inglese, chi con fragorosi «éclat» francesi) contro le grandi industrie dell’ auto. Governi in rotta con i grandi gruppi delle quattro ruote, esecutivi che tra le righe o senza mezzi termini hanno puntato il dito contro l’ ultima decisione presa dal «top management». Spesso si tratta di tagli, a volte anche di delocalizzazioni. Come quella in Turchia presa in esame dalla francese Renault, secondo le indiscrezioni cominciate a circolare a Parigi a inizio anno: al centro della questione, la delocalizzazione totale della produzione della Clio 4 nel Paese sul Bosforo. E non più, quindi, nello storico stabilimento di Flins vicino a Parigi, una delle fabbriche transalpine del gruppo. L’ idea aveva subito causato una levata di scudi in Francia. A livello occupazionale, aveva detto qualcuno, era come se i turchi fossero arrivati alle porte di Parigi. Per portarsi a casa quei posti di lavoro di cui il Paese aveva tanto bisogno. E, subito, si era messa in moto la macchina della politica d’ Oltralpe. Prima con le parole: «Il governo non può spendere tanti soldi per finanziare i nostri produttori, se questi poi portano tutti i loro impianti all’ estero», aveva detto Sarkozy, pensando a quel finanziamento da 3 miliardi concesso dallo Stato all’ azienda l’ anno prima, e a quel pacchetto azionario (il 15%) in mani pubbliche. Poi con le convocazioni: sabato 16 gennaio saliva i gradini dell’ Eliseo nientemeno che Carlos Ghosn, presidente e amministratore delegato della multinazionale. E, infine, con le note ufficiali: «Carlos Ghosn - così recitava il comunicato dello stesso giorno su carta intestata dell’ Eliseo - ha detto al capo dello Stato che Renault manterrà l’ occupazione e l’ attività del sito di Flins e vi continuerà la produzione di veicoli a combustione», proseguendo anche con lo sviluppo dell’ auto elettrica. Più nel dettaglio, il gruppo «andrà quindi avanti con la produzione a Flins dei modelli attuali di Clio e vi stabilirà una parte della produzione della Clio 4». Sì, Renault, ma pure Peugeot, anch’ essa destinataria di un maxi finanziamento pubblico da 3 miliardi; quando Sarkozy «staccò» gli assegni, aggiunse: ma niente delocalizzazioni né licenziamenti. Attraversando il Reno, cambia la lingua ma i toni restano decisi. Anzi, duri. Basta vedere quello che è successo a novembre dell’ anno scorso, quando l’ americana General Motors, con un a dir poco inatteso dietrofront, decise di non vendere più la tedesca Opel. Chiudendo così una serie di interminabili trattative (anche Fiat aveva fatto un’ offerta) che avevano allungato l’ orario di lavoro di Angela Merkel a tutta la notte (e va ricordata la foto della cancelliera, vicino a una finestra alle prime luci dell’ alba, circondata da ministri, manager e ingegneri). In gioco c’ erano migliaia di posti di lavoro. E, sul tavolo, le prospettive dell’ azienda. Il giorno dopo, il «day after» di una decisione che ha lasciato basita mezza Germania, dal governo di Frau Merkel è arrivato, secco, il commento del ministro dell’ Economia, Rainer Brüderle: «Il comportamento di Gm nei confronti dei lavoratori è totalmente inaccettabile». «Nervi a fior di pelle», aveva scritto il Financial Times Deutschland. Fino ad approdare, un mese fa, a un’ altra sorpresa, quando Opel ha ritirato tutte le richieste di garanzie creditizie pubbliche; la ristrutturazione dell’ azienda si farà quindi con il denaro della società madre. E sulla questione Opel, côté britannico (leggi: Vauxhall, anch’ essa di Gm, anch’ essa in vendita), era intervenuto l’ allora ministro dell’ Economia dell’ allora governo laburista Peter Mandelson. Tra le tante ipotesi sul piatto, Mandelson aveva invitato Gm ad usare criteri di scelta «obiettivi e non politici» e a «tener conto degli interessi rilevanti in tutti i paesi europei, perché ciò influirà sulle decisioni di finanziamento e anche sulla valutazione della Ue sugli aiuti». Last but not least, visto il territorio anglosassone, ci sono le parole del presidente americano Barack Obama. Nel marzo 2009 (quando, per intenderci, le Borse erano ai minimi dei minimi e la crisi al suo massimo), il numero uno di Gm, Rick Wagoner, si era dimesso dopo le critiche arrivate dal presidente democratico. Il quale aveva salutato l’ addio del manager come «il riconoscimento che è necessario un nuovo punto di vista». Gm e Chrysler «hanno bisogno di un nuovo inizio», aveva aggiunto Obama, invitando poi la seconda a portare a termine, con qualche modifica, l’ accordo con Fiat. Questo venerdì, fra tre giorni, lo stesso Obama farà visita agli stabilimenti delle due società a Detroit e Hamtramck. Preceduto da una nota ufficiale della Casa Bianca: «A un anno di distanza dalla decisione di salvare Chrysler e Gm, le due case automobilistiche stanno tornando redditizie».
Giovanni Stringa