Dario Fertilio, Corriere della Sera 26/07/2010, 26 luglio 2010
«RIFIUTAI QUEL PROGETTO POI LA SCOPERTA: ERA LA CASA DI GATES»
La casa dei rimpianti di Mario Botta sorge come un miraggio tecnologico dalla collina che domina il Lago Washington, vicino alla costa occidentale degli Stati Uniti. L’ architetto non l’ ha mai vista, soltanto nelle visite virtuali su computer ha potuto farsene un’ idea. Avrebbe dovuto costruirla, e invece ha detto no. No a Bill Gates, anche se a quel tempo - era il 1989 - per lui quel nome non rappresentava nulla. Oggi invece il ricordo è un segno del destino, una lezione di vita. Enorme, suntuosa, quasi provocatoria nella combinazione di sfarzo discreto e privacy esibizionistica, la Mansion di Bill Gates è scavata nel fianco della collina. In stile americano «loggia del Pacifico», sorge nei dintorni di Medina, non troppo distante da Seattle, immersa nella natura, circondata da un parco di quattromila metri quadrati, non un cespuglio o una fontana lasciati al caso. La Mansion è tutta un tripudio di congegni elettronici, luci che si accendono all’ arrivo del padrone, musica che esce da microfoni nascosti mentre si sposta di stanza in stanza, tastiere portatili per controllare tv, temperatura, luci (programmate per crescere o smorzarsi secondo l’ ora). Se un visitatore è ammesso, viene munito di microchip già impostato secondo i suoi gusti, perché si senta meglio che a casa. (E anche molto più sicuro: l’ ultima volta che i Gates hanno dato una festa, il servizio di sicurezza ha bloccato per due giorni l’ intera zona). La famiglia Gates vive là, abbastanza vicina alla sede della Microsoft, a Richmond. Immensa libreria comprensiva del leonardesco Codice Hammer, sala di lettura a cupola, teatro privato, 24 bagni, garage per 30 auto, dimensione complessiva pari a 30 volte quella media di una residenza americana. Valore stimato della proprietà: tra 50 e 150 milioni di euro. Tassa annuale: oltre il milione. Sette anni di lavori, progetto dell’ architetto Cuttler realizzato da Bohlin, disponibile all’ ammirazione di chiunque su internet. Domanda inevitabile a Mario Botta: se vent’ anni fa avesse accettato la richiesta di Bill Gates per costruire lui la villa, alla fine che cosa ne sarebbe uscito? Risposta non diplomatica: «E come potrei dirlo? L’ approccio non si decide prima, il sito dove si costruisce deve essere interrogato, il parere del committente chiarito, tenendo presente che il migliore è sempre quello più esigente». Ma sarebbe stato possibile un incontro fra l’ idea della bellezza di Mario Botta e il mito tecnologico di Bill Gates? «Probabilmente ci sarebbe stato uno scontro, più che un incontro, fra il mio senso del primordiale e la sua idea del futuribile». Mario Botta sorride: «Per un architetto come me, tutto case e chiese, nel senso che ne ho costruite una dozzina e altrettante ne sto realizzando, sarebbe stata una scommessa problematica». Eppure quell’ episodio mantiene una speciale risonanza nella sua vita. Ricorda: «Il 5 luglio 1989 ricevo una lettera d’ invito dal signor Michael O. Doss, la conservo ancora». Sono passati vent’ anni, eppure sembra un secolo: è scritta a macchina, e il nome di Bill Gates che compare in fondo è ancora quello di un signor nessuno. «Due anni prima, dopo una mostra al Moma di New York, cominciavano a conoscermi in America. E mi avevano invitato a realizzare a Gloucester, nel Massachusetts, una casa familiare in legno. Finito il progetto, avevo rinunciato: a quel tempo era impossibile seguire i lavori come io li esigevo al di là dell’ oceano. Così, due anni più tardi, ricevendo l’ invito dal signor Bill Gates per una casa unifamiliare, penso che il santo non valga la candela. Rispondo: grazie, sono lusingato, è vero che in Europa ho costruito tante piccolissime case economiche e lo farei volentieri anche in America, però una semplice abitazione unifamiliare non regge l’ economia del lavoro. Chiusa la vicenda, più tardi vengo a sapere che quella "casetta" di fatto era una reggia». Eppure l’ ingenuità di allora ha insegnato molto a Mario Botta: «L’ errore è stato misurare tutto in base alla mia esperienza, alla povertà dei blocchetti di cemento che usavo per le mie case. Ho riflettuto, e infine ho capito: quando gli architetti scelgono, sbagliano. Da allora non ho più scelto, ho seguito le richieste seguendo le spinte delle differenti committenze. Sulla mia scacchiera di lavoro ci sono una ventina di progetti». Ma non è solo un discorso imprenditoriale, o di opportunità, quello di Botta: «In architettura c’ è una tensione etica che va al di là dell’ estetica e dell’ economia. Chi fa una richiesta, interpreta sempre la cultura del proprio tempo, e a me capita di realizzare ciò che da solo non avrei neanche immaginato. Anzi, di cui non mi sarei neppure creduto capace. Alla fine di tutto questo correre per cinquant’ anni, comunque, ho scoperto di aver realizzato unicamente ciò che mi è congeniale. Sta qui il mistero dell’ architettura: se desideri qualcosa non ti arriva; invece sono la storia, la collettività, la committenza che davvero esprimono lo spirito del tempo. Io mi considero figlio delle avanguardie del XX secolo, la mia fortuna è venuta dalle case economiche unifamiliari degli anni ’ 60-80, che costavano duecentomila euro: eppure ogni volta sento di dovermi misurare con il nuovo, lo sconosciuto. Mi piace fare, insomma, quello che non so ancora fare. Così sono tornato in America, poco dopo la vicenda di Bill Gates, per costruire il museo di San Francisco. Ho imparato che ogni nuovo progetto è un enigma e una scommessa. Forse dietro a quell’ invito mancato di Bill Gates si nascondeva la mano del destino, per insegnarmi l’ umiltà».
Dario Fertilio