Alessandra Chiatti, Corriere della Sera 25/07/2010, 25 luglio 2010
ODIO I MIEI MUSCOLI, SOGNO L’ARMONIA
Finito il pranzo, fatto il caffè, sparecchiata la tavola, è il momento delle macchinine. Il piccolo Jonas, 7 anni, le dispone a decine sul pavimento, tutte ordinate come in una concessionaria, e pretende che la mamma venga a giocare con lui. Josefa Idem non si tira indietro malgrado la mattinata di allenamento intensivo, la seduta dal fisioterapista, la pasta da cucinare. E nel pomeriggio si torna a pagaiare per almeno altre tre ore. E dire che una volta c’ era anche l’ impegno da assessore allo Sport al Comune di Ravenna. Il papà, Guglielmo Guerrini, marito e allenatore di Josefa è lì con loro mentre scruta tabelle di preparazione atletica e altri dati tecnici. Il figlio maggiore, Janek, 15 anni, liceale, un ragazzo sensibile che ama i libri e ha un talento per la scrittura, ha già partecipato ad alcuni concorsi di poesia. «Guarda questa sulla felicità», mostra Josefa orgogliosa. Arriva adesso supplicante, tempo fa supplicata / proprio appena non l’ hai cercata. «Anche il piccolo è in gamba. Ha imparato la lezione: qualche tempo fa a una verifica di addizioni e sottrazioni ne ha sbagliate sei su dieci per distrazione. Mamma, non è niente. Beh, non è proprio così, gli ho risposto. Senza drammatizzare, gli ho spiegato che bisogna fare sempre il possibile e magari qualcosa di più. Ora se prende un voto insufficiente è il primo ad arrabbiarsi e si fa tre giri in giardino. Diciamo che qui tutti respiriamo lo spirito agonistico». Il quadretto familiare di un normale pomeriggio a Santerno, alle porte di Ravenna, in una casona di campagna circondata dai frutteti, è già una risposta al fenomeno Idem, tedesca diventata italiana con il matrimonio, 39 medaglie iridate, tra cui un oro, due argenti e due bronzi olimpici e il traguardo della sua ottava Olimpiade, a Londra 2012 quando avrà ben 48 anni, naturalmente puntando al podio. Fino a Pechino 2008, il record di partecipazione era da dividere con la velocista giamaicana Marlene Ottey, la schermitrice svedese Kerstin Palm e la ciclista francese Jeannie Longo. Ora basta, non ci sarebbe nessun’ altra atleta donna ad aver partecipato a otto Olimpiadi: una splendida solitudine. Uno sberleffo alle leggi fisiologiche, un monumento all’ impegno e alla determinazione. Ma Josefa sa di avere una pagaiata in più di tante altre avversarie che potrebbero essere sue figlie: la famiglia. L’ album dei trionfi è costellato di immagini con lei che ha appena tagliato il traguardo e ha già al collo le braccia dei suoi bambini esultanti. «Josefa ha fatto una serie di scelte che hanno stravolto le regole delle donne atlete - spiega Guglielmo, che non vuole dividere nelle sue riflessioni lo slancio sentimentale per la moglie alle razionali valutazioni tecniche da trainer di grande esperienza -. Per esempio, fare i figli in un percorso di carriera e portarseli in giro per il mondo durante le gare. Affittando un camper gestito dalla nonna (la mamma di Josefa, Allegonda). Quante finali s’ è fatto Janek a bordo campo con me sul marsupio o sul seggiolino...». Le Olimpiadi Josefa le ha vinte a 36 anni, quando, secondo i luoghi comuni, un’ atleta è già fuori tempo massimo. A 37 si è aggiudicata due ori ai Mondiali, a 38 due bronzi mentre era già incinta di cinque settimane. Poi, quinta dopo tre mesi dal parto, e ancora argento con Jonas di 15 mesi... «E sai quando ha ottenuto il suo massimale di pesi dalla panca, 107 chili? - riprende Guglielmo -. Appena prima di Pechino, a 44 anni». «Noi abbiamo due punti fissi: arrivare a gareggiare nelle migliori condizioni possibili ed essere contenti comunque della medaglia che si ottiene». Eppure se Josefa continua ancora dopo 26 anni di professionismo a rimettersi in acqua ogni giorno è per via di una monetina da due centesimi. Sì, il diametro di quel soldo, equivalente a 3 millesimi di secondo, è lo scarto che le ha negato l’ oro a Pechino nel K1 500, la sua specialità. Così è il destino, ma calcolare i millesimi in una disciplina che si svolge in un campo di gara ondeggiante con linee di partenza approssimative è un assurdo, «non lo fa il nuoto perché le piastrelle del bordo piscina potrebbero non essere perfettamente allineate, non lo fa l’ atletica», precisa Guerrini, che aggiunge: «In quella finale sarebbe stato logico un ex aequo con la Osypenko». Ma Josefa non cerca giustificazioni e si guarda dentro. «Il giorno delle semifinali mi era venuto mal di gola, il dottore mi diceva che non avevo nulla ma io temevo che finissi ko proprio sul più bello, così ho preso un antibiotico, poi ho visto che andava un po’ meglio e ne ho preso un altro: è stata una pazzia, lo riconosco. Che magari avrà influito sulle mie condizioni ottimali. Dopo le Olimpiadi scopro che il dolore era dovuto a un irrigidimento muscolare: in gara stringevo troppo i denti. Ecco, sono nuovamente in ballo anche per questo: perché da quella beffa ho imparato a essere grintosa ma leggera, più rilassata: nello sport come nella vita». Però non si sgarra con la disciplina. Ora è periodo di gare, di verifiche. Negli altri mesi ogni mattina, dopo aver accompagnato i figli a scuola (lei Jonas alle elementari del paese, lui Janek al liceo di Ravenna) Josefa e Guglielmo si incontrano al bacino della Standiana, un’ ex cava di sabbia lunga 2 chilometri e mezzo che costeggia il parco di Mirabilandia. Non ci sono altri canoisti, tra moglie e marito è quasi sempre un tête-à-tête, allietato da una famiglia di cigni con i quali si è ormai creato un rapporto di confidenza. Lui la segue su un barchino («vengo dalla pallavolo, non ho mai saputo pagaiare, ma sono il più medagliato tecnico della nazionale. La Federazione me lo riconosce solo quando le conviene») ed è in questi momenti che esprime tutte le sue qualità di sperimentatore. «Ora stiamo provando i sensori sulla pagaia e al punta-piede per capire di migliorare le spinte. Vedi, dobbiamo incrementare la torsione dei muscoli grossi senza alterare la fluidità della barca. Lei fa meno pagaiate delle sue avversarie, la chiamano slow motion. Il cuore è piccolo, la frequenza cardiaca piuttosto alta ma ha una straordinaria capacità di recupero. E poi in volontà e determinazione non la batte nessuno...». Eccola, ha appena terminato una vasca. «Va bene così, Josefa, 66 colpi al minuto, 2’ 29": è un bell’ andare...», esclama con la cadenza tipica romagnola. Quando si incontrarono, nell’ 87, in realtà il tedesco era lui. «Io da ragazza ero un disastro. Nella mia squadra di canoa, alla fine degli allenamenti dovevo mettere spesso dieci pfenning nella cassa comune perché l’ attrezzo non era perfettamente asciugato, rimaneva sempre qualche goccia. E Guglielmo non mi perdona ancora quel cardiofrequenzimetro, uno dei primi senza fili che costava 900 mila lire, sparito nel fondo melmoso del bacino perché non mi ero assicurata che fosse attaccato bene al remo... Dopo il bronzo vinto a Los Angeles con la Germania e il flop di Seul, con lui ho trovato il metodo. A Barcellona, la mia prima Olimpiade per l’ Italia, il podio ci è sfuggito per un soffio, poi con Atlanta è arrivata la stagione delle medaglie». Rimessa a secco la barca, si va in palestra a fare i pesi. Senza perdere un grammo di femminilità, Josefa carica 100 chili di braccia e 90 kg a gamba. «Le mie amiche mi invidiano la tonicità ma detto francamente i miei muscoli mi fanno schifo. Ci sono delle foto dei successi olimpici che avrei strappato. E dire che da ragazzina mi sono sviluppata in ritardo, i ragazzi facevano battute e insinuazioni. E più battevo quelle già formate, più loro attaccavano. Ho sofferto moltissimo. Certo, ci ho messo anche del mio quando decisi di fare la poliziotta. Ma era il lavoro di mio padre... e un posto sicuro. Ora ho spalle e braccia che mi danno problemi con camicette e giacche. Un fisico più armonioso è il sogno di quando mi ritirerò». Già, il ritiro: un appuntamento rimandato all’ infinito. «Mi vogliono nuovamente in politica o come testimonial dello sport. Io nel 2012 avrò all’ attivo 36 anni da atleta e 24 da professionista: vorrei semplicemente prendermi del tempo per me stessa e i ragazzi. Una cosa però mi piace particolarmente: scrivere. Sto pensando a un libro in cui i campioni del passato raccontano come hanno affrontato l’ impatto psicologico del dopo-carriera. Per chi si è confrontato con la perfezione, non è facile fare un’ altra attività in cui sei uno dei tanti». Problematiche ancora lontane per l’ eterna Josefa. Adesso c’ è da raggiungere Londra. Anche con le macchinine del piccolo Jonas.
Alessandro Cannavò