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 2010  luglio 25 Domenica calendario

MATERA-BARI A 50 ALL’ORA: IL TRENO «FERMO» DA UN SECOLO

centinaia di studenti e lavoratori pendolari riempiono le cinque carrozze del treno Fal, le Ferrovie appulo lucane, in partenza dalla stazione di Matera Sud e diretto a Bari Centrale. Un percorso facile, rettilineo, senza viadotti né gallerie, che scende dolcissimamente dai cinquecento metri di altitudine dell’ Altopiano delle Murge fino al livello del mare. Un tragitto di 70 chilometri, con una decina di fermate, che richiede un’ ora e mezza di viaggio. Costo del biglietto, sola andata, quattro euro. Sono le 8.39 di lunedì 3 maggio 2010. Un giorno qualunque. Il treno parte in orario, però i passeggeri sono tutti un po’ nervosi. Come sempre. Dieci minuti, ed ecco le prime due fermate: Matera Centrale e Matera Villa Longo. Un paradosso, per una città di sessantamila abitanti che è anche l’ unico capoluogo di provincia italiano a non avere una stazione e un binario della rete ferroviaria statale, attesi invano da cento anni. Proprio così, un secolo. La corsa di lunedì 3 maggio è un po’ più «veloce» delle altre, perché salta le stazioni «fantasma» delle contrade Marinella, Pescariello e Mellitto, dove in altre fasce orarie il treno «deve» fermarsi e attendere l’ arrivo del suo «gemello», proveniente da Bari, perché su tutta la linea manca il doppio binario. A bordo c’ è qualche posto libero, che però come gran parte dei corridoi è occupato dai bagagli degli studenti, che devono star lontano da casa una o due settimane e portano con sé ciò che possono. Quando il treno arriva ad Altamura, alle 9.06, ecco la ressa quotidiana dei pendolari accalcati sulla linea gialla che delimita la zona di sicurezza. Gente che sgomita, gente che impreca, e i più scaltri che «conquistano» un posto a spese di chi proprio non ha voglia di lottare già di prima mattina. Il treno, strapieno, riparte. È evidente che le carrozze sono insufficienti, che ce ne vorrebbero di nuove e più curate, che le condizioni igieniche sono penose: la «tappezzeria» sembra un grande arto incancrenito ed emana un tanfo venefico che si mescola alle esalazioni provenienti dal «bagnetto» (nei vagoni in cui è presente) e agli umori della folla che a mano a mano si accatasta negli spazi angusti di questo sempre più improbabile «mezzo di trasporto». Sono 70 chilometri, ma sembra un viaggio interminabile. Che fa sosta a Toritto, Palo del Colle, Modugno e Bari-Policlinico. Qui, il treno si alleggerisce dei molti studenti di Medicina e i viaggiatori possono respirare un po’ . Anche se c’ è ancora la fermata di Bari-Scalo. Alla fine, l’ approdo di Bari Centrale, dove il treno arriva alle 9.52 e la popolazione dei pendolari è finalmente salva e libera. Anche il 9 agosto del 1915, quando questa tratta venne inaugurata, era un lunedì. La Bari-Matera - dopo la statalizzazione delle ferrovie nel 1905, che partorì le Ferrovie dello Stato -, doveva essere il primo ramo ferroviario di un’ opera ambiziosa, ma realistica: «la rete secondaria dell’ Italia meridionale». Doveva realizzarla, e goderne la concessione per settant’ anni, la «Società Mediterranea per le Ferrovie calabro lucane». Il Tirreno collegato all’ Adriatico e allo Jonio, e le aree interne e marginali sottratte alla povertà e all’ isolamento, avrebbero dato vita a un mondo nuovo. E probabilmente avrebbero risolto sul nascere due terzi della «questione meridionale». Non è andata così. Capì che non sarebbe andata così, già quel 9 agosto 1915 - con l’ Italia in guerra -, un piccolo giornale socialista, «Il Sasso», che parlò di «solenne turlupinatura» e di «asmatiche locomotivette senza nome, ma contraddistinte dalle tre lettere maiuscole Fcl (Ferrovie calabro lucane, ndr)». «Ma i popoli - concludeva il giornale - hanno la sorte che si meritano». Quella prima tratta, come il resto della ferrovia, era anche a «scartamento ridotto» (cioè con una distanza tra le due rotaie di 950 millimetri, rispetto ai 1.435 di quelle a scartamento normale) e così è rimasta. A differenza del resto d’ Europa e dell’ America del Nord, dove lo scartamento ridotto è praticamente sparito cinquant’ anni fa e sopravvive solo per alcune reti turistiche o molto isolate. E persino diversamente da tanti Paesi cosiddetti sottosviluppati, specie le ex colonie, in cui le ferrovie a scartamento ridotto sono state ampliate, ammodernate e rese più efficienti. Non solo. Nel «piede d’ Italia», come si vede dalla Carta delle ferrovie italiane del 1885, la Fcl doveva costruire una rete ferroviaria di 1.271 chilometri. Invece si è fermata a 765. L’ ultimo tronco, Camigliatello Silano-San Giovanni in Fiore, in Calabria, venne completato nel 1956. Poi, il disastro. In senso letterale. Con la strage del 23 dicembre 1961, che fece 71 morti e 26 feriti, sul viadotto della Fiumarella, vicino a Catanzaro. Il treno partito da Soveria Mannelli alle 6.43, carico oltre ogni limite di studenti e pendolari con i propri bagagli, deraglia, fa un volo di cinquanta metri e precipita in fondo al burrone. Lutto, polemiche, dibattiti, convegni e impegni solenni. Chiacchiere. Fino a quando, è il 1964, il governo revoca la lucrosa concessione alla «Società Mediterranea per le Fcl». Sembra il momento buono per somministrare all’ Italia anemica quella grande «cura di ferro» - «la» ferrovia che doveva modernizzare e unificare il Paese - immaginata e voluta da Carlo Cattaneo e Camillo Benso, conte di Cavour. Invece no. Si sceglie la strada della «gestione commissariale governativa delle Fcl» e quel poco che cambia, cambia in peggio. Come dice la canzone Azzurro, che spopola in quegli anni, «il treno dei desideri all’ incontrario va»: la costruzione di diversi tronchi già approvati viene interrotta e diverse tratte, ottenute dopo lunghe rivendicazioni, vengono soppresse. Nel 1968 viene cancellata la linea Marina di Gioiosa Jonica-Mammola. Nel 1969 la Soverato-Chiaravalle e la Petilia Policastro-Crotone. Nel 1970 viene chiusa la stazione di Castrovillari (ventitremila abitanti) e nel 1972 tocca alla linea Vibo Valentia-Mileto. Si accumulano solo debiti e scartoffie e si tira avanti fino al 1990, quando le Fcl vengono scorporate in Fal e FC (Ferrovie appulo lucane e Ferrovie di Calabria). Si viaggia sempre peggio, il Sud del Paese è sempre più spezzettato e ostaggio del trasporto su gomma - altro che vantare le «migliaia di chilometri di autolinee» come fanno senza senso del ridicolo le attuali società ferroviarie -, ma in compenso ecco due «nuovi» soggetti, Fal e FC, che si trascinano per altri dieci anni in «gestione commissariale governativa». E che nel 2001, all’ alba del XXI secolo, «rinascono» come società con socio unico, il ministero dei Trasporti, in cui vengono sistemati i trombati e i lottizzati della politica. È vero che Cattaneo e soprattutto Cavour, con il suo studio «Sulle ferrovie in Italia», del 1848, «disegnarono» due grandi dorsali ferroviarie - tirrenica e adriatica - che sacrificavano le «aree interne», specialmente al Sud. Ma è anche vero che quella era una scelta in qualche modo obbligata e, in ogni caso, doveva essere solo l’ inizio della realizzazione di una grande rete ferroviaria nazionale che avrebbe tenuto insieme la Penisola. Non volevano, né potevano immaginare, Cattaneo e Cavour, che nel XXI secolo in cinque regioni meridionali (ma lo stesso discorso vale anche per la Sicilia) persone e merci avrebbero viaggiato come cento anni prima. O che il 27 gennaio 2010 avremmo visto replicare l’ incidente del 23 dicembre 1961, e sulla stessa tratta! Con il ponte che crolla, la ferrovia che resta sospesa nell’ aria come nei film di Indiana Jones e la tragedia evitata solo per l’ abilità e il coraggio del macchinista. Cento anni sono tanto tempo. Ma il tempo non è certo scaduto per fare l’ unica cosa utile e giusta, una vera Grande Opera che dia senso ai 150 anni dell’ unità d’ Italia: far saltare in aria la vecchia rete ferroviaria a scartamento ridotto e costruirne una nuova, moderna, adeguata ai tempi, che si innesti su quella statale e corra tra Bari e Matera e in tutto il Mezzogiorno come quella inglese tra Londra e Oxford. E porti finalmente il Sud in Italia.
Carlo Vulpio