FRANCESCA PACI, La Stampa 27/7/2010, pagina 19, 27 luglio 2010
TRAVOLTI DALLA CRISI MOGLI E FIGLI STRANIERI RIFANNO LE VALIGIE
«Per ora sono in Puglia, taglio le erbe prima della raccolta e dormo nella campagna, così metto da parte i soldi», spiega Lamine al telefono dall’entroterra salentino. Parla in dialetto bresciano come il calciatore Mario Balotelli, l’unica cosa che gli è rimasta della città lombarda in cui ha trascorso gli ultimi quattro anni lavorando come muratore: «Quando mi hanno licenziato mia moglie è rientrata in Senegal, costa meno. Ma appena ricomincio a guadagnare bene torna qui da me». Secondo una ricerca pubblicata dal Giornale di Brescia, la storia di Lamine è tutt’altro che un caso isolato. La crisi non ha risparmiato l’Eden della produttività: se la disoccupazione dei locali ha raggiunto quota 6%, quella degli stranieri è due volte tanto. Così, pare, uno su cinque ha rispedito a casa la famiglia in attesa che passi la nottata.
«Mentre gli italiani affrontano la recessione con gli ammortizzatori sociali, nel caso di salariati maturi, e con il ricorso alla famiglia, se si tratta di giovani precari, gli immigrati possono solo alleggerire il proprio bagaglio rimandando temporaneamente indietro chi non è attivo sul mercato del lavoro», osserva Alessandro Rosina, docente di demografia alla Cattolica di Milano e autore del saggio «Non è un paese per giovani. L’anomalia italiana: una generazione senza voce». Una partita in difesa: «Il momento impone di resistere, anche con scelte d’emergenza. L’investimento sull’integrazione vale il rischio, la crisi è un fatto contingente all’interno dell’invecchiamento strutturale dell’Italia. Chi ce la fa sarà premiato, anche se a pagare le carenze di welfare del padre saranno i figli, ragazzini nati magari a Varese e costretti a interrompere le scuole e il processo d’inserimento per una “vacanza coatta” nel paese d’origine».
Le migrazioni procedono a flussi lenti e a improvvisi scossoni, poi si assestano, come la terra dopo il terremoto. In Lombardia, nel Veneto, in Emilia Romagna, gli stranieri sono da tempo parte integrante del panorama produttivo. Non solo, rivelano gli studi della Fondazione Leone Moressa e del Cirmib, spediscono in patria rimesse pari allo 0,41% del Pil italiano (132 milioni e 672 mila euro l’anno solo da Brescia), ma mettono radici. Se 3 su 10 risiedono in Italia da almeno un decennio, perché non guardare oltre? Nel 2008 il 7% degli immigrati del Bresciano ha acquistato un appartamento, il doppio della percentuale dell’anno precedente. Lamine e sua moglie vivevano in 50 metri quadri in affitto, ma una volta messa su «una famiglia con cinque bambini» avrebbero pensato a comprare la casa.
«Quando a cercare fortuna all’estero erano gli italiani il meccanismo era lo stesso: partivano da soli, anche perché in paesi come la Svizzera c’erano leggi sul ricongiungimento così severe da far impallidire la Bossi-Fini, e poi si portavano clandestinamente dietro mogli e figli», racconta Mario Perrotta, teatrante della scuola civile di Paolini e Ascanio Celestini e autore del saggio «Emigranti Espréss». La storia si ripete: intorno alle miniere del Belgio del 1946 così come a ridosso delle fabbriche lombardo-venete contemporanee, gli emigranti con famiglia rendono assai meglio di quelli con valigia, più rapidi a tagliarsi i ponti alle spalle.
Cosa resterà dell’integrazione a recessione finita? Sebbene alcuni esperti ritengano che a fare i bagagli sia meno del 20% stimato, l’arresto del processo è reale. Basta interrogare l’umore cupo della Questura di Brescia che, se dovesse trovarsi di fronte un numero di rinnovi di soggiorno inferiore allo standard, sarebbe obbligata a ridimensionare l’organico. Agli sportelli immigrazione infatti, lavorano da mesi circa 90 impiegati con contratto temporaneo, vale a dire dipendente dalla richiesta. Vorrà dire qualcosa se metà di loro ha già ricevuto il benservito per fine 2010. Gli altri fanno voto agli dei di ogni cultura e latitudine, consapevoli che l’Olimpo, se c’è, è per tutti lo stesso.
Anche perché, a leggere l’ultimo rapporto sul mercato del lavoro del Cnel, le sorti di fratelli e fratellastri d’Italia appaiono inestricabili. Tra il 2009 e il 2018 la popolazione straniera crescerà del 53% andando a riempire con 1,4 milioni di lavoratori potenziali gli spazi lasciati dalla nostra anoressia demografica. Se Lamine ci sarà, potrà smettere di raccogliere pomodori.3MILANO
La crisi rivoluzionerà forse il rapporto uomo-donna nelle famiglie straniere, ma il processo d’integrazione è irreversibile: «L’immigrato tipo è mosso dalla speranza, non dalla disperazione, e piuttosto che tornare a casa a mani vuote stringe i denti». Parola di Maurizio Ambrosini (foto), sociologo dei processi migratori all’Università di Milano, firma di Lavoce.info e direttore della rivista Mondi migranti.
Qualcuno però, a Brescia, fa le valigie. Che succede?
«La crisi ha fatto precipitare il Pil di 5 punti, un balzo all’indietro di 10 anni che si riflette sugli immigrati, da tempo in fase avanzata d’integrazione, come testimonia il numero dei ricongiungimenti familiari assai più alto dei permessi di lavoro. Ora si arretra: dall’impiego fisso a quello precario, dalla stabilità territoriale al nomadismo, dal ricongiungimento ai rimpatri provvisori, specie tra i migranti più recenti e vicini come i romeni, agevolati dal passaporto comunitario. Ma è un trend temporaneo. S’illude chi pensa che la crisi metta in fuga gli stranieri: gli italiani non torneranno a raccogliere pomodori. Comunque è difficile calcolare quanti stranieri rispediscano a casa moglie e figli: chi viene licenziato non restituisce il permesso di soggiorno, lo tiene per i tempi migliori. Bisognerà contare le iscrizioni alla riapertura delle scuole: penso che avremo delle sorprese».
Come reagiscono gli immigrati alla disoccupazione?
«Alcuni si spostano al Sud, dove, a riflettori spenti, le mille Rosarno d’Italia sono ripartite alla grande con il lavoro nero nei campi. Molti aprono una partita Iva e si propongono come autonomi nello stesso ambito edilizio in cui prima erano salariati. Quelli le cui mogli possono lavorare nell’assistenza domestica, settore del tutto indifferente alla crisi, stanno a casa».
Casalinghi e soddisfatti?
«No. Guadagnare è fondamentale, specie per l’uomo maghrebino, il “bread winner”, quello che porta il pane. Essere rimpiazzato dalla moglie è un trauma: meglio lavorare in nero che farsi mantenere. La crisi può favorire una rivoluzione di ruoli nelle comunità più tradizionali. Tra i latinoamericani per esempio no, perché qui sono le donne a emigrare per prime».