ANDREA MALAGUTI, La Stampa 27/7/2010, pagina 5, 27 luglio 2010
WIKILEAKS, UNO SCOOP E TANTI MISTERI
Con la sorprendente fretta di chi è costretto a compiere un atto che nessuna forza può impedire, mosso da un senso di giustizia dal sapore robespierriano, ormai diventato una figura mitica a metà tra Robin Hood e il Kaiser Soze de «I soliti sospetti», Juliane Assange, indecifrabile fondatore di Wikileaks, sito libero e senza censure capace di collezionare in meno di quattro anni oltre un milione di documenti segreti e di illuminare a giorno il lato oscuro della guerra in Afghanistan, punta diritto allo sconvolgimento del potere mondiale
Così, dopo avere rovesciato sul tavolo della politica internazionale 92 mila file (e 15 mila sono ancora nel suo cassetto) che potrebbero riscrivere la storia del conflitto esploso dopo l’11 settembre, ora è pronto a difendere con i propri avvocati l’onore e il destino del soldato Bradley Manning, 22enne analista militare rinchiuso in una cella d’isolamento in Kuwait con l’accusa di avere girato proprio a lui, prima i filmati passati alla cronaca come «Collateral Murder» e poi i documenti dello scandalo emerso in queste ore. Siamo di fronte a un grande complotto contro l’America e il suo presidente o a una rivoluzionaria battaglia per la libertà di essere informati su ogni passo, scelta e crimine degli uomini più potenti del pianeta?
Il 12 luglio 2007 un elicottero americano Apache sorvola il cielo di Baghdad e apre il fuoco, apparentemente senza motivo, su dodici civili. Li uccide tutti. Due, si scoprirà poi, sono giornalisti della Reuters. I militari ridono, l’Apache si allontana, il filmato della mattanza - Collateral Murder - finisce miracolosamente a Manning, che dalla sua postazione afghana riesce a violare e a saccheggiare i computer del Pentagono. Il soldato bambino si confida - chissà perché - con l’hacker Adrian Lemo. «Ho consegnato tutti i file rubati a Wikileaks, non potevo reggere da solo questo peso». Errore imperdonabile. Lemo lo denuncia, i militari dell’Army Criminal Investigators lo arrestano e Julian Assange diventa ufficialmente un nemico pubblico. Ma è possibile immaginare che un piccolo analista militare - e dunque potenzialmente tutti i suoi anonimi colleghi sparsi per il mondo - sia stato in grado di violare il segreto più protetto del pianeta? O è più facile, come fanno alcuni commentatori inglesi, pensare a una battaglia all’interno del Pentagono? Le ipotesi sull’obiettivo si sprecano. La necessità di spostare in Pakistan lo scontro militare e la voglia di mettere in difficoltà un presidente che ha preteso la pubblicazione dei verbali di Guantanamo, sono le più gettonate.
Julian Assange, nato a Townsville, nel Queensland, figlio di attori teatrali, costretto a una vita nomade, ex hacker del gruppo «International Subersives», cultore di Orazio da cui ha mutuato il primo soprannome «Mendax» («Bugiardo, ma nel senso dello splendido bugiardo delle Odi»), ha fondato il sito che oggi può contare su 800 collaboratori, sui fondi di finanziatori anonimi e volontari - nell’ultimo anno sono arrivati 650 mila dollari - e che ha Noam Chomsky come amministratore del gruppo su Facebook, all’inizio del 2006. Da allora, scampando a un tentativo di omicidio in Kenya, ha svelato i segreti di governi, banche e politici americani, svizzeri, africani e ha affrontato scontri legali con Sarah Palin e Scientology. Ha raccolto attorno a sé un popolo anonimo che ogni giorno invia al sito diecimila fascicoli scottanti. Guerra, droga, sesso, torture. Come se Assange avesse risvegliato un antico bisogno di giustizia universale. Il suo amico Ben Laure che lo ospita a Londra nei viaggi a sorpresa dice di lui: «Julian ha la testa piena di complotti e di ossessioni. Ma ha cuore, forza e ideali. È un genio, insomma, un genio del bene». Un pazzo, forse buono, deciso a cambiare il mondo.