Luciano Fruttero, Massimo Gramellini, La Stampa 25/7/2010, pagina 72, 25 luglio 2010
STORIA D’ITALIA IN 150 DATE
29 dicembre 1908
Fra Scilla e Cariddi
Alle 5 e 20 del mattino i sismografi oscillano con tale veemenza che escono dai confini della carta. Dodicesimo grado della scala Mercalli, un record. Lo sconquasso dura trentasette secondi, ma dove si starà verificando? Gli strumenti non sono in grado di saperlo. Lo sa invece fin troppo bene il professor Gaetano Salvemini, ordinario di storia all’università di Messina: esattamente sopra la sua testa. Sopra e sotto. Svegliato da un rumore sinistro, il futuro campione dell’antifascismo balza fuori dal letto in camicia da notte e spalanca la finestra. In quell’attimo il pavimento precipita. A salvarlo sono la tenda a cui si è avvinghiato e le macerie dei piani sottostanti che attutiscono l’urto. In un nebbione denso, alimentato da incendi ed esalazioni di gas (che secondo studi recenti avrebbero modificato il dna dei messinesi), Salvemini brancola alla ricerca di moglie e figli. Molti lo imitano, altri corrono verso la spiaggia, facendosi largo fra le macerie dei maestosi edifici prospicienti il mare, la Palazzata. Le acque si ritirano per ritornare subito dopo, sotto forma di onde alte anche 12 metri. Lo tsunami completa lo sporco lavoro del terremoto. Gli annegati si aggiungono ai sepolti vivi, in una contabilità dell’orrore che fra Messina e Reggio, Scilla e Cariddi, raggiunge i centomila morti. Accorrono i primi soccorritori e sono russi, seguiti dagli inglesi: quando si degneranno di arrivare, le navi italiane dovranno attraccare in terza fila. Su una di esse c’è l’inviato de «La Stampa», Borgese, sorpreso dal silenzio spettrale: «Né urli né bestemmie, in un popolo così pronto all’ira per una minima ingiustizia che venga dagli uomini, ma ebetudine tranquilla e tacito pianto». La macchina dei soccorsi è un’altra tragedia. «A Messina» scrive Mercadante, «si ebbe un saggio da manuale di quel che le pubbliche autorità non devono fare in presenza di un disastro». Una leggenda sostiene che sia stata l’incapacità del responsabile della protezione civile, generale Mazza, ad aver dato origine al detto «non capire una mazza». Si è salvata una casa su quattro e alcuni deputati propongono di radere al suolo la città per ricostruirla altrove, ma la popolazione non sembra d’accordo. I deputati sono settentrionali.
Sorgono le baracche «provvisorie», alcune tuttora abitate. Come sempre ci riscatta il cuore: la regina Elena commuove nei panni di crocerossina e i milanesi fanno la coda per sottoscrivere aiuti. Intanto Salvemini disseppellisce per poi seppellirli i cadaveri della moglie e di quattro figli. Il quinto, Ugo, non verrà mai trovato e per tutta la vita il professore lo cercherà sul volto di un russo, cullandosi nella speranza che qualche marinaio dello zar lo abbia portato via con sé.