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 2010  luglio 25 Domenica calendario

SERBIA, BUSINESS E ORGOGLIO OLTRE I FANTASMI DEL PASSATO

Nell’ufficio al secondo piano del ministero degli Esteri, mentre l’alto funzionario del governo del premier Mirko Cvetkovic sfodera tutto il suo euro-entusiasmo delineando i passi che dovranno portare la Serbia ad aderire alla Ue, attraverso la grande vetrata, sul lato opposto dell’ampio viale Kneza Milosa, lo scheletro martoriato della vecchia sede del ministero della Difesa jugoslavo è sempre lì, a ricordare un terribile passato ancora troppo recente. “Abbatterlo? No, costerebbe troppo”, spiega poco convinto il giovane diplomatico. In realtà l’impressione è che la scelta abbia un chiaro carattere politico. Sono trascorsi 11 anni da quando i bombardamenti chirurgici della Nato, con le incursioni aeree dei caccia F/A-18 e il lancio di missili Tomahawk dalla portaerei Roosevelt, ridussero a un cumulo di macerie i centri del potere di Slobodan Milosevic.
La rimozione
della Grande Serbia
OGGI QUEL PAESE non esiste più, e il profeta della “Grande Serbia” è morto già 4 anni fa, in una cella del carcere dell’Aja, dove veniva processato con l’accusa di crimini contro l’umanità. Ma Belgrado stenta, nonostante tutto, a liberarsi per sempre dei suoi fantasmi. I massacri, la pulizia etnica, la repressione in Kosovo e Bosnia: pagine superate, da rimuovere, per la maggior parte della popolazione. Però quelle bombe, che colpivano un regime ma facevano vittime soprattutto tra i civili, continuano a essere sentite come una ferita all’orgoglio nazionale. E i sondaggi non potrebbero essere più espliciti: se i due terzi dei serbi si dichiarano favorevoli all’ingresso del paese nell’Unione europea, quasi altrettanti – il 60% – sono contrari all’adesione alla Nato. “Siamo stati bombardati. Come potremmo dimenticare?” riflette Dereta Miljenko, direttore esecutivo dell’ong CivicInitiatives, protagonista negli anni di Milosevic delle lotte anti-militariste. Ma poi ammette: “In prospettiva, è logico pensare che dovremo accettare di aderire all’alleanza militare. Sarà una necessità, anche se continuerà a non piacerci”. Il cammino della Serbia verso l’ingresso nella Ue ha il sapore di una corsa a ostacoli che tutti sono coscienti, qui a Belgrado, che si concluderà in modo positivo. “A me piace ripetere che ormai siamo sulla bicicletta”, ci confessa serafico il viceprimoministro Bozidar Djelic. “A questo punto non abbiamo bisogno d’andare molto veloce, ma se ci fermiamo rischiamo di cadere”. Gli ostacoli pesano come macigni – dall’esigenza irrinunciabile di catturare e consegnare all’Aja il generale Ratko Mladic, alla questione del Kosovo sempre scottante, ancor più dopo la decisione della Corte di giustizia dell’Aja di riconoscere la legittimità dell’indipendenza – ma Djelic, l’uomo scelto dal premier Cvetkovic per gestire il processo di integrazione europea, ha tutte le carte in regola per portare a compimento la missione. Non è un caso che questo politico formatosi a Parigi e Harvard, abbia cominciato la sua brillante carriera all’interno dell’amministrazione serba come ministro delle Finanze proprio quando alla guida del governo c’era Zoran Djindjic, protagonista dello smantellamento dello Stato autoritario creato da Milosevic (fu lui a consegnarlo all’Aja) e della transizione verso l’economia di mercato, prima di essere assassinato nel 2003.
A Djelic si deve la firma, due anni fa, dell’Accordo di Stabilizzazione e Associazione, un passo fondamentale verso l’ingresso del paese nell’Ue. Quell’intesa venne bloccata, quasi subito, su pressione dell’Olanda, in seguito ai dubbi sulla volontà di Belgrado di catturare il leader dei serbi di Bosnia Mladic, considerato il responsabile del massacro di 8000 civili a Srebrenica. Ma, un mese fa, proprio grazie al rapporto del procuratore capo del Tribunale Internazionale per i crimini nell’ex Jugoslavia, Serge Brammertz, che ha confermato la “piena collaborazione” delle autorità serbe, i ministri degli Esteri dei 27 hanno dato l’ok alla ratifica dell’accordo. È anche per questo che a Belgrado cominciano a vedere il futuro con maggiore fiducia. La richiesta ufficiale di ammissione alla Ue è stata presentata nel dicembre scorso, e a marzo il Parlamento ha compiuto un altro atto significativo, molto apprezzato a livello comunitario: il “mea culpa” pubblico e solenne per i morti di Srebrenica. Un cammino tutto in discesa? Non è ancora detto, anche se gli elementi di ottimismo non mancano. A cominciare dal clima che si respira nel grande palazzo di vetro alla periferia della capitale che ospita gli uffici dell’Unione europea. Che a Bruxelles credano fortemente al futuro di questo paese in seno alla Ue, appare chiaro dalla struttura stessa installata in riva alla Sava: uno staff di oltre cento persone, impegnate a monitorare, giorno per giorno, l’adeguamento del paese agli standard comunitari. In questa fase, secondo Alberto Cammarata, capo della sezione economica e per l’integrazione europea, si tratta di creare un clima di “mutua buona volontà” e di verificare che il governo serbo “faccia bene i compiti”. In una lunga serie di settori, fino a quando non diventi evidente il pieno adeguamento agli “standard comunitari”. E la questione centrale è proprio questa. Perché, a leggere l’ultimo progress report sul paese balcanico, se quasi ogni capitolo comincia con l’analisi degli “importanti progressi” fatti in particolare con l’approvazione di grandi riforme legislative, al secondo paragrafo compare quasi regolarmente un inquietante “tuttavia”. Tuttavia devono essere fatti ulteriori sforzi, tuttavia le nuove norme non vengono applicate come sarebbe legittimo attendersi. La lotta alla corruzione, il consolidamento del sistema dei partiti, il rispetto dei diritti umani e la protezione delle minoranze (la Ue denuncia discriminazioni nei confronti dei rom, dei disabili, degli omosessuali), la necessità di garantire pienamente la libertà religiosa, l’esistenza di un numero ancora eccessivamente alto di rifugiati e sfollati: sono tutte questioni sulle quali Bruxelles è convinta che ci sia ancora da lavorare parecchio. Se a questo si aggiungono le incertezze che pesano sul futuro dell’economia, i motivi di preoccupazione non mancano. Unpaese in cui il Pil cresceva nel 2008 del 6%,l’anno scorso ha registrato un crollo del 3%. “Un tonfo molto grave per un’economia in transizione”, constata un funzionario Ue. E se ora l’economia sta uscendo dalla recessione, resta un tasso di disoccupazione del 18% che non consente eccessivi entusiasmi. Lo sviluppo si è basato finora su un alto livello di consumi, il processo di privatizzazione delle imprese si è quasi concluso e non ci si può attendere che porti ulteriori benefici.
Kosovo: la spada
di Damocle
BELGRADO CONTINUA ad avere difficoltà ad attirare investimenti dall’estero e il governo cerca di muoversi in più direzioni. Ma, a chi gli chiede se la Serbia non rischi di diventare un satellite russo, il vice-premier Djelic risponde che l’80% degli investimenti arrivano dall’Europa. E che, semmai, il vero protagonista del rilancio dell’economia è un altro: la Fiat, con il miliardo di euro destinato alla ristrutturazione e ampliamento della fabbrica della Zastava a Kragujevac per la produzione della nuova monovolume e la creazione di una free zone di 70 ettari dove si installeranno le aziende fornitrici. Qui l’annuncio di Marchionne non ha colto di sorpresa nessuno, perché, già da mesi, il Lingotto aveva annunciato un impegno in Serbia.
“Sono sinceramente pro-europeo. Abbiamo bisogno dell’Europa”, insiste Djelic. Una convinzione personale, ma anche con un occhio ai sondaggi che decretano il “sì” massiccio dei serbi all’adesione, dovuto soprattutto alla prospettiva di veder garantita la libertà di circolazione sul territorio continentale. Ma la stessa inchiesta dell’Ipsos che riporta questo risultato, lascia anche aperte due questioni spinose. Alla domanda “sei d’accordo sull’estradizione di Mladic all’Aja?”, la maggioranza risponde “no”. E se poi gli si chiede se sarebbero disposti ad accettare l’indipendenza del Kosovo per entrare nella Ue, solo il 30% dicono di “sì”, mentre il 56% sono contrari, anche a costo di restare fuori dall’Unione. Ancora una volta, la questione del Kosovo rischia di essere una spada di Damocle sul futuro. “Non è più il tempo di un antiquato populismo. Dobbiamo essere pragmatici”, assicura uno stretto collaboratore del ministro degli Esteri Vuk Jeremic, proprio mentre, in queste ore di polemica infuocata, il presidente Boris Tadic conferma che la Serbia non accetterà l’indipendenza del Kosovo e il governo punta a evitare che l’Onu, a settembre, riconosca la nuova repubblica. Ma, ammette a bassa voce il diplomatico, “siamo coscienti che, quanto meno, dobbiamo puntare a un rapporto di buon vicinato”. In che modo, è ancora da vedere. I sondaggi dicono che, nei pensieri della gente, la questione kosovara è solo il 7° problema. Ciò che preoccupa di più è il lavoro, la situazione economica, cercare di raggiungere condizioni di vita migliori. In qualche modo, rimuovere il macigno della storia e guardare avanti. Non è un caso che Belgrado sia diventata, in questi anni, la risposta balcanica alle capitali europee più alla moda. Con i caffè e i ristoranti del quartiere di Vracar, i pub della zona bohemien di Skardalija. Nuovi locali di jazz o di Turbofolk sorgono come funghi, e la città è divenuta meta obbligata dei migliori dj internazionali di techno e house music. Tra enormi pinte di birra Jelen Pivo, o della montenegrina Niksicko, e fiumi di sljivovica – acquavite ricavata dalla fermentazione delle prugne – i giovani serbi accolgono con simpatia i visitatori stranieri. L’importante, questo sì, è evitare d iavventurarsi in spericolate discussioni politiche. Il rischio che rispunti un forte sentimento nazionalista è sempre dietro l’angolo