Enrico Cisnetto, Il Messaggero 25/7/2010, 25 luglio 2010
LA FIAT NON ITALIANA È GIÀ UNA REALTÀ
La discussione intorno alle mosse di Marchionne ha un che di surreale, e Berlusconi con il suo modo di esprimersi naïf lo ha fatto emergere con chiarezza. Infatti, quando il Cavaliere, ricordandosi di essere un imprenditore, sottolinea che ciascuna azienda deve essere libera di collocare la sua produzione dove meglio ritiene, ma nello stesso tempo, avendo un sussulto da premier, auspica che la delocalizzazione della Fiat non avvenga a scapito dell’Italia e dei suoi lavoratori”, mette in evidenza la contraddizione in cui vive il capitalismo italico e che la vicenda Fiat sta facendo esplodere. Da un lato, infatti, non si vuole prendere atto che la Fiat non è più un’azienda italiana, sia perché Marchionne ha fatto la scelta strategica - giusta - di collocarla nello scenario globale, laddove le case automobilistiche si giocano la sopravvivenza (vedi il felice risanamento in corso della Ford), sia perché gli Agnelli con la separazione societaria approvata di recente hanno posto le condizioni per una fusione tra Fiat Auto e Chrysler, effettuata la quale Torino sarà un socio di minoranza, ragionevolmente in progressiva uscita. Dunque, se Fiat non è già più un’azienda nazionale ed è destinata presto a dismettere i panni italiani anche sotto il profilo del controllo, come si fa a chiederle di farsi carico dei problemi dell’economia domestica? Solo in nome di un passato assistenzialista, peraltro reciproco (incentivi contro occupazione)? Dall’altro lato, però, non si può pensare che un governo - quale che esso sia - se ne freghi delle conseguenze che genera la fuga verso i mercati low cost di quelle imprese manifatturiere labour intensive la cui capacità competitiva dipende principalmente dai costi, e in particolare quello del lavoro. Ma siccome non si può, anche volendo, fermare la delocalizzazione, si tratta di guidarla anziché subirla riformulando il proprio modello di sviluppo. Invece noi, per un verso ci attardiamo a contestare la legittimità delle scelte di Marchionne, costringendolo ad una inutile manfrina sulla possibilità di mantenere in Italia, che sia a Pomigliano o a Mirafiori, produzioni che con certezza saranno portate laddove, come in Serbia, un operaio costa meno di 500 euro al mese. Mentre per altro verso ci limitiamo ad auspicare che tutto questo costi il meno possibile al nostro pil, senza capire che avendo rinunciato ormai da molti anni alla politica industriale siamo privi dello strumento decisivo per fare in modo che questo avvenga. Infatti, dobbiamo definire un nuovo modello di crescita, che favorisca quelle realtà industriali in cui l’innovazione del processo e del prodotto è più importante della riduzione dei costi. Faccio un solo esempio: Grafica Veneta, del vicepresidente della Confindustria veneta Fabio Franceschi, è una delle poche aziende tipografiche d’Europa che guadagna, e bene, stampando libri. Perché paga poco gli operai? No. Perché, per esempio, produce “biolibri” con carta interamente riciclata e grazie al fotovoltaico si è resa energeticamente autonoma e può vendere volumi “carbon free” che il pubblico è disposto a pagare qualcosa in più. Green economy dice niente?