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 2010  luglio 24 Sabato calendario

MIO PADRE, UN GIUDICE PER PROFESSIONE E DEDIZIONE


Lunedì 26 luglio sono 10 anni che mio padre, Adolfo, magistrato piemontese come suo padre Camillo e suo nonno Luigi, è morto. In questi anni non ho mai scritto una sola riga su di lui, nonostante varie sollecitazioni. Pudore, rimpianto, dolore ma anche la paura di non trovare le giuste parole o lasciarmi andare a sentimenti di rancore che lui, uomo severo sui principi ma profondamente buono, non avrebbe condiviso.
Spesso nello scorrere degli anni ricevevo una sua lettera («Personale. A Chiara») con notazioni, consigli, persino lodi per ciò che avevo scritto. In pensione dal 1990 dopo una intera vita dedicata all’istituzione giustizia (da giudice a consigliere nel ”68 del Csm; da capo gabinetto al ministero della Giustizia a presidente dell’Associazione magistrati negli anni del terrorismo in cui furono uccisi Alessandrini, Galli, Tartaglione, Minervini tutti magistrati riformisti suoi amici e stimati colleghi; da presidente del Tribunale dei Minori a Procuratore Generale di Milano) papà fin dai giorni di Mani Pulite, in un crescendo quasi angoscioso - ferita che porto e mai si rimarginerà - m’indirizzava però parole di netto rimprovero.
Febbraio 1993 «...come puoi scrivere un articolo che si avvale di violazione del segreto di ufficio se non di quello istruttorio...». E ancora: «...una cosa è la difesa dell’iniziativa giudiziaria e di quello di positivo ha fatto il pool, altro è condividere certe condotte, certi comportamenti che poco hanno a che fare con la terzietà della giustizia...». Giustizia a furor di popolo, carcerazioni per ottenere confessioni, esasperato protagonismo e pm che, in un batter d’indagine, entravano in politica. Il vecchio magistrato che negli anni di piombo aveva sempre opposto «la civiltà dei processi alla violenza» scriveva di notte non tanto alla figlia incapace di capire che anche il fine migliore - lotta alla corruzione - non giustifica mai i mezzi ma, soprattutto ai suoi ex colleghi, con la profetica consapevolezza di chi, già da tempo, vedeva fallire per colpa di un pugno di toghe e dell’ignavia di tanti politici con le sue battaglie la sua visione di una magistratura qualificata, moderna, integra.
Fare il magistrato per papà non era una missione salvifica ma una professione da esercitare con rigore ed equilibrio. «...lo Stato non ci delega, nei fatti, altro potere che di capire interessi e conflitti e dipanarli per esso e la collettività», scriveva nel 1984. E ancora nell’articolo «Magistrati potenti, magistratura sconfitta» avvertiva: «Senza preparazione professionale della magistratura, senza apparato di supporto la maggior parte delle riforme sta per naufragare... e i giudici rischiano di diventare se non i responsabili quanto meno i curatori del loro fallimento». Uomo molto esigente prima di tutto con se stesso ma allegro e grintoso anche sui campi di tennis, per mio padre gli ultimi anni furono assai dolorosi. Accusato di calunnia dall’ex pm Di Pietro per la sua testimonianza a Brescia non riuscì ad accettare di finire in un’aula da imputato. Un’ischemia cerebrale lo ridusse in silenzio. E, poi, morì. Aveva 79 anni. Il procedimento a suo carico fu archiviato. Mamma sulla bara mise la sua toga nera di giudice; il presidente Ciampi, Alessandro Galante Garrone, Giovanni Conso ricordarono la sua «rettitudine», «moralità e dedizione ai valori della democrazia».
Fiero di essere torinese, già partigiano nella Franchi, papà conservava i timbri per documenti falsi che i tipografi della «Stampa», a loro gran rischio, gli approntavano. «La nostra deve essere una casa di vetro», ammoniva i colleghi; il destino gli ha risparmiato l’affaire P3: il Csm e toghe di «Unità per la costituzione», corrente che aveva fondato nel 1979 con giudici come Alfredo Carlo Moro. Certo, Adolfo Beria, avrebbe condiviso l’editoriale scritto sulla «Stampa» da Carlo Federico Grosso «Il giudice va a cena da solo»; al professore avrebbe scritto una lettera di plauso. A me? Non so. Spero di non averlo, un’altra volta, deluso.