Clemente Solaro della Margarita, Memorandum storico politico, Speirani e Tortone. Torino 1851, 23 luglio 2010
ARGOMENTI DI: SOLARO DELLA MARGARITA, MEMORANDUM STORICO POLITICO, SPIERANI E TORTONE, TORINO, 1851
(parte 2 - Vedi parte 1 frammento n. 199287 e parte 3 in frammento n. 218229)
• «Poiché ho parlato di Consolati, che dovevano essere piuttosto menzionati nell’anno 1835, parlerò delle Poste ancora, quantunque avrebbero avuto, in ordine di data, luogo nel 1856, ma non volli allora interrompere il filo di memorie politiche per trattar di queste materie.
Le Poste dipendono in altri Stati dal Ministro delle Finanze, o da quello dell’Interno, secondo che si considerano come ramo di prodotto, ovvero di amministrazione interna. In Piemonte come a Napoli e nella Spaglia furono sempre sotto la dipendenza del Primo Segretario di Stato per gli Affari Esteri. I miei emuli, come volevano togliermi i Consolati, divisavano pure togliermi le Poste.
Nel pubblico si desiderava generalmente che gli arrivi e la partenza dei Corrieri, ristretti a tre giorni per settimana, fossero aumentati. Io era di quest’avviso, ma non di quello di rinunziare ad esserne il Capo. Il Conte della Valle uomo di molti talenti che aveva servito sempre con zelo e retto anche il Ministero degli Affari Esteri era Direttore Generale delle Regie Poste; avvezzo al sistema vigente, nemico d’innovazioni che gli avrebbero arrecato soverchio lavoro e fastidio, non mi secondava nei progetti di miglioramento, e vi si dichiarava apertamente avverso, né voleva cedere ad un Ministro meno attempato, che era stato per tanti anni sotto i suoi ordini, vi furono fra noi dissapori, e m’avvidi ch’egli inclinava verso chi meditava sottrarre dal mio Ministero l’Amministrazione delle Poste; tentai di farlo entrare nelle mie viste, di, richiamarlo meco all’antica fiducia; poiché non cessava d’ apprezzarlo, fu invano, forza mi fu a mio gran rammarico di proporre al Re di rimpiazzarlo. Mi costò assai per mille considerazioni, ma io era in posizione, che se era vinto in un un solo affare d’importanza non avrei potuto proseguire, né voleva essere spogliato della Direzione delle Poste, ch’è di sommo rilievo pel Ministro degli Affari Esteri, che ha da essere padrone delle corrispondenze, né mai dipendere da altri, né affidare i suoi dispacci a mani che non siano a lui risponsabili, altronde mi stavano, a cuore le riforme che si richiedevano con ragione dall’universale.
Mi sia qui lecito di dir due parole di elogio al degno Marchese di Cavaglià Segretario generale in allora delle Regie Poste, a lui voleva affidarne la Direzione quando il Conte della Valle fu collocato a riposo, ma non riescii a persuaderlo, ripugnando a quel, carattere di vero gentiluomo, occupare immediatamente il posto donde si rimoveva il suo Capo; preferì rimanere nel secondo luogo, e doppiamente apprezzandolo per questo tratto di nobil animo, come per tutte le altre Sue qualità, dissi al Re che era d’uopo fare un’altra scelta; (I) cadde questa sul Generale Pallavicini che altamente corrispose alle vedute del Re, e mercé le sue cure e li suoi studii si compì la nuova organizzazione delle Poste, il servizio de’ Corrieri fu quotidiano, escludendo solo l’impostazione e distribuzione delle lettere nelle Domeniche e nelle quattro principali solennità dell’anno. Si salutò il beneficio, ma più assai si gridò contro l’eccezione; si lamentava di non aver che tre volte per settimana le lettere, e il pascolo de’ giornali esteri, se ne accordarono sei, e si insistette pel settimo, anzi venne da Genova una Deputazione per rappresentare al Re la necessità di togliere quelle eccezioni. Tenni fermo, poiché se tutti non consideravano che in uno Stato Cattolico non era un grand’atto di fervore verso ciò che si deve a Dio, il far quanto si pratica perfino in Londra sotto un Governo Protestante, lo considerava bene il Re, e non si lascio smuovere né allora, né poscia. Io sempre previdi tal misura non avrebbe durato oltre al mio Ministero, e infatti appena uscii nel 1847, fu tolta, ma era ben deciso a non piegarmi qualunque fosse l’autorità delle persone che la consigliavano. Se non diamo a Dio ciò che è di Dio, se gli uomini di Stato arrossiscono di tributargli que’ segni pubblici di rispetto che sono un dovere per loro, non meno che pei privati, non si ha diritto di chiedere agli altri che diano a Cesare ciò che è di Cesare, e che rendano ossequio ai Ministri come investiti del suo potere.
Sia lode al vero ed alla religione di Carlo Alberto, nell’osservanza di questa misura, che non escludeva né la sua Persona, né la Real Famiglia, né i Ministri, era esattissimo; ogni qualvolta s’ allontanava dalla Capitale io avvertiva i Direttori delle Regie Poste, che nelle Domeniche non si mandassero alla Corte le corrispondenze neppur dirette a Sua Maestà. Il Re lo sapeva, ed approvava che dalla severità d’una misura presa in omaggio del Re dei Re, non si escludesse l’augusta sua Persona.
Questo periodo farà sorridere, e come quello intorno alla religiosità dei Consoli, forse sdegnerà coloro che chiamano misticismo qualunque cosa si faccia in ossequio della religione, che vorrebbesi esclusa dalle considerazioni di chi presiede alle cose pubbliche; cosi però non la pensava uno scrittore cui i sofisti non chiamano certo arnese di sagrestia, che anzi venerano altamente. Macchiavelli [sic per Machiavelli - ndr] considera l’osservanza del Culto Divino come cagione della grandezza degli Stati, e il dispregio del culto, cagione della loro rovina. Nel libro 1, capo XII de’ discorsi sopra Tito Livio dice ancora «Quelli Principi e quelle Repubbliche le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della Religione, e tenerle sempre nella loro venerazione. Perché nessuno maggior indizio si puote avere della rovina di una Provincia, che vedere dispregiato il culto Divino.» Potrei citare scrittori in tal materia assai più autorevoli, ma noi sarebbero per certa gente cui di preferenza adduco lo storico Fiorentino, avvertendoli che sarebbe inconseguente di averlo per oracolo quando appoggia i loro principii, e non farne caso quando pronunzia, qualche sentenza che non è d’accordo colle altre loro idee.
Faccio ritorno alla politica ed alla diplomazia. Il Principe di Metternich si era finalmente convinto, io credo, che né l’idea di farmi cadere era attuabile; né la mia permanenza al Ministero era tanto funesta ; capì probabilmente, che se io voleva la Corte di Sardegna sciolta in tutta l’estensione del termine dall’influenza Austriaca, come da qualunque altra, io però professava tali principii da tranquillar pienamente l’Austria, che non mai per me si darebbe mano a cosa a suoi danni che non fosse lecita e giusta, e che i rivoluzionari d’Italia non troverebbero in me un appoggio, ne favore di sorta. Pertanto il Principe Felice di Schwarzemberg, scelto a succedere al Conte Brunetti come Inviato straordinario e Ministro Plenipotenziario dell’ Imperatore, fu munito senza dubbio distruzioni diverse da quelle che aveva ricevute il Conte Brunetti, poiché il suo contegno fu ben diverso. Diplomatico di non comune talento, e assai perspicace, non cadde mai negli errori de’ suoi predecessori, assumendo il contegno di protettore della Corte, e di aio del Ministro degli Affari Esteri, e non avvenne mai in tutto il tempo, che rimase presso di noi ch’egli m’abbia, parlando anche delle cose interne dello Stato, dimostrata la pretensione d’ingerirsene né di dettarci la condotta a seguire. Lo accusavano che mentre egli era in giro per la città, voleva che la carrozza lo attendesse alla porta della Regia Segreteria, affinché la gente vedendola giudicasse che egli avea meco lunghe conferenze, ove tutti gli affari con lui si discutevano; io non me ne avvidi mai, e credo che si è esagerato, e mal interpretata la fermata della carrozza che lo attendeva in un luogo centrale, ma qual fosse l’intenzione di cosa sì poco notabile, il fatto è che non si è reso mai molesto con pretensioni fuor di luogo; sosteneva bensì gl’interessi della sua Corte con insistenza e calore, ma era suo dovere: nella società lo trovavano caustico, e pungente, e non piaceva a molti; con me seppe rispettare la suscettibilità del Ministro del Re, e non ebbi che ad essere soddisfatto di nostre relazioni, quantunque bene spesso le mie risposte non fossero analoghe a’ suoi desideri né a quelli della Corte Imperiale. Ho luogo a credere che i suoi dispacci contribuirono a dissipare la diffidenza che si aveva di me a Vienna concepita, ed a far sì che si avesse una giusta idea della mia opinione politica non Austriaca, non Francese, non Inglese, ma Sarda, unicamente Sarda, come l’ho sempre mantenuta, e manterrei mille volte se dovessi ricominciare la carriera che ho terminato.
L’Imperatore d’Austria venne in quest’anno a Milano per l’incoronazione e trasferitesi nella città di Pavia vi ricevette visita del Re Carlo Alberto, il quale non volendo che avesse ombra di convegno politico, non mi tolse in sua compagnia, perdei così L’occasione di abboccarmi col Principe di Metternich che era coll’Imperatore, e di conoscere personalmente quel grande uomo di Stato, che tanto primeggiò sugli altri ai dì nostri per talenti, e per influenza in tutti gl’affari d’Europa, finché anch’egli fu soverchiato dal turbine rivoluzionario, che non rispetta, i cedri, mentre fa piegare le più umili piante.
Forse egli adesso rivolgendo in mente i tanti atti veramente memorandi della sua gloriosa vita politica, si lagnerà con amarezza seco stesso di aver così prontamente riconosciuto Luigi Filippo d’Orleans qual Re sulle rovine ancora sparse di sangue delle barricate; di non aver dato più efficace soccorso, qual conveniva alla Potenza Austriaca a D. Carlo, e per ultimo di non aver preso Farmi contro quel nido di rivoluzione, ch’era la Svizzera, ed assicurato al Sonderbund la vittoria, alla causa dell’ordine in Europa il trionfo.
(I) Essendo morto nel 1842. il Generale Pallavicini, non poté più ricusare il Marchese Dona di Cavaglià l’impiego d’Ispettore Generale delle Regie Poste che ritenne lodevolmente fino all’anno 1848» [137-144].
• Anno 1839. Stato del Regno di Sardegna secondo il presidente del Consiglio di Stato conte de La Tour [145-153]. Viaggio del Solaro a Roma presso Gregorio XVI e reazioni torinesi: «[...] Le gelosie si risvegliarono; si disse che aveva abbandonato le tradizioni della Corte; tradizioni però di alcuni lustri soltanto; che la Santa Sede eserciterebbe in Piemonte una giurisdizione contraria all’autorità reale, che quella dei Vescovi ne sarebbe pregiudicata, ed altre simili cose che non avevano altro fondamento che poco amor di religione, grande attaccamento a’ principii bevuti nelle scuole universitarie, nelle massime sgraziatamente prevalse sotto gli auspicii del Marchese d’Ormea, e del conte Graneri» [155]. Ancora sulla guerra di Spagna 157 e seguenti. Visita del principe Alessandro ereditario dell’impero di Russia (con torneo).
• Anno 1839. A proposito delle lotte in Svizzera tra cantoni protestanti e cattolici. «Grande idea dei moderni novatori, distruggere ogni antica cosa e fare scomparire gli interessi delle città, delle Provincie anche indipendenti, a favore di un’unità nazionale, che distrugge le nazionalità particolari non meno rispettabili e legittime» [170-171].
• «In quest’anno ebbe pure luogo il primo congresso degli Scienziati Italiani in Pisa, ivi incominciò a ordirsi la tela, le cui trame eran di lunga mano preparate : lo svolgerla si lasciava al tempo. Io avversai fin d’allora queste congreghe, tanto applaudite, poiché non me ne occultai lo scopo; ma tutti i Sovrani d’Italia un dopo l’altro, ad eccezione di Gregorio XVI, furono colti al’amo. Carlo Luciano Bonaparte ne era il primo promotore; lavorava pel conto suo, né s’avvedeva, altro non essere che lo stromento delle sette. Sembrava un’odio al progresso delle scienze, e delle arti l’antivedimento di coloro che dicevano, scienze ed arti non essere che il pretesto apparente ; il vero fine la rivoluzione Italiana. Di scienze e di arti si parlò in pubblico, ma in privato si vedevano i corifei delle varie fazioni liberali della Penisola per trattar d’affari di ben altra importanza. Si conobbero personalmente; s’affrattellarono, strinsero amicizia, stabilirono corrispondenze, si confermarono le speranze, si prepararono a travagliar concordi per essere tutti uniti dalle Alpi al Faro, pel gran giorno del sospirato risorgimento. Né tanto si celavano che fosse scusabile chi spensieratamente applaudiva a quelle congreghe stupende, e i Sovrani d’Italia tutti, eccettuato Gregorio XVI, le accolsero. O coeci Reges qui rem, non cernitis istam! era il caso d’esclamare dopo la lettura d’uno scritto che si stampò in Lugano sul congresso di Pisa , che tutta ne svelava la tendenza. Io ben sapeva che inevitabilmente Torino avrebbe la stupenda ventura di veder gli scienziati, che il volgo ignaro di tanto nome, chiamava comunemente gl’insensati; lo sapea, pur non tacqui, come era mio dovere. Io non dovea supporre ciò che non era più un mistero, che già si soffiava con mille mantici il fuoco; ma le stesse cose si dicevano in Napoli al Re Ferdinando, in Firenze al gran Duca. Ognun d’essi esser dovea il futuro campione d’Italia, e io lo ripeteva fermamente al Re; mi sorrideva, e mi tollerava; credo che in questa circostanza si offuscò l’animo suo a mio riguardo, ma non indietreggiai: togliermi potea l’Ufficio, nol fece; farmi cambiar non mai, ne lo tentò. Vaticinavano gli uomini più assennati le conseguenze onde sarebbero fertili quelle riunioni, ed io confermava i detti loro, ma indarno, e non creduto come non fu creduta dai Troiani la figlia di Priamo nel dì che precedeva il grande eccidio.
Tunc eliam fatis aperit Cassandra Futuris
Ora, Dei iussu, non unquam eredita Teucris.
Eneid lib. II» [171-173].
• La crisi d’Oriente del 1840 in 175 e seguenti. Thiers, per convincere il Re di Sardegna ad allearsi con loro, propone uno scambio di Savoia e Nizza «con altre provincie di maggior convenienza e di più facile difesa. Rispose il Conte Crotti [ministro a Parigi in assenza di Brignole - ndr], che sebbene fosse difficile difendere la Savoia e Nizza, il Re non cederebbe mai il Paese che fu la culla di sua Famiglia e le era al pari del Contado sempre stato fedele». [184].
• Palmerston «iracondo» e prepotente in 187 e seguenti. Caso relativo alla concessione degli zolfi nel regno di Napoli.
• «Oltre al pensiero di giovare al commercio, aveva fissa in mente l’idea di aumentare la considerazione dello Stato, ed Italiana essendo la Corte di Sardegna, aumentava la considerazione politica dell’Italia» [195]
• «Le decime sono di diritto Divino, non di competenza dei Governi secolari» [196].
• L’ostracismo al conte Avet in 204-205
• «Nel settembre ebbe luogo la seconda riunione degli scienziati Italiani, che convennero in Torino. Pochi ne vidi, quelli soltanto che mi erano particolarmente raccomandati. A nessuna delle sedute intervenni, recarmivi col bieco sguardo della disapprovazione, della diffidenza non era dicevole, far buon viso a chi sapeva che tramava lo sconvolgimento d’Italia sarebbe stata una finzione, e non ne ho adoperato mai. Presiedeva il Congresso l’eccellentissimo Conte Alessandro Saluzzo; ogni cosa andò stupendamente e col dovuto ordine, non vi fu parola pubblica, o scritto, o discorso da ferire la suscettibilità del più rigido censore, non vi fu nulla di tutto questo, v’intervennero molte persone di massime rette, aliene da ogni idea di novità pericolose e fatali, sì tutto ciò è vero; eppure fu questo Congresso come il precedente e come lo furono quelli degli anni seguenti, utile soltanto a stendere in Italia le fila della gran cospirazione Europea. Dirlo allora pareva proferir cosa, non che assurda, la più disennata [dissennata] che uscir potesse dai labbri di persona colta e civile; adesso Fhanno pubblicato per la stampa, que’ medesimi che ne fecero parte, qual era lo scopo, quali i lavori; allora non potevano occultarsi di vederlo, quanti, collocati in alto, vedeano più da lontano svolgersi i futuri avvenimenti.
Nel novembre essendo in Genova, mi trovava indisposto, e non potea recarmi presso il Re; egli mi scrisse che aveva intenzione di nominare il Cavaliere Luigi di Collegno Ministro di Stato, e al luogo suo come Presidente Capo della Riforma divisava nominare Monsignor Pasio Vescovo d’Alessandria, però che profìtassi del riposo a cui era astretto per riflettere su tal suo progetto. Io vidi tosto che si trattava sotto colore di promozione di togliere la suprema Direzione degli studii e le Università dalle mani di un personaggio che per li suoi sentimenti religiosi, per li suoi talenti, per la severità de’ suoi principii faceva ombra a coloro che avevano diverse idee sulle tendenze da darsi alla pubblica istruzione.
In affari di tanta importanza per lo Stato, io non poteva, ne doveva adulare; non aver il rimprovero di non essermi opposto ai danni che ben prevedeva sorgerebbero da tal cambiamento. Vi pensai e nel miglior modo possibile per non ferire il Re seguendo, le voci di mia coscienza, in una lettera rispettosa gli rassegnai le mie riflessioni. Non potersi con profitto degli studii togliere all’Università il Cavaliere di Collegno; che anche sotto la sua sorveglianza s’insegnavano da alcune cattedre dottrine che erano ben lungi da ciò che esser doveano per informare uomini che conoscessero ciò. che devono a Dio e al Re, che quelle dottrine avevano la sanzione di un secolo, che lo stesso Cavaliere di Collegno col suo zelo, riuscito ben era a moderarle, non a farle variare e Monsignor Pasio non avrebbe continuato mai nella via dell’ attual Capo della Riforma. Aggiunsi che Sua Maestà nel decreto di erezione del Consiglio di Stato, aveva stabilito di aggregarvi dei Vescovi, cosa che non si era effettuata mai. Se Sua Maestà nominando un Prelato alla direzione degli Studi voleva dare un segno di sua devozione alla Chiesa, meglio era darlo nominandolo Presidente della Sezione dell’Interno al Consiglio di Stato. Il mio suggerimento essere un’emanazione del suo pensiero con diversa applicazione, ma assai più utile al suo servizio ed al bene dello Stato. La mia lettera non produsse alcun effetto, si voleva il mio voto favorevole non il mio consiglio; questo però mi era chiesto e quello io non poteva darle. Tale è il contegno prescritto ai Consiglieri dei Principi non solo dalla Religione, ma dai doveri che derivano dalla legge naturale. Citerò un’autore non sospetto a chi di cose di Chiesa poco si cura. Puffendorf nel suo Trattato De Officio hominis et civis, così si esprime: qui consilio suo rectoribus civitatibus adsistunt in omnes reipublicae partes aciem mentis convertant... salutem reipublicae in omnibus consiliis pro scopo habeant, non proprias opes aut potentiam: affectibus Principum adulando non velifìcentur . . . . . nihil quod dici oportet, dissimulent; nihil quod tacere oportet eliminent . . . . .
I signori dell’Università non s’adontino per quanto ho detto, rispetto quelle Aule d’onde sono usciti cos i chiari ingegni, e nelle quali io pure imparai giovanotto amore allo studio. Appunto perché le rispetto, duolmi che in quel deposito di tanta scienza si serbino massime e dottrine che ne offuscano lo splendore, e duolmi che invece d’interpretare il diritto Canonico siccome lo interpreta la Chiesa, somma maestra in materie che ad essa spettano, s’interpreta invece alla foggia de’ suoi nemici che bevvero alle impure fonti de pretesi riformatori del secolo decimo sesto. Se la verità sola si sentisse su quella Cattedra di giurisprudenza Ecclesiastica e Civile non si vedrebbero tanti, per ogni altra parte inclinati al bene deviare dalle regole del retto e del giusto quando si tratta degli interessi della Santa Sede, dell’Episcopato, del Clero, de’ pii Istituti, non si vedrebbero le violazioni dell’immunità, lo spoglie de’ beni legittimamente posseduti, poiché nelle Scuole non imparerebbero i futuri Magistrati, per servirmi di un concetto del Cavagliere di Collegno sovrammentovato, a rendere a Cesare ciò che è di Dio. Verità sono queste che l’età presente dileggia e non cura, più assai l’alletta spogliare, avvilire la Chiesa, ma viva Dio esclamò quell’alto spirito del Conte di Mentalembert: II y a certames spoliations pour les quelles il n’y a pas de prescription, certaines iniquités pour les quelles il n’y a point de pardon: les spoliations et les iniquités infligées à l’Eglise. Envain le flot des siècles et l’oubli de toutes les prosperités humaines semblent avoir recouvert le rocher: il vient tôt ou tard le moment du reflux, et le rocher reparait inebranlable et sacré» [205-209].
• «Sia pace a monsignor Massi che il 10 gennaio [1841] vidi spirare tranquillamente, colla serenità di un uomo che visse per morire» [210].
• «Sanno tutti che Carlo Alberto, di quanto ha di lusinghiero l’autorità sovrana, non godeva mai, nè si risparmiava fatica di sorta, come non fosse egli il Re, ma l’ultimo de’ suoi sudditi». [211]. Seguono considerazioni su Fransoni.
• Anno 1841. Viaggio del re in Sardegna. «Si era applaudita dal popolo l’abolizione dei feudi, ma quando si videro rigidamente astretti a pagare fin all’ultimo soldo all’Erario i tributi che prima con molta longanimità riscotevano i Signori, il beneficio perdette il suo pregio» [213].
• «Mentre Carlo Alberto era in Sardegna passò per Torino la Regina Cristina di Spagna donde P aveva espulsa Espartero che assunse invece di lei le redini del Governo e la tutela della giovanotta Sovrana Isabella. Alcuni dì prima il Cavaliere Zea Bermudez antico Ministro di Ferdinando VII Faveva preceduta per scandagliare qual ricevimento si farebbe a quella Sovrana: dottrinario di prima stampa, nemico di quanti professano principii assoluti, al tempo stesso assolutissimo in pratica, e senz’ombra di applicazione dei principii liberali che ostentava, mi era particolarmente avverso quando io era a Madrid, né meno io a lui, né poco cooperai alla sua caduta nel 1826, quando gli succedette nel Ministero il Duca dell’Infantado. Ora mellifluo, e detestando meco la marcia della rivoluzione sostenuta al di là dei Pirenei da Espartero, voleva insinuarmi la convenienza di manifestare la riprovazione dovuta al Reggente col dignitosamente accogliere la Regina Madre; L’arte sua non era da tanto a persuadermi che dopo il contegno tenuto nel tempo della guerra civile, e mentre tanti Generali, e Ministri di Don Carlo erano fra noi, mentre le nostre massime non variavano, fosse decoroso di mostrare premura per la Regina die ci aveva sempre considerati come nemici. Essa per l’Augusta Casa cui apparteneva, ed a mille titoli aveva diritto ad ogni più festosa accoglienza, ma sarebbe stata la cortesia un atto a ritroso degli antecedenti, né l’avrebbe essa stessa apprezzato. Certamente avrebbono applaudito i dottrinarii, la cosa sarebbe stata pienamente conforme alle loro abitudini, non alle mie. Il Cavaliere Zea dal modo con i cui io aveva ascoltate le sue insinuazioni, capì che perdeva il tempo, se né partì; la Regina giunse a Torino, cambiò i cavalli alla Posta senza scendere di carrozza e seguì il viaggio. Affinché poi nessuno dia taccia di troppa durezza a tal procedimento verso l’Augusta Donna, dirò eh’essa veniva da Napoli ove non vide né il Re suo fratello, né la sorella sua, Sposa dell’Infante Don Sebastiano, che s’allontanarono dalla Città di proposito quando essa vi giungeva» [214-216].
• Rifiuto di sposare il Principe Eugenio di Carignano con donna Januaria del Brasile [216-218]. Francesco IV a Torino [218]. Bruciata la candidatura del conte Collegno al ministero degli Interni, «il marchese di Cavour Vicario di polizia riferiva a Sua Maestà che sulla voce che il conte di Collegno potesse essere nominato Primo Segretario di Stato per gli affari Interni il prezzo delle corone e degli scapolari era aumentato: additando così ch’egli avrebbe il suffragio delle persone religiose, e non mai per giusta conseguenza quello degli spiriti illuminati cui conviene appagare. Tali fole, tali invenzioni si udirono sempre, quando si trattò di allontanare un personaggio di alto merito, e alla tanta reputazione di cui godeva il Conte di Collegno, non sapendosi che apporre, si cercò di farlo comparire uomo di sagrestia più che di Stato. Questa è la legge de’ sofisti che mantengono ovunque lo spirito della rivoluzione [...] Vi fu chi crede che se il Conte di Collegno assumeva l’ufficio, non avrei tardato ad essere io rimosso; non è impossibile; due uomini di nostro carattere non voleva il Re nel suo consiglio» [220]
• «I rivoluzionari non si persuadono, nè convertono con ragione; non valer con essi che la forza adoperata a tempo, vale a dire quando si ha diritto di adoperarla in difesa della società minacciata o per ottenere giusta riparazione de’ torti sofferti» [223].
• Morte di Federico Guglielmo III di Prussia e rinforzo dello spirito liberale in Prussia (7 giugno 1840 e non 1841) [223].
• Per prevenire il colera si dispongono «uffizi sanitari in Costantinopoli, e ai Dardanelli» [226].
• Il brutto comportamento del principe Florestano I di Montecarlo. Solaro cerca di incamerare Monaco, Mentone e Roccabruna [228 e seguenti].
• «Nell’aprile di quest’ anno si celebrò il fausto connubio di S. A. R. il Duca Vittorio Emanuele con
S. A. I. Arciduchessa Adelaide di Austria: grande fu la soddisfazione de’ sudditi, molte le feste, vera l’esultanza non eccitata dal solo frastuono e dal tripudio degli spettacoli; il popolo Piemontese non è di quelli che grida panem et circenses, l’Augusta stirpe di Savoia è sempre tanto cara ai sudditi suoi fortunati che ogni sua gioia, è gioia del popolo, ogni sua ventura, ventura della patria; avran bell’ intronargli i falsi savii alle orecchie, che egli è Sovrano, si considererà sempre come membro d’una gran famiglia di cui il Re è il padre; io né ho ferma fiducia malgrado le arti che s’adoperano per corromperlo; v’è qualche analogia fra l’indole e il carattere de’ Piemontesi con quello de’ generosi Spagnuoli; a questi pure si ha bei dire che l’autorità sta in loro, che il Re la riceve dalla Nazione; quando gridano Viva el Rey, quel sofisma è mille miglia lontano dal loro pensiero. «Dono di Dio è la Sovranità, sì perché alla divina autorità sì appoggia l’autorità in astratto, sì perché dalla divina Provvidenza deriva quella superiorità di fatto per cui l’autorità sociale si concentra in una persona determinata, si perche la stessa Provvidenza è quella che dallo stato privato solleva all’indipendenza per mezzo di combinazioni impenetrabili certe società e i superiori che le governano. Così il dottissimo P. Taparelli le cui opere come quelle del celebre Haller meriterebbero di essere meglio studiate, e cadrebbero gli errori onde fu offuscata la scienza politica da Tommaso Hobbes inventore del patto sociale, e da quanti Pubblicisti hanno scritto dopo lui fino ai nostri giorni. Non è fuor di luogo stabilire qui alcune massime, che sono diametralmente in opposizione a quelle de’ pretesi filosofi, i quali mentre stabiliscono l’autorità nel popolo gli strappano dal cuore ogni affetto verso l’autorità che lo governa. L’entusiasmo per la felicità del Principe, il dolore per le sue sventure non sarebbero più che una manifestazione, una ricompensa di gratitudine verso i suoi benefìcii, e non mai un omaggio a quella suprema dignità ond’ è rivestito come immagine e luogotenente di Dio. I pretesi filosofi della nostra epoca, i quali vogliono rovesciare l’autorità, e togliere il rispetto dovuto ai Sovrani, li abbassano alla qualità di delegati del popolo, ma se vogliamo che le società non traballino, non crollino, bisogna mantenere le basi sulle quali furono da Dio fondate, e né sarà gran risultato la quiete delle intiere Nazioni. I Sovrani regnano in virtù de’ loro diritti personali: il popolo non li ha stabiliti, né creati. In origine il popolo non ha esistito avanti il Principe, ma il Principe avanti il popolo, come il padre prima dei figli, il padrone prima dei servi. I Principi non sono gli amministratori della cosa pubblica, né i primi servitori dello Stato, senz’essi lo Stato è nulla, la loro indipendenza sola fa che il legame sociale divenga ciò che chiamiamo Stato. Il potere e l’esercizio del Governo sono in loro mano un diritto, non un dovere; soltanto la maniera di governare è un dovere; poiché non deve mai ledere gli interessi altrui, anzi deve favorirli. Da questi principii deriva la conseguenza che i sudditi devono considerare nei Principi un’autorità propria, assoluta (I), un’autorità che rappresenta quella di Dio, e alla quale non è mai lecito ribellarsi, ed è principio dì ribellione nel "popolo se arroga a se stesso la Sovranità; deve, il popolo tollerare nei Principi anche ciò che sembra violare, o violi infatti i suoi diritti, e soltanto da Dio aspettare il rimedio. Tolerandum est patienter quod Princeps facit, quamvis inique: expectandaque est sucessoris emenda vel superni correctio judicis, qui violentias neque injurias non (sinit esse perpetuas. Sono parole di Enea Silvio Piccolomini, ma se quelle di sì gran personaggio che fu poi innalzato sulla Cattedra di S. Pietro col nome di Pio II, non persuadessero ogni sorta di lettori, citerò quelle di un valente Giureconsulto protestante, il celebre Heinecio che formalmente dice: certissimum quidem est, quia imperantes a nemine, praeter Deurn, judicari, adeoque et ab illo solo decidi poteste vere ne hostilem animum adversus populum gerant, nec ne. Queste teorie sono argomento di discussione fra i filosofi, finora abbiamo però veduto quei popoli quieti, felici quegli Stati, ne’ quali non si discutono, ma sono messe in pratica; ed è pure un grand’ argomento a loro favore, e nella sua semplicità vittorioso, lo scorgere che all’osservanza di quelle massime tenne dietro la prospera condizione delle pubbliche cose, non che delle private, ed ogni sventura dal disprezzo delle medesime. Rallegriamoci dunque quando un popolo mostra di sentir senza studio ciò che è volontà di Dio che senta; speriamo che non riesciranno a corromperlo i suoi adulatori, e che si vedrà nelle future occasioni di gioia pei nostri Principi, eguale trasporto di amore ne’Sudditi, come si videro nelle nozze dell’attual nostro Sovrano.
Quelle nozze per cui esultavano i sudditi leali non piacquero a coloro che miravano segretamente a tutt’altro che a legarsi colla temuta ed odiata Potenza. Il Re a tale unione aveva aderito perché gli era cara l’Augusta Nipote, e la madre di lei sua sorella, che nel 1841 Racconiggì trattò l’affare, e vinse ogni ritrosia. Questa non da altro procedeva che dal timore di far cosa che spiacerebbe a coloro cui in mente bulicavano le idee Italiche; s’avvide dell’impressione realmente prodotta, e volle temperarla col mostrar più rigidità, e nessuna condiscendenza all’Austria negli affari che con essa si trattavano, e col dimostrarsi meno inclinato verso il Ministro degli Affari Esteri, come autore di un legame contrario alle intenzioni politiche segretamente serbate in petto. Il Re fu meco in quel tempo men largo d’atti cortesi, ma a misura che ci lontanavamo dall’epoca della celebrazione del faustissimo nodo a questi atti egli fece ritorno: come fosse a mio riguardo poco preme; verso l’Austria si manifestò ben più chiaramente, e questo è ciò, che io non avrei consigliato mai.
Prima d’inoltrarmi in quest’argomento è mio dovere di fare un’osservazione che torna tutta in encomio dell’Augusta nostra Regina. Talmente guadagnò colle sue virtù, colla grazia de’ suoi modi, con atti di beneficenza i cuori, che perfin coloro, che l’essere Austriaca le apponevano, furono costretti a venerarla. Madre feconda di augusta prole i voti di tutti i sudditi fanno plauso a lei, a’ suoi figli vere gemme del Trono Sabaudo. Forse queste parole sebben vere non le avrei pronunciate in altri tempi, ma in questi il pericolo dell’adulazione scompare, poiché si diminuisce al possibile F aureola de’ Principi, e non si lodano che con quella prudenzial riserva che concede l’età servile non più verso i Re, ma verso il partito che è alla loro autorità contrario. Non così dobbiam far noi Realisti di antica fede, e qualsiasì la forma del Governo, noi la stirpe de’ nostri Sovrani la veneriamo come quella che per volere di Dio, ha il diritto di regnar su noi, eh’ esserle dobbiamo sudditi riverenti e devoti.
Nel 1834 si era conchiusa con l’Austria una convenzione per impedire l’enorme contrabbando che si faceva a danno dei due Stati sulle rive del Ticino, e per l’acqua del Lago Maggiore.
Questa convenzione avea duplice vantaggio; uno per le finanze, ponendo fine a tante frodi che né scemavano gl’introiti, l’altro per la morale delle popolazioni limitrofe, che ogni dì più si corrompevano dedicandosi al lucroso esercizio del contrabbando, ma non si era conchiusa che per due anni, e durativa sol quanto non si dichiarerebbe il fine, sei mesi prima. Ogni qualvolta era l’epoca della scadenza, il Ministro di Finanze dimostrava l’intenzione di farla cessare, ma si era indugiato a prendere tale misura. Si osservava che i vini, principal commercio di alcune Provincie de’Regi Stati col Milanese, erano in Lombardia aggravati di un dazio troppo considerevole e quasi esclusivo; speravasi che l’Austria pel timore di vedere rotta l’anzidetta convenzione a lei più ancor giovevole, che alla Sardegna, avrebbe aderito alle nostre istanze. Non vi consentì mai, sia perché voleva favorire i proprietarii del Regno Lombardo - Veneto, sia perché il Ministro di Finanze Austriaco non era disposto a nostro favore, sia poi perché la Corte di Vienna non aveva motivi di essere condiscendente verso uno Stato, in cui non trovava mai quella reciprocità di agevolezze che a lei si chiedevano. Supponeano neppure i Ministri Imperiali, che noi non avremmo esitato a farci un danno solo per arrecarne ali’Austria uno molto più rilevante; s’ingannavano: non vi è cosa che rattenga gli uomini di Governo quando seguono un’idea fìssa e preconcetta con passione: se perfino gli interessi dello Stato si pospongon di frequente a quella, come non potea ciò temersi in questa circostanza, che interessi maggiori per le Finanze si avevano in vista sagrifìcando i vantaggi della convenzione? Pochi mesi dopo le auguste nozze si annunzio che più non s’intendeva di mantenerla, e dovette essere per l’Austria un ammonimento a non illudersi sulla natura delle sue relazioni malgrado l’augusto legame. Temperai nondimeno per quanto fu in me l’amarezza del Principe di Schwarzemberg dandogli speranza che combinandosi fra le due Corti un ’ Trattato di commercio, la convenzione riviverebbe ne lasciai di osservargli che se il signor de Kübek che avea le Finanze dellì Impero sotto la sua direzione, fosse stato meno duro a nostro riguardo, quella misura non avrebbe avuto luogo.
(1)- Il moderno diritto Costituzionale ha modificato questi principii, ma io parlo di quelli che allora vigevano» [232-240].
• «Malgrado tali nostre tendenze, certamente poco grate a Vienna, il Principe di Metternich saggiamente giudicava, che non conveniva spingere troppo oltre il risentimento, anzi diplomaticamente separando le questioni d’interessi materiali dalla politica, mostrava aver per questa una gran fiducia nel Re, e mi faceva comunicare dal Principe di Schwarzenberg i dispacci diretti alle Ambasciate e Legazioni Imperiali presso le grandi , Potenze, sempre che si trattasse de’maggiori affari dell’Europa, perché li ponessi sotto gli occhi di Sua Maestà; le mie relazioni col Principe di Schwarzemberg erano costantemente buone, franche e leali, egli non dissimulava meco le sue opinioni sulle nostre tendenze, sul poco affetto ali’ Austria, né io dissimulava a lui ciò che / aveva in cuore, e la giusta nerezza di uno Stato Che non vuoi parere vassallo del più forte/Egli rispettava queste suscettibilità, e non mostrò mai diffidenza di me, persuaso che non l’avrei ingannato mai. Altri v’ èrano fra gli uomini di Stato che non godeano delle sue simpatìe, il suo ingegno perspicace scopriva ciò ancora che avrebbono voluto occultare, e perciò non era gradito, e il Re lo temeva; cioè temeva il suo sguardo e il suo sorriso col quale nelle udienze che accordava al Principe, questi dava a capire che apprezzava al loro giusto volere le parole e le cortesie» [242-243].
• «negli Stati protestanti se vi ha un Ministro, un Magistrato che professi altamente la sua credenza e la pratichi, sale in riputazione, è l’oggetto di encomii, e se ne magnifica il nome, e ne’ paesi Cattolici di rado è che un uomo di Stato, se non è indifferente alla causa di Dio, se non considera la Chiesa come dipendente dello Stato, non perda i suffragi, per poco non si giudichi incapace di grandi affari» [244]
• Necessità di sottrarre la Savoia «all’inflenza delle libertà Gallicane, che sono così contrarie ai rapporti ch’esister debbono fra la Santa Sede e i Vescovi» [245]
• «In quanto concerne affari di Religione, rapporti colla Chiesa per materie spirituali io fui e sono tal quale mi credono, né vorrei per nulla al mondo modificare le mie opinioni. I Sovrani Cattolici sono per tali materie sudditi del successore di S. Pietro, e vincolati da tutti i doveri che ne derivano; ma il Sommo Pontefice è pur anche Principe temporale indipendente, e indipendenti sono da Lui negli affari che non spettano alla Chiesa tutti i Re della terra, ond’è che se era ligio, e devoto alla S. Sede, non mi passò mai per la mente negli affari meramente politici di sottomettermi ai voleri della Corte di Roma più che non l’avrei fattio verso qualunque altra» [249]