Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  luglio 23 Venerdì calendario

IL WASHINGTON POST HA COLLEZIONATO TRENTA PREMI PULITZER VIAGGIO NEL TEMPIO DELLA NOTIZIA DOVE OGNI ORA I 19 GIORNALISTI DEL POOL INVESTIGATIVO FANNO UN VERTICE SULLE INCHIESTE BOMBA

Dalle finestre dell´albergo Madison sulla 15esima strada di Washington, il novizio giornalista italiano appena sbarcato in America contemplava il palazzo del Washington Post sull´altro marciapiedi come un seminarista avrebbe guardato i Palazzi Apostolici.
Di fronte all´hotel, eretto al numero civico 1150 sopra le rovine di una chiesetta dedicata al santo della "Città di Dio", ad Agostino, era stata inaugurata in quell´anno 1973 la fortezza in cemento e vetro del giornale che per quasi mezzo secolo sarebbe stato l´incubo della "Città degli Uomini". Il terrore di quella Washington che gli editori, i direttori, i cronisti del Post avrebbero scosso, informato e cambiato con la forza della loro indipendenza, della loro fatica, dei loro errori. Trenta premi Pulitzer, i Nobel del giornalismo, e quattro decenni più tardi, la "fabbrica degli scoop" ancora scuote il potere politico, semplicemente macinando il proprio lavoro, nel tempo della banda larga e degli iPad come nell´era del piombo e dell´inchiostro. Dietro quelle finestre illuminate nella notte dal traffico dei distributori che raccoglievano i pacchi di copie, il dramma di una metamorfosi che avrebbe cambiato la nostra storia andava in scena.
Pochi mesi prima, nel giugno del 1971, Richard Nixon era riuscito a ritardare la pubblicazione sul New York Times del rapporto Ellsberg, dello studio segretissimo condotto dal Pentagono che svelava le sconcezze di quella tragedia. Ma Nixon si era dimenticato di quel giornale, allora marginale, che pure stampava a pochi passi dalla sua Casa Bianca, quel Washington Post che una signora senza altra esperienza che i salotti migliori della capitale aveva ereditato quando suo marito, l´editore, si era esploso un fucile da caccia in bocca.
Il Washington Post della vedova, Kay Graham, e del direttore, Ben Bradlee pubblicò i «Pentagon Papers». I tribunali sentenziarono inequivocabilmente che il giornale aveva fatto il proprio lavoro, perché il diritto-dovere all´informazione prevale su ogni altro. (Ellsberg, il funzionario infedele, fu perseguito e alla fine assolto). Con quel colpo piovuto sulla testa del Post senza merito particolare ma pubblicato con lucida temerarietà, gli ingranaggi della "fabbrica degli scoop" si misero in azione e non si sarebbero più fermati. Una generazione di giornalisti aveva assaporato il gusto esaltante della propria libertà e della propria forza. Tre anni dopo il caso Ellsberg, il Richard Nixon che aveva tentato di bloccarli sarebbe stato stritolato nell´affare Watergate, proprio da quel giornale che aveva tentato di imbavagliare. Il mito era nato.
La prima volta che entrai nel "tempio dello scoop" fu accompagnando Gianni Agnelli, l´Avvocato e amico della Kay Graham che lo chiamava invariabilmente "Johnny". Fummo ammessi nel tabernacolo dove il direttore-pontefice Bradlee celebrava il rito quotidiano della riunione con i capi settore, nella sala a vetri dalla quale si intravede il tetto della Casa Bianca, come un "memento". Colpiva la quieta professionalità di un lavoro senza retorica, la certezza di una fatica senza fine e rinnovata ogni giorno. C´era una storia molto spinosa di corruzione in Comune. «Siamo sicuri delle fonti?» chiedeva il direttore. «Il sindaco mi bombarda di telefonate» lamentava il capo cronista masticando un sigaro, come nel film "Prima Pagina", «gli vuoi parlare tu?». No. Il sindaco può andare a farsi fottere, lui e il cavallo sul quale è arrivato. C´era il solito scandalo al Pentagono, dove qualche scandalo sonnecchia sempre, si tratti di un bombardiere difettoso o di un´asse del cesso pagata 600 dollari per favorire un fornitore amico. «Abbiamo un appuntamento con una gola profonda». Attenzione che non sia qualcuno che vuole portare via la commessa per le assi del cesso a un concorrente, ammoniva il pontefice, tra nuvolette di fumo.
Oggi nessuno osa più fumare, nella sala del concistoro quotidiano guidata dal nuovo e giovane direttore, Marcus Brauchli, una vittima della purga di Rupert Murdoch al Wall Street Journal, recuperato dalla nuova proprietaria del Post, Katharine Weymouth, la nipote della leggendaria Katharine amica di "Johnny" Agnelli. Quando ci ritorno, non avverto più il tanfo eccitante e tossico dell´inchiostro e del piombo. Internet non ha odore. La cernia di carta che un tempo, soprattutto nel weekend, ragazzini e disoccupati pagati 5 centesimi per copia distribuita, scaricavano davanti alla porta è divenuto una soglioletta che serve più da traccia, da bignamino di quello che la redazione integrata rovescia in Internet. Il giornale è ormai la coda del grande corpo online, non più il contrario. E se Ben Bradlee, che consuma quietamente i suoi quasi 90 anni insieme con la moglie ed ex giornalista anche lei, Sally Quinn, negli Hampton, soffre, la seconda metamorfosi della "fabbrica degli scoop" è avvenuta, senza ritorno.
Ma senza resa. Lo spirito del luogo, l´anima del giornale, sono sopravvissuti al pensionamento del Grande Vecchio Bradlee, alla morte della sua madrina Kay Graham, alla lunga direzione del successore, Leo Downie jr. direttore per 17 anni, all´azzardo del nuovo capo, Brauchli, il primo estraneo assurto alla direzione. Hanno resistito alla vergogna del falso Pulitzer assegnato alla cronista Janet Cooke e poi restituito quando confessò di avere inventato la storia del bambino tossicodipendente, all´inesorabile tramonto dei divi alla Bernstein e Woodword, i ragazzi terribili che dal nulla, seguendo le tracce disegnate da "Gola Profonda", il numero due dello Fbi, Mark Felt, arrivarono fino alla Studio Ovale. Nella sua deliziosa casa di Georgetown, Bob Woodward, il "Robert Redford" del film che celebrò i Watergate, lavora ormai per se stesso e per i suoi libri.
Nella cornice delle finestre della "fabbrica degli scoop" sulla 15esima strada, oggi si vedono muoversi più donne di quante mai, persino in questo giornale guidato proprio da una donna editrice, si siano mai viste. La star della sezione investigativa è una elegante e sempre ordinatissima signora sulla cinquantina, Dana Priest, quanto di più lontano dall´icona "sgarupata" e irsuta del cronista d´assalto, ma con lunghi artigli sotto la manicure. stata lei a inondare le ormai poche pagine del giornale con un enciclopedico "exposè" dell´orrendo pasticcio nel mondo dello spionaggio e del controspionaggio dopo 11 settembre. Un lavoro, dice lei stessa, costato due anni di fatica e di taccuini gonfi di appunti - Dana preferisce biro e bloc notes ai «segretari elettronici», perché «la carta non può essere intercettata e scaricata per via telematica». Fu lei, già decorata con due Pulitzer, a svelare l´oscenità di quegli ospedali militari dove i feriti delle guerre per «esportare la democrazia» vengono reimportati e trattati come rottami.
«Non ci sono giornalismi virtuali o giornalismi reali», mi ha spiegato il massimo critico ed esperto di media, Howard Kurtz, uno dei superstiti della vecchia guardia, «c´è solo cattivo giornalismo e buon giornalismo. E quello buono è il giornalismo che tiene i potenti di turno sempre un po´ in ansia, quando avviano il loro computer o aprono il giornale». Non esiste neppure una fosse invalicabile fra gossip e serio. Uno dei più potenti, e corrotti, boss della Camera negli anni ”70, il deputato Wilburn Mills, conobbe la propria rovina quando furono notati graffi sul suo volto. Glieli aveva inflitti una segretaria, Annabella Battistella in "arte" Fannie Fox, l´amante assunta a spese dello Stato. La vita privata di Gart Hart, le sue avventure amorose in Florida, tolsero all´America un possibile, buon capo dello Stato.
Ogni ora di ogni giorno i 19 reporter del Post assegnati al lavoro di investigazioni, salgono al quarto piano nell´ufficio dell´ "investigatore capo", il vice direttore Jeff Lean, uno della vecchia scuola, occhiali di tartaruga inclusi, per fare il punto dei progetti in corso. «Su cento proposte che ricevo, ne approvo una, quando sono si buon umore. Su dieci piste che seguiamo, forse una produce una notizia» dice Lean «spendiamo molti soldi, ma questa è la nostra ragione di essere». La galassia Internet serve da laboratorio, per lanciare briciole di informazione che possono far abboccare pesci grossi, scuotere gli alberi dell´omertà e del silenzio. I faziosi di destra accusano il Post di commettere il loro stesso peccato, di essere cioè faziosi di sinistra. Ma basta riprendere la raccolta del giornale per vedere come tutti coloro che si sono avvicendati nella porta girevole del potere americano abbiano conosciuto il brivido di aprire quel giornale. Brauchli, il nuovo direttore, governa sia sul regno di carta, che si contrae, sia su quello elettronico, che si espande, perché così ha voluto la proprietaria. Convinta, forse dopo avere visto il film che chiuse un´epoca e ne aprì un´altra, "State of Play" con Russel Crowe il vecchio reporter e Rachel McAdams la giovane blogghista alleati nello scoop, che il dovere di informare, attraversa gli strumenti usati per farlo.
Visto ora, in questo 2010 di affanni per i "Main Stream Media", per gli organi di informazione tradizionali, il palazzo sulla 15esima che guardai a bocca aperta sbarcando novizio negli Stati Uniti può sembrare più una fortezza assediata che una base di lancio. Ma il pensiero che ogni giorno qualche ben stagionata reporter, mi perdoni Dana Priest, o qualche ragazzina fresca di wi-fi e cappuccino al latte di soia, esce dalla fortezza per andare a frugare negli armadi del potere, rallegra e conforta. Non puzzano più di inchiostro e di piombo fuso, ma la fabbrica non ha chiuso e non potrà mai essere mandata in Cina o in Romania. «Il giornalismo - mi disse un giorno Bob Woodward - si misura in suole della scarpe consumate». E andare a piedi da Shanghai a Washington sarebbe duro.