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 2010  luglio 23 Venerdì calendario

DALL´EOLICO AL LODO ALFANO COS PALAZZO PECCI BLUNT DIVENT LA REGGIA DEI PREDONI

«Ci si vede a casa mia...»: e pare di sentire la gravità della pausa, pare di vederlo, Denis Verdini, mentre convoca i sodali sollevando il capo leonino in un moto di orgoglioso appagamento. A casa sua: a Palazzo Pecci Blunt.
Ai piedi del Campidoglio, di fronte alla scalinata dell´Aracoeli, in quella specie di maschio, di fortezza angolare che estende le spesse sue mura al convento di Santa Francesca Romana. Avesse un po´ di curiosità per la storia o per l´architettura, cosa di cui si è portati a dubitare, l´«uomo verde», come lo chiamano quei cuoricini di amici nelle intercettazioni telefoniche, potrebbe sfoggiare una descrizione residenziale dei primi del Seicento: «Ha la facciata dinanti di passi 30. Ha i fianchi di passi 54. Ha una loggia - ah-ah! - come s´entra et una a man dritta di passi 16».
I carabinieri si sono appostati qui sotto per un bel po´ di tempo; hanno segnalato, riconosciuto, fotografato. Nel cupo baluardo che nel corso di cinque secoli s´è intitolato Paluzzi Albertoni, Gottardi, Fani, e poi Spada, Ruspoli, Malatesta e dal 1929, infine, Pecci Blunt, ecco, qui hanno avuto preminente luogo gli impicci e i magheggi della P3. Pranzi e pranzetti con la partecipazione straordinaria di attempati faccendieri, giovani e vecchi leoni del berlusconismo predatorio e quegli straordinari e poliedrici maneggioni che nelle loro incessanti trame si esprimono per lo più in dialetto campano.
«Amm´ a fa´», «Amm´ a vedé´»: di elementari e ghiotti programmi, che nell´autunno-inverno 2009 si allargano all´affaruccio eolico, al destino impervio del Lodo Alfano e alla confezione di scandali sessuali, risuonano dunque le prestigiose architetture della residenza romana dell´onorevole Verdini. Al piano terra, dove più si sente la mano di Della Porta, dove restano impresse le decorazioni di Taddeo e Federico Zuccari, fino al trionfo della loggia - e dagli! - di Raffaellino da Reggio. Qui, per dire la tempra morale degli antichi inquilini, venne ad abitare il cardinale Federigo Borromeo, quello dei Promessi sposi.
Per quanto nell´aspetto e nella parlata toscana ricordi un personaggio della Divina Commedia, il coordinatore del Pdl pare più interessato agli affari che all´arte e alla letteratura. Proprio qui sotto i carabinieri hanno pizzicato Flavio Carboni che si faceva portare dalla consorte qualcosa come 487 mila euri in assegni. Mentre l´allegra tavolata sul business energetico si riuniva non lontano dalle porcellane di Sevres, i dipinti di Van Wittel del Salotto Rosa, le nuvole e i pappagali del Vestibolo Azzurro.
Non che il luogo porti esattamente fortuna: qui vollero prendere casa, per dire, Raul Gardini e Sergio Billè. E comunque: che fatica organizzarli, per la P3, quei pranzi a Palazzo Pecci Blunt. «E´ notissimo - dice con qualche sufficienza il senatore Dell´Utri - lo conoscono tutti». Beh, proprio tutti no. A leggere i testi delle benemerite intercettazioni, specie quelle di Pasqualino Lombardi, il più attivo fra i vice-faccendieri, sembra il gioco del telefono senza fili. Pecci Blunt, diventa via via Picci Bondi, Pucci Landi, Pecci Blu; e tanto non lo conoscono, lui e quegli altri del suo giro, da storpiare allegramente anche l´indirizzo, che è piazza dell´Aracoeli, ma nell´esagitazione e nel rumore si trasforma in Araceni, Aracheni e addirittura in un irresistibile e sublime Paraceli, «sta vicino al coso dei... a piazza Venezia, comm´ cazzo si chiama, addò sta piazza, addò sta palazzo, addò sta la cosa dei caduti, proprio là vicino, sta attaccato».
Ecco. Destino crudele della Città Eterna è quello di accompagnare dolcemente i suoi luoghi, le sue pietre, i suoi convitati lungo una china di inarrestabile degrado, anche sociale, per non dire morale. Per cui dopo il cardinal Federigo, e prima che il very sofisticated regista inglese Peter Greenaway venisse qui a girare alcune pose de «Il ventre dell´architetto», negli anni trenta, quaranta e anche cinquanta del secolo scorso Palazzo Pecci Blunt ospitò il più eccezionale e cosmopolita salotto romano, e feste in maschera, gallerie d´arte, concerti, pure un teatrino, «La Cometa», come da costellazione nello stemma dei Pecci.
Per farla breve: grazie all´opera di donna Anna Laetitia, detta Mimì, nipote di Leone XIII e sposa del banchiere americano Cecil Blunt, in queste stanze trovarono felice ospitalità Braque e Picasso, Gide e Cocteau, Valery e Mauriac, Rubinstein e Stravinskij. Non che tutti loro fossero personaggi probi, retti e raccomandabili. La stessa Mimì era una donna intelligente, ma anche figura sicuramente eccentrica, Alberto Arbasino ne ha lasciato questo straordinario ritratto: «In un Balenciaga rosso squillante e magari una cloche di scimmia ("Sembro un film su Attila, vero?"), si accendeva sigarette e sigarini attraverso la veletta di pizzo, dando intanto fuoco all´occasionale cappero rimasto impaniato da una precedente pizzetta, a pois».
Si sa, del resto, come sono gli artisti e i mecenati, ma certo il salto con Pasqualino e Arcangelo indubbiamente si avverte; e anche con le delibere da sottoporre al giovane Cappellacci o con i non sempre limpidi interessi del senatore Dell´Utri. Ardente del suo immobiliare provincialismo, Verdini si agitava e Carboni bisbigliava al telefonino: «Sono appena uscito dall´Ara Coeli». Senza sapere che per un vero romano tra l´Ara Coeli e Regina Coeli, dopo tutto, la distanza è molto più breve di quanto ne misura cinque o sei lettere in una lingua morta.