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 2010  luglio 23 Venerdì calendario

INTERVISTA A FEDERICO GAROLLA

Napoletano simpatico e bello, da giovane Federico Garolla era un omone di estra­zione sociale nobile e di grande savoir fai­r e . Ha appena compiuto 85 anni, il suo fascino ironico non l’ha ancora perduto e forse gli rimarrà intorno per sempre. Ci riceve nella sua casa milanese in zona Fiera, in uno di quei palazzi coi soffitti alti e gli ascensori antichi quanto i muri, che a salirci senti la cabina scric­chiolare un po’. Sulla scrivania del­lo studio troneggia un modernissi­mo computer. Garolla oggi dispo­ne di un sito in rete e di un immen­so archivio digitale dei suoi scatti. g
 proiettato nel futuro, maestro?
«Ma quale maestro, io sono una persona semplice. La ringrazio pe­rò per questa domanda, perché ten­go moltissimo all’aiuto che mia fi­glia Isabella mi ha dato. La digitaliz­zazione dei miei scatti l’ha curata lei, ha catalogato e recuperato tutto offrendo così la possibilità di risco­prire il mio lavoro e le mie testimo­nianze dei cambiamenti socio- poli­tici che ha vissuto il nostro Paese dal Dopoguerra».
Perché ha deciso di fare questo mestiere?
«Mio padre mi regalò una Con­dor F­errania con la quale fotografa­vo luoghi e persone delle quali par­lavo nei miei articoli. Negli anni Quaranta volevo fare il giornalista, raccontavo i fatti attraverso la scrit­tura e li corredavo con le foto. Un giorno Sandro Pallavicini, che diri­geva La Settimana Incom Carta per la quale avevo appena iniziato a col­l­aborare, mi inviò un telegramma in cui diceva perentorio ”Mandi an­che suo rullino”. Ebbi così la confer­ma del fatto che la mia vera passio­ne poteva trasformarsi in una pro­fessione. Fino a che mi resi conto che il fotogiornalismo pagava pa­recchio di più. E cambiai strada».
Come arrivò a Milano?
«Venni chiamato da Arrigo Bene­­detti, allora direttore dell’ Europeo . Mi presentai e lui mi fece promette­re che, se mi avesse assunto, avrei fatto solo il fotografo perché di gior­nalisti, disse, ne aveva già quattro­cento. I reporter di livello allora era­no pochi. Mi offrì uno stipendio al­to, per quei tempi. Poi abbassò, ma mi mandò a Parigi a farmi le ossa a Paris Match . Ero lì con gli altri corri­spondenti della stampa estera, e co­me per gli altri colleghi in quegli an­ni, il mio mestiere non riguardava tematiche specifiche, ma spaziava a trecentosessanta gradi per riem­pire i rotocalchi di fatti e facce delle personalità di allora. Spettacoli, cul­tura, politica, cronaca, tutto quan­to ».
Quel fotogiornalismo ritraeva un’Italia felice e in movimento continuo. Come si è trasformato il mondo, da allora?
«Le risponderò in napoletano: è
’na mezza chiavica , questo mon­do non mi piace più. Ma, facendo sempre parlare la mia napoletani­tà, le dico anche che la vita vale co­munque la pena di essere vissu­ta ».
Che cosa pensa dei fotografi di oggi?
«Già dalla metà degli anni Ses­santa il mondo editoriale cam­biò, le riviste diventarono più dozzinali e io presi un’altra dire­zione. Mi occupai di enogastro­nomia, illustravo rubriche di cu­cina e i volumi pubblicati da mia moglie Ada. E girai l’Italia per i grandi libri Mondadori e Rizzoli occupandomi di storia dell’arte. Il modo aggressivo di oggi non mi piace affatto. Non guardo nemmeno più i giornali illustra­ti, detesto il gossip e la violenza che ci trovo dentro e quando ve­do Fabrizio Corona in televisio­ne, cambio canale. Le mie foto erano racconti, in uno scatto bi­sognava dire tutto, era un modo per avvicinare la gente con sensi­bilità e gusto estetico. Mi piaccio­no invece Richard Avedon e Ugo Mulas, e il mio maestro è stato Federico Patellani: lui mi ha inse­gnato a chiedere di più».
Aquale tra le sue immagini è più affezionato e perché?
«Un occhio attento si accorge­rebbe che da Roma in giù la quali­tà del mio lavoro cambia. Dipende­va dal fatto che quando andavo verso sud sentivo ”l’odore di ca­sa”. Ad ogni modo il reportage che più ho amato è quello sull’infanzia abbandonata. Ho sempre provato particolare amore per i bambini e gli animali. Non ho mai fatto foto di cose brutte, anche quando in­quadravo persone povere cercavo di evidenziarne la dignità. E mi commuovo sempre davanti a uno scatto che feci a una culla da dove spuntavano due pupille. Di fronte a quello sguardo mi sentivo colpe­vole, rimproverato da quegli occhi disperati di neonato. Mi sono sem­p­re vergognato per quella violazio­ne ».
Lei ritrasse molti vip dell’epoca facendoli sempre risultare disin­voltie naturali. Qual èil suo segre­to?
«Intanto non usavo mai la paro­la vip. Per me erano persone nor­mali, al limite personalità, molti ad­dirittura veri amici. Ho sempre avuto un dono: mi basta un quarto d’ora per capire la gente, e loro si rilassavano, diventavano se stessi. Io e il regista Pietro Germi ci adora­vamo, a Ungaretti facevo da auti­sta pur di seguirlo nelle sue giorna­te, mentre per Moravia non avevo una gran passione: si illuminava solo quando vedeva una donna, aveva tutti i difetti di uno snob bor­ghese ».
E come andò con Claudia Cardi­nale?
«Tra noi c’era un rapporto di estrema fiducia, lei è una donna af­­fettuosissima e di fascino. Una vol­ta dovetti dedicarmi a un lavoro sulle ceramiche, lei era libera e mi accompagnò. Chiacchierammo mentre scattavo e lei, diva, si fece fare una serie di foto in mezzo a piatti e vasi senza chiedermi nulla in cambio. Posso dirle che qualsia­si e­sperienza mi ha lasciato una ric­chezza, la mia professione era im­portante, andavo in servizio anche con la febbre o carico di stanchez­za se arrivavo da un viaggio. E non mi sono mai sentito povero».
Che cosa fotograferebbeoggi, lei che è «L’occhi o del tempo»?
Tutto quello che ancora mi crea curiosità, fatti e cose che non cono­sco e che mi darebbero nuovi sti­moli. Nessuna ”paparazzata”,non le facevo nemmeno allora. Non ru­bavo immagini, e dalla fine degli anni Cinquanta ho ritratto circa ot­tocento personaggi. Sceglievo am­bienti domestici, passeggiate per lo shopping, pause di lavoro sul set, le vacanze, i pranzi con la fami­glia o, come nel caso di Virna Lisi, il giorno del matrimonio».
E se guardasse indietro, come classificherebbe la sua carriera?
«In passato sono stato paragona­to a Brassaï e Doisneau, due gran­di. Questo è stato per me motivo d’orgoglio,ma io non so giudicare. Le mie foto parlano per me».