Marco Frau, Libero 22/7/2010, 22 luglio 2010
LA COOP FA GLI UTILI CON LE TASSE DEGLI ALTRI
Le coop, pagando le tasse in misura marginale rispetto alle altre tipologie di imprese, non contribuiscono, in modo adeguato ed equo, alla fiscalità generale dello stato e quindi al progresso civile del paese. Contribuire, con una quota proporzionale dei propri utili, a finanziare il sistema scolastico, lo stato sociale, la realizzazione delle opere pubbliche, le infrastrutture, il sistema della giustizia, della sicurezza pubblica, della difesa e quant’altro necessario al buon funzionamento dello Stato è un dovere che compete a tutta la comunità, sia essa composta da persone fisiche o imprese. Non si capiscono le ragioni di un’anomalia che vede le coop esonerate dall’obbligo di pagare le tasse in misura equa, posto che contribuire alla fiscalità generale è la regola principale su cui si regge la convivenza e la coesione sociale di qualsiasi comunità e popolo civile. La giustificazione che tali forme di imprese non perseguono, come recita la Costituzione, finalità di lucro a carattere privato, non è sufficiente. Tale motivazione, da qualsiasi punto di vista la si voglia esaminare, non è sé un elemento etico e morale sufficiente per esonerare grandi imprese e grandi colossi che operano nell’economia alla stessa stregua delle imprese di capitali, dal partecipare, tramite la fiscalità, al benessere e al progresso civile del paese. Non stiamo parlando di un segmento marginale dell’economia nazionale, ma di un sistema imprenditoriale che occupa uno spazio di rilievo come dimostrano i seguenti dati: dal 2001 al 2006, in Italia, le cooperative sono passate dal 2 al 7,5% del Pil (Prodotto interno lordo), impiegando un numero di addetti che in cinque anni è passato da 500 mila a 1,2 milioni. Occorre tener presente che la stragrande maggioranza delle coop non svolge più da tempo nessuna funzione sociale e mutualistica che la differenzi in modo sostanziale dalle altre forme di impresa e che giustifichi il trattamento fiscale di favore; pertanto tale situazione appare non solo politicamente discutibile ma anche socialmente ingiusta. Un colpo mortale al concetto mutualistico arriva dal congresso della Legacoop, celebrato all’Auditorium della tecnica di Roma il 14 aprile del 1999, con la benedizione dell’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema. In quella importante di per
che diede il presidente del Consiglio D’Alema era naturalmente favorevole all’istanza proposta da Barberini, ossia di poter destinare parte degli utili delle cooperative al cosiddetto socio di capitali, senza perdere i benefici fiscali. L’artefice della elaborazione della Legge n. 59 del 1992, fu Edwin MorleyFletcher, un fedelissimo di Lanfranco Turci, comunista riformista come lui, membro della presidenza e responsabile finanza della Legacoop. L’idea di partenza che aveva ispirato quel provvedimento era che le imprese cooperative non potevano non aprirsi al venture capital. Per l’istituzione del socio sovventore venne recuperato un vecchio progetto di Francesco Galgano. Grazie anche al contributo del premio Nobel per l’economia, James Meade, che di cooperative capiva ben poco, si mischiò il diavolo con l’acqua santa, cercando di adattare al contesto cooperativo il concetto di labour-capital partnership con le sue potenzialità di sviluppo occupazionale. L’obiettivo della riforma era quello di attrarre capitale a sostegno delle cooperative. Il congresso della Legacoop del 14 aprile 1999 sancì che le cooperative potevano essere costituite da due tipologie di soci, quello «cooperativo» vincolato al principio mutualistico, che non partecipava alla divisione degli utili, e quello «sovventore assise, a cui io partecipai in veste di delegato del Piemonte, verrà legittimata l’introduzione nella compagine sociale delle cooperative della figura del socio sovventore, ossia «il socio di capitale»: un vero e proprio investitore finanziario come in qualsiasi società per azioni, con pieno diritto di partecipare alla distribuzione degli utili prodotti dalle cooperative. (...) Il problema posto al centro del congresso della Legacoop di Roma era come superare tale limitazione senza mettere in discussione le agevolazioni fiscali. La risposta di capitale», che invece vi partecipava. Fu una scelta aberrante che collocava definitivamente le grandi cooperative fuori dai princìpi mutualistici che ne avevano guidato lo sviluppo per circa un secolo. Non furono in molti ad opporsi a tale svolta politica. Uno di questi fu Remo Checconi di Coop Liguria che considerò sbagliata e pericolosa tale scelta. «Barberini sbaglia a proporre una simile riforma – disse Remo Checconi – l’ emissione di azioni negoziabili e soprattutto la divisione degli utili cambia completamente le regole del gioco che abbiamo avuto sino ad oggi. Rischiamo di snaturare tutto il sistema e di perdere le agevolazioni fiscali». Perfino un personaggio spregiudicato come Fabrizio Gillone prese le distanze e condusse la sua battaglia politica contro tale riforma. Intervistato da Repubblica il 12 aprile 1999, anche anche un liberal come Fletcher prende le distanze dal progetto sostenuto da Ivano Barberini, motivando così la sua posizione: «L’ispirazione originaria del progetto voluto da Lanfranco Turci era molto chiara: le cooperative godono di particolari forme di incentivi, soprattutto di natura fiscale, perchè sono uno strumento di promozione dell’imprenditorialità a carattere sociale e gli utili prodotti vengono destinati sempre a riserva indivisibile. corretto pensare che le azioni dei soci di capitale incorporino il capital gain e in caso di scioglimento sia riconosciuto un incremento di valore proporzionale. Parlare di una divisione degli utili anno per anno avrebbe l’effetto di depotenziare molto fortemente il principio dell’accumulazione cooperativa snaturandone il fine sociale. In Lega oggi c’è invece chi pensa di poter arrivare a distribuire anche il 50% degli utili». Purtroppo il congresso sposò a larga maggioranza la svolta proposta da Ivano Barberini con la benedizione del presidente del Consiglio di allora Massimo D’Alema. (...) Secondo uno studio della blasonata Nielsen la quota di mercato della Coop e della Conad in Italia nel 2009 è del 28% (18,2% Coop e 9,8% Conad). Come hanno fatto le coop a conquistare questo primato? Grazie al collateralismo con il Pci e il Psi prima, e con il PdsDs dopo, e alla benevolenza delle amministrazioni rosse; grazie a un regime fiscale di assoluto favore; a un assetto societario blindato e non scalabile.