Lombardi, Il Tempo 23/7/2010, 23 luglio 2010
UPIM CAMBIA PELLE E DIVENTA TECNO-POP
Per i ragazzini degli anni Sessanta, in certi quartieri romani dove fioccavano i travet negli appartamenti tre camere e cucina in affitto, la passeggiata del pomeriggio, finiti i compiti, aveva una meta soltanto: l’Upim di zona. Una festa da Italia in Fiat 850 (e difatti un tempo Upim era dell’Avvocato). Gelato, mano alla mamma e via, a curiosare sui banchi, tra astucci di scuola, giocattoli cheap, quaderni, rigorosamente con la copertina di plastica. Mamma si comprava il rossetto, la sottoveste, l’insalatiera di moplen. Le sorelle più grandi il baby doll e i cerchietti per i capelli. A Roma spuntarono come funghi, gli Upim. Nei quartieri Italia, Trieste, alla Tuscolana, in piazza della Balduina, a piano strada dei nuovi palazzi. A via del Tritone la sede era più paludata, in un edificio d’antan e grigio. Upim, ovvero l’apoteosi italiana del grande magazzino, l’antesignano del non-luogo nel quale ci si poteva provare un cappottino senza il fiato addosso della commessa. Upim, svuotato e ucciso dai mega-non luoghi che sono ora i centri commerciali ai margini della città. E che punta sul rilancio, perché a gennaio scorso è passato, dopo 40 anni nell’orbita La Rinascente, al gruppo Coin. I veneti così hanno inglobato tutto, azzerando la storica rivalità dei grandi magazzini: da una parte appunto La Rinascente e Upim e dall’altra Coin e Oviesse. Così nel caro vecchio bazaar cambia tutto. Nell’insegna, via la scritta minimale con le lettere tondeggianti. Negli scaffali tanti aggeggi informatici.
Nello stile, neanche un’idea degli store anni Settanta. In Veneto ce n’è già uno, senza insegna, camuffato come si fa per le auto quando si vogliono saggiare i nuovi modelli senza svelarne forma e dettagli. Ma molto altro non si sa. E pero ieri a Milano l’amministratore delegato Stefano Beraldo, in occasione del lancio della partnership con Oviesse e i fratelli Ennio e Carlo Capasa di Costume National, ha svelato la filosofia del nuovo grande magazzino. Si chiamerà Upim Pop, insomma la sigla storica sarà aggiornata con tre lettere che sono molto più dell’abbreviazione di «popolare», sinonimo internazionale di estro artistico giovane e contemporaneo. Insomma, il cerchio si chiude, se è vero che la pop-art ha in Warhol il nume tutelare e che il geniaccio Andy raccontò in immagini appunto la «cultura del supermercato», come le indimenticabili serie della zuppa Campbell. Dei 130 negozi Upim, sessanta saranno Ovs (di fatto 26 lo sono già diventati), venti si trasformeranno in Coin (già fatto per 6) e trenta saranno squisitamente Upim Pop. «Nuovo marchio e nuova mission, quella di diventare un centro commerciale da città, dove si ospitano altri brand e dove si trova un po’ tutto, dagli articoli sportivi all’informatica», spiega Beraldo. Ma addio per sempre al modello Warhol.
«Lo store design odierno è espresso da oggetti come l’iPhone», anticipa l’ad, che intende portare il gruppo Coin a fatturare due miliardi di euro in tre anni. Ci piacerà l’Upim Pop? Reggerà la concorrenza dei centri commerciali, che, avvertono alcune statistiche, cominciano un po’ a stufare (troppo grandi, troppo caotici, troppo asfissiati dal traffico)? Oppure rimpiangeremo l’Upim del protoconsumismo italiano, il negozione magari a due piani, ma con un suo ordine, una sua semplicità, un perfetto mix tra abbondanza e morigeratezza? Insomma, un posto in cui lo shopping non equivaleva a frustrazione? Perché sì, era rassicurante l’Upim delle origini. Quello comparso nell’Italietta fascista, anno 1928, a Verona, con un marchio, Upi, che significava Unico Prezzo Italiano. Dopo, si aggiunse la "m" equivalente a Milano e «in mostra», per distinguersi da un’omonima agenzia di pubblicità preesistente. Unico prezzo in mostra era una sorta di anti-furto.
Per evitare il taccheggio, tutti gli oggetti costavano o una, o due, o tre o quattro lire. All’entrata si versava la somma che si intendeva spendere e si avevano altrettanti biglietti, corrispondenti al numero di prodotti che si intendeva acquistare. Fu un successone, una ressa agli scaffali. Nel 1934 gli Upim erano 25, nel ’42 divennero 52, nel ’59 arrivarono a 77. I pomeriggi tra i banchi colorati si trasformarono in un rito. Essenzialmente femminile. Donne le acquirenti, donne le venditrici, le commesse, appellate con un livellante «signorine» a dispetto di fede all’anulare o di aria stagionata. Luci al neon, niente musica, la marce infilata in buste di carta con la scritta del marchio in rosso, la meraviglia delle scale mobili - solo in salita però - quasi un luna park per i ragazzini. Dal prossimo settembre dovremo abituarci a un’altra insegna e a un altro logo, scelto a fine marzo tramite la community di Zooppa tra 4735 progetti grafici. Firmato dal grafico veronese Gianni Zardini, e pagato 12 mila dollari, è una "v" straiata, simile al segno matematico «maggiore di» rosso-arancio in campo giallo. Nel sondaggio via internet ha suscitato disappunto e polemiche. Ma Coin non vuole pensarci.