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 2010  luglio 22 Giovedì calendario

IO HO ARRESTATO RIINA LA POLITICA RIMASE FUORI I MAGISTRATI INVECE

Egregio direttore, sono un mare­sciallo dei carabi­nieri in congedo, nonché apparte­nente a Crimor, il gruppo del capitano Ultimo che ha arre­stato Totò Riina. Le scrivo perché dopo aver sentito sciocchezze tra la trattativa di Stato e la mafia, il tentati­vo di colpo di Stato, l’arresto di Riina, le accuse al capita­no Ultimo, al generale Mori e generale Ganzer, voglio offri­re il pensiero e il racconto di chi le cose le ha vissute e fat­te in prima persona. Massimo Ciancimino par­la e dopo vent’anni si torna a parlare con insistenza della morte di Falcone e Borselli­no, trattativa tra mafia e Sta­to; politici e magistrati che parlano di tentativo di colpo di Stato, servizi segreti devia­ti, signor Franco eccetera... La grande mano del «livello superiore», intoccabile e so­prattutto introvabile, la soli­ta storia. Infangare il Paese e chi ha veramente lavorato per il bene dell’Italia. Ebbene, voglio raccontare in breve la storia della cattu­ra di Totò Riina. Il nostro gruppo, Crimor, lavorava a Milano occupandosi di Cosa nostra. Tutti dicevano che a Milano la mafia non esiste­va. In pochi anni, con varie indagini mettiamo in luce che a Milano la mafia esiste ed è anche ben radicata, arre­stiamo e sgominiamo le fami­glie Carollo e Fidanzati. Sia­mo un gruppo di professioni­sti coordinato da un grande comandante, il capitano Ulti­mo. Siamo anche molto ami­ci di Falcone, e facciamo rife­rimento a un grande genera­le, Carlo Alberto Dalla Chie­sa, il nostro simbolo. Il no­stro motto è «lavorare per il popolo oppresso».
Il giorno della morte di Fal­cone ci ritroviamo nel nostro ufficio e siamo sgomenti; ci guardiamo in faccia, siamo una decina, e prendiamo una decisione che nasce spontanea. Andiamo a Paler­mo ad arrestare Totò Riina e smantellare la sua organizza­zione. quel giorno che na­sce la fine di Riina. La mafia ha ammazzato il generale, giudici, colleghi, ora Falco­ne e in quel modo, ci sentiva­mo in dovere di fare qualco­sa e mettere fine al massa­cro. Nessuna organizzazio­ne segreta o chissà quale pia­no strategico messo in piedi con la mafia. Dieci persone che disprezzano la mafia e la­vorano per il popolo oppres­so decidono di catturare Sal­vatore Riina, l’imprendibile. Viene data comunicazio­ne delle nostre intenzioni al generale Mori, che a quel tempo era colonnello e vice­comandante del Ros, il qua­le inoltra le nostre intenzioni direttamente al Comando che accetta e ci dà il via. Di quel tempo ricordo una co­sa, il terrore delle istituzioni, Totò Riina imprendibile che mette sotto scacco l’Italia, le grandi lacerazioni della ma­gistratura palermitana, che era quasi tutta schierata con­tro Falcone e Borsellino che quasi venivano presi per paz­zi. Oggi parlano bene, ma ie­ri razzolavano male, molto male.
Fui io, insieme al mio colle­ga Ombra, a mettere per pri­mo il piede a Palermo; facem­mo le prime ricognizioni, le prime verifiche sugli obietti­vi e sui personaggi. Rimasi quasi sconvolto per la man­canza di indagini, riscontri, indizi investigativi. La magi­stratura faceva pochissimo, le forze di polizia operavano fuori Palermo, la politica pro­prio non si vedeva e sentiva. Oggi mi viene da ridere quan­do sento tutti quei magistrati di Palermo che parlano di Antimafia. Ma dove erano al­lora? Cosa facevano?
Naturalmente l’indagine nasce in clandestinità, non ci fidavamo di nessuno, va avanti per circa sette mesi di grandi sacrifici, troviamo gli indizi, le tracce di Riina attra­verso i Ganci e arriviamo vici­no al suo rifugio, pochi gior­ni e avremmo trovato la ca­sa.
Il fato ci mette la coda. In quei giorni al Nord viene ar­restato Balduccio Di Mag­gio, che si pente e dice di es­sere stato l’autista di Riina si­no a qualche anno prima.
Viene portato a Palermo, racconta che quando faceva da autista prendeva Riina lungo la strada, alla Rotonda di viale Michelangelo, vicino al famoso Motel Agip, senza però indicare un obiettivo preciso. Per noi quella zona era altamente strategica poi­ché avevamo individuato un obiettivo frequentato dal ma­fioso Domenico Ganci, da noi ritenuto molto vicino a Totò Riina. Mettiamo sotto osservazione un’abitazione e filmiamo chi entra e chi esce, li facciamo visionare al pentito il quale riconosce la moglie e i figli di Riina. L’in­domani ci posizioniamo, esce Riina e l’arrestiamo. Questo in breve.
Il pentito è stata la nostra sfortuna più grande. In pri­mo luogo perché ha fatto sì che l’indagine fosse cono­sciuta dalla magistratura, la seconda perché non è stato più possibile portarla avanti con le nostre modalità opera­tive. Noi, per nostro modus operandi , quando trovava­mo un latitante non lo arre­stavamo subito, anzi lo face­vamo stare libero, però lo se­guivamo, gli stavamo vicino 24 ore su 24 per capire i suoi percorsi, analizzare i suoi obiettivi, verificare la struttu­ra organizzativa, documen­­tarla, farne prova e poi an­nientare l’intera struttura. Questo era in origine il no­stro obiettivo con Riina. Ana­lizzare i suoi movimenti, le dinamiche operative di Cosa nostra partendo dal vertice, studiare i loro percorsi men­tali per poi annientarli e di­struggerli. Questo era il no­stro obiettivo finale, con il ri­s­ultato immediato di cattura­re Riina e distruggere la cupo­la.
Dopo il pentito questo non fu più possibile, tutti voleva­no esclusivamente l’arresto di Riina. Tutti volevano dirci cosa fare, fu solo grazie alla determinazione del colon­n­ello Mori e del capitano Ulti­mo che le cose andarono co­me sono andate, altrimenti penso che Riina l’avrebbe fat­ta franca anche allora.
E per fortuna che andò co­sì, se avessimo fatto secondo i nostri propositi ci avrebbe­ro arrestati tutti per essere mafiosi, visto com’è andata con la perquisizione, non fat­ta solo esclusivamente per questioni investigative e le­gate all’indagine.
Parla Massimo Ciancimi­no, si parla di trattativa ma­fia- Stato, papello e terzo li­vello. Per noi Vito Ciancimi­no all’interno della mafia a quel tempo non contava più niente, roba vecchia che la mafia aveva abbandonato, com’è suo costume quando una cosa non serve più. sta­to ascoltato perché voleva parlare,com’è giusto che fac­cia un investigatore quando si presenta un criminale. Pro­babilmente oggi una certa magistratura, se non fosse stato ascoltato, direbbe che non fu sentito per aiutare la mafia. Politici di oggi e di ieri e magistrati che parlano di trattative tra Stato e mafia. Do­v rebbero spiegare cosa face­vano al­lora, vi­sto che facevano parte dello Stato. Può mai un generale o un ca­pitano trattare per lo Stato senza che questi non sappia nulla? Io penso di no.
 di questi giorni la notizia della condanna al generale Ganzer e colleghi, questo de­ve far riflettere e molto sullo stato della magistratura e del­le forze di polizia. Deve far ri­flettere perché ormai è sem­pre più evidente l’anomalia del Codice di procedura pe­nale, ovvero le indagini diret­te e coordinate dai magistra­ti. qui l’errore di fondo. Un magistrato non può gestire delle indagini, le indagini le devono gestire e fare le forze di polizia. Perché, vede, un’indagine è un processo sociale, in quanto coinvolge la gente; è un processo psico­logico in quanto coinvolge le strutture mentali delle perso­ne; è un processo sistemico dove la cosa più logica alle volte non è la più giusta per il fine superiore, che è quello del bene comune. L’indagi­ne è compito del poliziotto che vive e opera tra la gente, che conosce la strategia, la tattica e il terreno su cui com­batte.
Ma lei ha mai visto un magi­s­trato fare un pedinamento, uscire per strada e seguire un mafioso o un presunto la­dro di biciclette? Io mai. E al­lora come fanno a dirigere le indagini (e dirigere significa comandare) quando non hanno la benché minima co­­noscenza del sistema? Un ve­ro investigatore trova i ri­scontri e gli indizi sul terreno attraverso osservazione e pe­dinamento, e solo allora chiede le intercettazioni. Per­ché le intercettazioni per gli investigatori sono delle vere sciagure, hanno bisogno di verifiche, controlli, molto personale levato alla strada. Un investigatore intercetta solo quando c’è quasi la cer­tezza dei reati. Per un investi­gatore le intercettazioni so­no di ausilio alle indagini e non lo strumento principa­le.
Oggi siamo al contrario, si fanno le intercettazioni, si ar­restano e si mettono alla go­gna i cittadini senza un ri­scontro oggettivo e poi ven­gono scarcerate e tante scu­se e grazie. C’è bisogno di cambiare il Codice di proce­dura penale e dare la direzio­ne delle indagini alla polizia. I miei ex colleghi mi dicono che ormai non fanno più nul­la di iniziativa, hanno paura di lavorare perché un magi­strato potrebbe indagarli e metterli alla gogna peg­gio dei criminali. Io stesso oggi, veden­do com’è andata ai miei coman­danti, non so se prenderei le deci­sioni che ho pre­so in passato. Sa cosa mi dice mia fi­glia a proposito dei guai al generale Mori e capitano Ultimo? «Pa­pà, Riina era da vent’anni la­titante e non è successo nul­la, voi lo arrestate, mettete sotto la mafia e i magistrati vi incriminano. C’è qualcosa di strano, ma non è che i ma­gistrati si sono arrabbiati per­ché lo avete arrestato?».

* Maresciallo dei carabinie­ri in congedo - Componente del gruppo guidato dal capi­tano Ultimo che arrestò Totò Riina