Guido Ceronetti, Corriere della Sera 21/7/2010, 21 luglio 2010
FUGHE D’ AGOSTO LIBERT ILLUSORIA
Le vacanze sono ormai diventate, nelle estati d’ Occidente, un fenomeno troppo grave e importante, per non essere tentati dall’ interpretarle. Prima del Sessanta c’ erano le villeggiature (termine in disuso) e le colonie per i bambini, create dal regime fascista. (In Francia, dal governo Blum, le prime grandi vacanze vennero istituite nel 1936: il mezzo era il treno). Ricordo i tre giorni, di cui uno solo interamente festivo, l’ Assunta, nel cuore dell’ agosto: partenze, moderatamente di massa, verso luoghi prossimi, il mattino del 14; rientri il 16 sera, di tutti, con poche eccezioni. Andavamo a vedere i rientri sotto le pensiline: i treni rovesciavano sui marciapiedi valigie accorse ai predellini nelle prime ore del 14; a mezzanotte del 16 tutto era finito. A Roma era diverso: lo svuotamento parziale cominciava subito dopo il ferragosto e terminava con precisione cronometrica il 31 - ed è così ancora. Forse, tutti quei romani che partivano allora non andavano più in là di Sacrofano, di Palestrina, di Terracina; i letterati e gli artisti si risalutavano tutti a Fregene; la plebe più sudata predava i treni dell’ Ostiense e la pelle umana sulle sabbie di Ostia aveva il suo epilogo estivo. La misura, tutto sommato, non era oltrepassata. L’ inconscio collettivo, con le autostrade e i viaggi aerei, ha finalmente percepito la nocività fondamentale dell’ agosto, e quantità di popolazione smisurate si sforzano di fuggirlo con ogni mezzo, e senza troppe riserve circa la spesa. Il semplice esorcismo dei Tre Giorni non basta più: bisogna che l’ Altrove sia altrovità illimitata, e che si prevenga agosto, potendo, da mezzo luglio, e cancellandolo fino a metà settembre (rientro dei dirigenti) si possa, cautamente, tirare sollievo. Argomentare che l’ agosto, in quanto foglio di calendario (sua maschera di Onibaba) è con te dovunque, ti attende a Manaos come a Bergen, nelle Highlands come nel Buthan, non serve: prevale l’ idea che fuggirlo si può. Quando pensi che tutti quei milioni di affannati che si credono liberi, liberati da ogni superstizione, superiori ai pellegrinaggi religiosi, ben difesi da ogni rischio di credere nell’ astrologia, patiscono in realtà l’ implacabile influsso maligno del Sole in Leone e, di colpo, in Vergine, demonicità impalpabile, e intanto sperimentano i denti di tigre della Solitudine, a tal punto da imbarcarsi in cuccette gremite, su automobili imbottite di familiari, da non temere di far soffrire i bambini in aerei di basso costo, in scali tropicali, e neppure la colla cannibale di una spiaggia romagnola! Ci ingozziamo di vacanza vacante di se stessa, per paura di una pandemia metafisica in sospeso, morbosità incurabile e fuori diagnosi - e tuttavia realissima, di disperazione. Presentarsi come assenza - simbolicamente rappresentata dai grandi vuoti urbani - è la modalità dell’ agosto di essere onnipresente. Tutti inconsciamente lo sentono, ma le coltellate a vuoto vibrate al suo inafferrabile fantasma dalle termiti in autostrada a perdita d’ occhio non lo stenderanno morto: il risultato di questa impotenza a sbarazzarsene varrà un cospicuo aumento, con diversificazioni d’ epoca postmoderna, delle nostre infelicità croniche tradizionali. Solo un Buddha può compiere, ma non per tutti, un vero agosticidio. Per i vecchi che non hanno fatto a tempo a morire entro metà luglio, è il momento di restare verticalmente soli nei condominii deserti, dove una volta al giorno viene la coppia di volontari col rancio completo di pasta e formaggini - il segnale per la Guardia Medica appeso e dimenticato al collo. Oppure, per loro, nonni e nonni-bis venerati, è pronta la collocazione ambiguamente provvisoria in giudiziose Strutture ospiziali, dove giocando a carte o a dama con incoraggiati colleghi in derelizione si divertiranno un mondo. Una cartolina con le piramidi dei Maya o l’ immancabile Alhambra, munita delle fiabesche firme della Famiglia e dei suoi amici, gli porterà la gioiosa certezza del suo «neppure qui, sai, ti dimentichiamo».
Guido Ceronetti