Daniela Monti, Corriere della Sera 21/07/2010, 21 luglio 2010
PAOLO ROSSI «LA PAURA DI VOLARE MI E’ COSTATA IL POSTO IN AMERICA»
«Sull’ aereo ci sono salito una volta sola. Milano-Londra, biglietto andata e ritorno. Al momento di scendere, mia moglie mi ha detto: «Quando torniamo, sto io dalla parte del finestrino». «Non ci sarà ritorno», le ho risposto. La mia avventura nei cieli finì lì: il viaggio verso Milano lo facemmo in treno. Non è paura, piuttosto una sensazione tragica di angoscia e di sospensione nel vuoto». Non è paura, insiste Paolo Rossi, classe ’ 23, filosofo e storico della scienza, fama e successo internazionali all’ altezza di quelli che ebbe il suo maestro, Eugenio Garin. « come affacciarsi alla finestra e all’ improvviso le ginocchia si sciolgono. Quando sento storie di persone che danno in escandescenze in volo, ecco, io le capisco. C’ è chi prende farmaci, chi si fa iniezioni per narcotizzarsi. Avrei potuto provarci, ma in fondo non sono un viaggiatore, ho dei limiti psicologici, uscire dalla familiarità, ora, mi mette un po’ d’ angoscia». Non volare, però, gli ha cambiato la carriera. C’ è un episodio segreto nella vita del professore. Cambridge, 1970. Paolo Rossi è in Inghilterra per tenere un ciclo di seminari quando riceve una lettera di invito dalla Paul Getty Foundation, che allora muoveva i primi passi: un anno accademico in California, stipendio da docente ma nessun obbligo di insegnamento, solo studio. «Nell’ impeto accettai, poi entrai in crisi e dovetti rimediare. L’ idea di sorvolare l’ oceano mi atterriva». Suscitare l’ interesse degli americani, racconta, per un giovane filosofo italiano «era di per sé una cosa molto sorprendente». Dell’ America, poi, Rossi conosceva molto. Conosceva soprattutto, da avido lettore delle copie d’ importazione (il cui acquisto pesava non poco sul bilancio familiare), il Journal of the History of Ideas, «una grande rivista di storia delle idee, del tutto nuova per l’ Italia, dove non c’ era nulla di simile». Anima della rivista era lo storico Arthur Lovejoy, «per me un modello inarrivabile», circondato da un gruppo di giovani ricercatori che Rossi conobbe a Cambridge, giovanotti aperti, veloci, che assorbivano la cultura europea mantenendo però quel distacco che consente di vederne più chiaramente pregi e difetti, per guardare oltre. «Ci fu un convegno a Cambridge, in quei mesi: fra gli ospiti c’ era Karl Loewith, allievo di Heidegger, studioso di grande fama che era stato per dieci anni in Giappone per sfuggire alle leggi razziali. Un signore già anziano, che camminava con fare altezzoso, come molti allievi di Heidegger erano abituati a fare. Gli americani, quando lo incrociavano, lo canzonavano a voce bassa: «Per dieci anni ha pensato che i giapponesi si inchinassero a Loewith, invece quelli si inchinano a tutti!». Era anche questo, la loro allegra irriverenza, ad attrarmi». Della trasferta americana non se ne fece niente. Al primo sì entusiasta, dettato dall’ impulso, seguì una lettera dispiaciuta, in cui, senza un accenno al motivo reale, si declinava il gentile invito della Fondazione. Rimpianti? «Tanti. I miei libri sono molto tradotti all’ estero. Stati Uniti, Giappone: non potere visitare quei Paesi è stata una sofferenza». A portare Rossi a Cambridge, in quell’ estate di quarant’ anni fa, era stata una borsa di studio. «A chiamarmi fu Mary Hesse, una figura mitica, professoressa di filosofia della scienza. Mi invitò in un college che proprio quell’ anno cambiò nome diventando il Wolfson. Avevo l’ obbligo di tenere alcuni seminari: uno lo feci su Bacone, un altro su un mago inglese del Seicento, tale Robert Fludd che io, in apertura del corso, pronunciati Fliudd. Andai avanti così per metà lezione, finché uno dei miei allievi non saltò su e disse: "Ah, Fladd", correggendomi la pronuncia e facendo finalmente capire ai suoi colleghi di quale entità misteriosa stessi parlando. Ero giovane, inesperto, diventò una cosa simpatica, che ruppe il ghiaccio». Prima di Cambridge, c’ era stata l’ esperienza al Warburg Institute, «mitico pezzo di cultura tedesca trapiantata a Londra», anche quello dunque raggiungibile via terra con la sola piccola seccatura della Manica. Direttore era Ernst Gombrich. «Avevo un biglietto da visita eccezionale: la laurea con Garin, che per gli inglesi (ma non solo per loro) voleva dire il meglio della storia del Rinascimento. Mi resi conto allora quanto conta la scelta del professore con cui ci si laurea. il punto di partenza che decide la vita delle persone. Dovrebbero pensarci, i nostri studenti. E invece non lo fanno». Ma prima ancora dell’ Inghilterra (e dell’ America che non arrivò mai), Rossi di salti ne aveva fatto un altro, pure quello decisivo: dal liceo di Città di Castello, dove insegnava, a Milano, assistente volontario di Antonio Banfi. «Anche la fortuna conta in una carriera e io ne ho avuta (tanti miei colleghi non parlerebbero così, mi sembra di sentirli: " stata solo grandezza filosofica!"). Il mio libro su Francesco Bacone, uscito per Laterza nel 1957, "Francesco Bacone: dalla magia alla scienza", fu recensito in modo entusiasta da George Boas, critico del Journal of the History of Ideas. Questo mi diede uno status fuori dall’ Italia che mi ha cambiato l’ esistenza. Quel libro, e molti che seguirono, divenne qualcosa che circolava nel mondo, mentre in genere, i libri di filosofia, li guardano i 45 professori d’ Università che si occupano dell’ argomento». Oggi, terminato l’ insegnamento, Rossi è ancora al lavoro: «Sto sempre scrivendo un libro, quello è un vizio che non si perde».
Daniela Monti