Stefano Bucci, Corriere della Sera 21/07/2010, 21 luglio 2010
1935 DALI’ E LE FOLLIE PER MAE WEST. UNA STANZA HA IL SUO VISO
Lei: «Hai in tasca una pistola, oppure sei solo contento di vedermi?». Lui: «Il tuo viso è un sogno che trasformerò in un soggiorno». Parole dal repertorio di due tra i più grandi battutisti della storia, parole che però i due mai si scambiarono. Da una parte c’ è Mary Jane West alias Mae West (1893-1980), sex simbol indecente, diva ironica dalla sensualità scandalosa e matura (il suo successo arrivò «solo» dopo aver compiuto i quarant’ anni, a lei venne dedicato il giubbotto di salvataggio in dotazione ai piloti della Raf), capace di risollevare le sorti delle major americane con film forse non indimenticabili (Non sono un angelo o My Little Chickadee) ma comunque pieni di doppisensi (ancora dal suo repertorio: «Tra i due peccati scelgo quello che non ho ancora provato» oppure «La curva è la più graziosa distanza tra due punti»). Dall’ altra parte c’ è invece il marchese di Púbol alias Salvador Domingo Felipe Jacinto Dalí Domènech alias Dalì (1904-1989), pittore-mago del surrealismo (autore di capolavori mistici come «La persistenza della memoria» e «La Tentazione di Sant’ Antonio» oppure dissacratori come «Il grande masturbatore» o «La contorsione topologica della figura femminile»), ma anche scrittore di quel Diario di un genio che inanella preziose (e volgari) perle di saggezza degne della West («L’ unica differenza tra me e un pazzo è che io non sono pazzo» oppure «Desidero che ogni colpo di pennello dia l’ immagine perfetta dei testicoli della pittura»). L’ attrice e l’ artista: un incontro esplosivo destinato in qualche modo ad anticipare quello che sarebbe più tardi avvenuto tra Andy Warhol e Marilyn; un incontro da cui sarebbe scaturito uno dei simboli del surrealismo, quel Ritratto di Mae West che può essere usato come appartamento (1935) dove la diva è raffigurata «come una stanza con tanto di divano a forma di labbra e di altri elementi di arredo che, nell’ insieme, ne riproducono il volto stesso». Diventato poi una vera e propria stanza-installazione nel Museo Dalì di Figueres (successivamente replicata all’ Art Institute di Chicago), quel Ritratto continua a nascondere (e a rivelare) segreti e misteri dietro ai suoi quadri-occhi, alle sue tende-capelli, al suo naso-caminetto, alla sua bocca-sofà. L’ ultimo: il curatore della prossima mostra su Salvador Dalì in programma a Milano (titolo Il sogno si avvicina dal 22 settembre al 30 gennaio, a curarla è Vincenzo Trione) ha scoperto che non era così che Dalì aveva immaginato la sua Mae ma bensì con due schermi tv al posto delle orbite e così l’ ha ricostruita (per la prima volta) nelle stanze di Palazzo Reale. A provarlo la testimonianza dell’ allestitore dell’ esposizione milanese, l’ architetto e designer Oscar Tusquets Blanca (al tempo assistente del maestro) e un articolo pubblicato il 10 ottobre 1974 su «La Actualidad Española» dove (accanto ad una grande intervista esclusiva con Goering) c’ è un’ intervista in cui lo stesso Dalì parla della casa di Figueres (con tanto di album fotografico) e dei suoi «segreti». Ma c’ è dell’ altro. Mae non avrebbe voluto essere una stanza qualsiasi, ma piuttosto un bagno. Così avrebbe detto proprio la West parlando con Dalì nell’ unico incontro reale tra i due, avvenuto a Hollywood (sembra nei primissimi Anni Trenta) e a suo tempo testimoniato dall’ americana Meredith Smith in un libro del 1995. Con loro ci sarebbe stato anche un terzo incomodo, anche lui assai speciale: Harpo Marx, quello dei tre fratelli con la parrucca rosa e che suonava l’ arpa. L’ incontro tra Dalì e Marx sarebbe stato così solo un fugace episodio, mentre a colpire davvero l’ immaginazione dell’ artista sarebbe stata una copertina di «Time» capitata sotto le sue mani durante uno dei primi suoi viaggi negli States (magari quello del 1933, concluso con una mostra dal successo strepitoso nella Galleria di Julien Levy a New York). Niente di profondo nè di duraturo, niente di più uno «sfioramento» (nonostante ciò che i protagonisti abbiano in qualche modo voluto sempre far credere). Dunque Mae avrebbe preferito che il suo naso non fosse un caminetto ma piuttosto un lavandino (o chissà quale altro sanitario). Dunque la stanza non venne mai realizzata come l’ artista avrebbe davvero desiderato. Eppure il risultato resta ancora formidabile. Tanto da aver permesso al «Perverso polimorfo» (come Dalì amava farsi chiamare) di anticipare di decenni la modernità del Pop. E tutto grazie ad un’ attrice celebre per i piccanti sottintesi e per le battute licenziose, un’ icona del musical finita dieci giorni in galera per oscenità nonché bandita da Broadway per un’ opera sull’ omosessualità (Drag). Continuando così, in virtù di quelle sue forme ipertrofiche, la propria battaglia artistica «contro lo spirito moderno e contro la distaccata geometria del razionalismo». Forse tutto nasce, più semplicemente, dall’ innamoramento di Salvador per il cinema, lo stesso che l’ avrebbe spinto ad essere co-autore del Chien Andalou di Buñuel, co-produttore dell’ Age d’ or di Renoir, inventore della sequenza del sogno in Io ti salverò di Hitchcock, creatore di un cartone animato per la Disney (Destino) mai finito per esaurimento di fondi. Con Mae West Dalì ha forse solo preparato quel suo incontro (ben più reale) che avrebbe trasformato tale Peki d’ Oslo, sconosciuta modella dai tratti così mascolini, in un fenomeno mediatico chiamato Amanda Lear. O forse il «Ritratto» è solo il sintomo della banale infatuazione di un fan per la sua diva: quella Mae (già in guerra, lei così allusiva e intelligente, con i violenti pruriti del Puritanesimo e con la censura che continuava a massacrare i suoi film) che in quegli anni tormentava, con successo, in Lady Lou un giovane e sconosciuto Cary Grant (a lui è indirizzata la battuta della pistola poi ripresa e adattata da Jessica Rabbit). Forse, insomma, Dalì avrebbe voluto essere solo nei panni di Cary e, invece, si era ritrovato tra le mani un sogno trasformato in un soggiorno.
Stefano Bucci