MARCO ZATTERIN, La Stampa 22/7/2010, pagina 23, 22 luglio 2010
CARBONE
Presto il carbone europeo sarà poco più di quello che spunta dalle calze della Befana che ancora si vendono nella stagione dell’Epifania hi-tech. Entro il primo ottobre 2014, propone la Commissione Ue, gli Stati membri dell’Unione dovranno chiudere il rubinetto degli aiuti ai produttori del minerale fossile, per lasciarli al loro destino, a vivere o a morire. Da soli. Senza i 26 miliardi di denari che i Ventisette hanno pompato fra il 2003 e il 2008 in un settore glorioso e obsoleto, una volta pulsante al punto da essere l’innesco dell’integrazione continentale postbellica. «Non ci sono dubbi - giura Joaquin Almunia, sceriffo dell’Antitrust a dodici stelle -. Tutte le miniere che non fanno utili devono chiudere».
la fine di un’era. Il carbone ha acceso il motore della rivoluzione industriale che, dalla fine del Settecento, ha stravolto la storia dell’Europa e poi del mondo. Più tardi, nel 1950, è stato proprio l’oro secco e nero a ispirare la dichiarazione con cui il francese Robert Schuman ha dato il via al processo di costruzione europea, alla Comunità per il carbone e l’acciaio (la Ceca) varata l’anno successivo. Ma qualcosa è cambiato. Mentre la Ceca diventava Comunità economica europea (Cee) e poi Unione (Ue), le miniere europee sono divenute una risorsa marginale. Ancora nel 1973 l’Europa a Nove estraeva 233 milioni di tonnellate annue. Oggi i Ventisette sono a 147 milioni, il 2,5% della produzione mondiale.
Il mercato è in mani orientali. La Cina estrae il 47% del carbone planetario (2,7 miliardi di tonnellate l’anno), inseguita da Usa (un miliardo) e Russia (247 milioni). L’Europa deve importare 180 milioni di tonnellate per soddisfare le sue centrali, calcolando che il 40% dell’elettricità tedesca va a carbone, e in Italia si è intorno al 15%. Questo tradisce l’ambizione verde dell’Ue, anche perché la produzione interna, a bassa resa termica, comporta un alto volume di emissioni di CO2 e polveri. Elevati anche i costi. Chiaro che, senza il Pantalone pubblico, il settore ce la fa a fatica.
Per questo la Commissione di José Manuel Barroso chiede la fine dei sussidi, cosa che non piace per nulla alla cancelliera tedesca Angela Merkel che ieri s’è detta, «per metterla giù con cautela, non entusiasta del provvedimento». Bruxelles risponde con «la necessità di giustizia nei confronti dei concorrenti che operano senza aiuti di Stato» e difende una mossa «che va anche nell’interesse di contribuenti e governi, ora che la pressione per il risanamento finanziario è forte».
Soldi potranno averne solo per le riorganizzazioni finalizzate alla cessazione d’attività. I sussidi in essere - 2,8 miliardi nel 2008 - dovranno essere gradualmente eliminati sino al 2014, quando chi sarà in rosso dovrà chiudere. Almunia avrebbe voluto lasciare la porta aperta sino al 2023; i colleghi dell’Ambiente e Clima, Connie Hedegaard e Janez Potocnik, hanno fatto muro e vinto. Ora la proposta vola sul tavolo dei governi e del Parlamento Ue. Lo scontro lobbistico fra carboniferi (industria e Paesi come Spagna e Germania) e coscienze verdi sarà duro. L’esito, al solito, è tutto meno che scontato.
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Il giorno della tragedia, l’8 agosto 1956, Urbano Ciacci era in viaggio. Pochi mesi prima, quando ormai da un anno scendeva tutti i giorni nelle viscere della terra a Marcinelle, il ventunenne marchigiano aveva scritto a Elsa, una bella ragazza conosciuta nella natia Cartoceto, per chiederle di sposarlo e venire in Belgio. La donna aveva accettato e lui, approfittando delle poche ferie estive, erano tornato a casa per le nozze, celebrate il 29 luglio. Il 9 agosto apprese della strage sotterranea dai giornali, mentre alla stazione di Milano saliva sul treno che doveva riportarlo a Charleroi. «Sono stato fortunato - racconta oggi -. Se mi avesse rifiutato sarei morto là sotto con i miei compagni. Erano quelli del mio turno, tutti i miei amici».
In quegli anni i minatori venivano scambiati per carne da cannone. La guerra aveva messo in ginocchio l’Europa dell’energia. Nel solo bacino belga gli operai erano passati da 136 mila a 87 mila, il volume del minerale estratto era precipitato da 30 a 15,6 milioni di tonnellate l’anno. Nell’estate del 1946 l’Italia sfruttò la circostanza per un accordo con Bruxelles: avrebbe favorito l’immigrazione in cambio della garanzia di consegna (a pagamento) di 200 chili di carbone al giorno per ogni lavoratore spedito in Vallonia. Non un ottimo affare, in verità. Non per gli uomini, attesi da una vita infernale. Non per Roma, destinata a pagare le forniture al prezzo di mercato. E quello belga era il più alto d’Europa.
Il brutale scambio fra manodopera e materia prima diede comunque un destino a un esercito di italiani senza grandi opportunità, storia ben raccontata nel volume «Per un sacco di carbone» (Acli Belgio, 1996). Nel 1952, i minatori arrivati nel «Paese piatto» raggiunsero il numero di 50 mila e 49. Quell’anno, il primo di vita anche per la Comunità europea del carbone e l’acciaio, il volume del minerale estratto toccò il massimo, ricongiungendosi ai livelli prebellici (30-35 milioni di tonnellate). Gli uomini arrivavano senza sosta, anche duemila alla settimana. Fra questi Umberto Ciacci, classe 1935. Ancora minorenne per i tempi.
«C’erano i manifesti attaccati fuori dal municipio - ricorda -. Dicevano che in Belgio si cercava manodopera a contratto. Bastava presentare una domanda, avere fra i 18 e i 40 anni, e dimostrare buone condizioni di salute». Il raggruppamento avveniva a Milano, «lì si restava per tre giorni a far le visite e i documenti, quindi si prendeva la ferrovia». Erano tanti. «Non c’era un avvenire - assicura Ciacci -, non un lavoro, e intanto si avvicinava il servizio militare. Tutto ciò che ci proponevano era un impiego in Belgio».
All’inizio fu durissima. «Sono venuti a prenderci alla stazione con un camion americano e vai, ancora visite mediche: quel giorno ne scartarono due, avevano problemi circolatori. Ci alloggiarono in baracche di tolla e legno. L’indomani ho fatto la prima discesa a Marcinelle». Un’esperienza indimenticabile. «Mi mancava il respiro, pensavo che non sarei tornato in superficie. Mi hanno condotto a 1135 metri di profondità, l’ascensore era veloce, impiegava tre minuti. C’è voluto tempo perché sembrasse una cosa normale».
Ciacci ha 75 anni, e se li porta bene, nonostante tutto. presidente dell’Associazione ex minatori di Marcinelle, il custode della memoria delle 262 vittime dell’8 agosto 1956, fra cui 136 italiani. Ha contribuito a salvare l’impianto della morte che poteva diventare un supermarket. Vive con Elsa - «staremo insieme per sempre, non c’è nessuna come lei» -, ha due figli adulti. andato in pensione nel 1980, dopo 25 anni di turni, «una settimana la mattina, una il pomeriggio, la terza la notte». Nega di essere stato sfruttato. «Sono io che ho scelto - rivendica -, la miniera mi ha dato tanto, mi ha permesso di crescere la mia famiglia senza tirare la cinghia». Quando è il momento, Urbano mette i vecchi abiti da discesa e accompagna i visitatori nel vecchio stabilimento. Ne è orgoglioso. «Venitemi a trovare a Marcinelle - dice -. Così che nessuno possa dimenticare».