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 2010  luglio 22 Giovedì calendario

FRAMMENTO DEI FRAMMENTI CHE RISPONDONO ALLA VOCE ”D’AMATO

Antonio” -

1996

"Qui ad Arzano, ai cancelli della fabbrica, siamo costretti a tenere guardie armate; nello stabilimento di Neuhaus, non abbiamo nemmeno i cancelli. La cattura dei grandi latitanti non deve illudere: i baristi di paese continuano a pagare il pizzo" (Antonio D’Amato, industriale della produzione di imballaggi per i prodotti alimentari) (Michele Concina, ”Il Messaggero”, 1/9/96).

2001

«Lo stato sociale è più debitore del capitalismo o del socialismo? Del capitalismo. Perché il capitalismo crea le risorse da mettere a disposizione dello stato sociale» (Antonio D’Amato, presidente Confindustria) (Roberto Gervaso, il Giornale 2/9/2001).

2002

La nuova area industriale di Manfredonia sarà inaugurata in pompa magna sabato prossimo, con due voli charter già stivati come sardine da Treviso: la presenza contemporanea del premier Silvio Berlusconi, del presidente degli industriali Antonio D’Amato e del segretario della Cisl Savino Pezzotta, con il presidente della Commissione europea Romano Prodi atteso in teleconferenza, suggellerà un inedito patto sociale per il Sud (Roberto Morelli CorrierEconomia, 25/02/2002).

2003

Intervista ad Antonio D’Amato, presidente della Confindustria
Presidente D’Amato, dia un’occhiata al 2003. Che cosa vede?
"Vedo un anno non facile, con un’economia che stenta a camminare sulle sue gambe".
 colpa della crisi mondiale?
"Siamo legati al motore americano. Gli Stati Uniti hanno trainato l’Europa e il mondo per quasi due decenni. E adesso non tirano più come prima. O, almeno, nel 2003 non avranno la forza espansiva degli anni 90".
C’è un modo per uscirne vivi lo stesso?
"L’euro è stato un successo importante. Ora l’Europa deve però realizzare una maggiore unità politica, deve dotarsi di istituzioni più efficienti, deve diventare più competitiva. Senza competitività non c’è crescita, senza crescita non ci sono né sviluppo sociale né occupazione".
Sembravano problemi soprattutto italiani.
"L’Italia e l’Europa hanno problemi comuni: uno stato sociale poco efficiente e spesso iniquo, un fisco che penalizza soprattutto le imprese, una grande rigidità nel mercato del lavoro. Ancora tante liberalizzazioni da fare. Scarsi investimenti in ricerca e innovazione, sia pubblici sia privati".
Perché ho sempre la sensazione che, in ogni caso, l’Italia stia peggio degli altri?
"Per via del debito pubblico, da noi più pesante che altrove, e delle carenze infrastrutturali".
Cioè lo Stato funziona male...
"Sì, ma ci sono altri due gravi problemi. Abbiamo la più bassa percentuale di occupati, appena il 55 per cento. E abbiamo il più grande divario economico regionale, vale a dire quello del Mezzogiorno. Pensi che quel 55 per cento di occupazione è il risultato di una media fatta così: il 63 per cento di chi lavora sta al Nord, il 43 per cento sta al Sud".
Lei che cosa suggerisce?
"Suggerisco le riforme".
Quali riforme?
"Le pensioni, il mercato del lavoro, il fisco, il Mezzogiorno. Le liberalizzazioni, la Pubblica Amministrazione".
Tutte insieme?
"Sono riforme così urgenti che si vorrebbe vederle realizzate subito e contemporaneamente. Accanto a quella del lavoro che porta la firma di Marco Biagi e rappresenta una svolta, sono urgentissime le riforme del Welfare e del fisco. Non si tratta di distruggere lo stato sociale, ma di passare dal Welfare al Workfare State, a un modello cioè che sia decisamente orientato sull’aumento dell’occupazione, sfruttando tutte le opportunità che può offrire un mercato del lavoro più flessibile. Si tratta insomma di aiutare chi perde il ”posto”, come è inevitabile in una fase di grande trasformazione, a trovare subito un altro lavoro, il che naturalmente significa anche riqualificare le sue competenze e capacità".
La parola ”flessibile” suona pericolosa.
"E non lo è. Il mercato del lavoro deve ritrovare dinamicità, spinta. Ma sono importanti anche le altre riforme che vanno realizzate entro il 2003, perché poi comincia una sequenza di impegnativi appuntamenti elettorali. Nel 2004 ci sono le europee, nel 2005 le regionali, nel 2006 le politiche. Lei sa che ogni volta che si apre un ciclo elettorale, quali che siano il governo in carica e la maggioranza che lo sostiene, le politiche di rigore vengono abbandonate, domina la ricerca del consenso e la spesa pubblica cresce. La finestra temporale nella quale si possono fare le riforme è perciò proprio quella di quest’anno, il 2003".
Non c’è un problema politico per fare cose di questa importanza prima del 2004? Il governo e la sua maggioranza le sembrano sufficientemente forti?
"Certo, ci vuole un chiarimento nella coalizione e una ridefinizione delle priorità. Il Paese ha bisogno di rimettersi in corsa al più presto, perché il prossimo anno la torta del Pil mondiale non crescerà di molto. Perciò l’Italia deve lavorare per aumentare le quote di mercato. Noi siamo il 5° o il 6° paese industriale al mondo, ma nella classifica della competitività scendiamo al 35° posto. Questo significa che abbiamo un nerbo di imprenditori formidabili, ma significa anche che il sistema paese con i suoi ritardi impedisce loro di fare tutto quello che potrebbero".
C’è una questione ideologica dietro questo? Glielo domando perché veniamo da mezzo secolo di governi in cui le due ideologie dominanti, la cattolica e la comunista, hanno avuto almeno questo punto in comune: di considerare l’impresa un’entità sospetta, possibilmente da penalizzare.
" vero, sia la cultura marxista che una parte di quella cattolica hanno contrastato, nei decenni passati, i valori del mercato e della libera impresa. I residui di questa cultura anti-industriale continuano ancora oggi a rappresentare un freno, un ostacolo agli effetti non solo della capacità competitiva, ma anche della nostra capacità di modernizzare il paese. C’è da dire però che negli ultimi tempi, soprattutto tra i giovani, si sta diffondendo una visione più liberale dello Stato, dell’economia, della società".
Al Sud non è fortissimo il mito del posto fisso?
"Non più come prima. C’è una quantità di giovani che vogliono far da sé, che aspirano solo ad essere imprenditori di se stessi. Anche qui i dati parlano chiaro: l’indice di natalità delle imprese in Italia è tra i più alti al mondo e il saldo tra imprese che nascono e imprese che muoiono è sempre attivo. Quella che non abbiamo è una cultura di governo capace di rispondere a questa domanda di impresa. Parlo di un atteggiamento complessivo del sistema politico e della Pubblica Amministrazione. Si percepisce una certa nostalgia per lo statalismo che attraversa tutti gli schieramenti, a destra come a sinistra. Proprio qui sta il nocciolo duro della resistenza alle liberalizzazioni, alle privatizzazioni e alla creazione di una società più aperta, più moderna, capace di riorganizzare in chiave liberale i rapporti tra economia e società, sviluppo economico e protezione sociale. Questa resistenza trova poi la sua espressione più clamorosa nei movimenti no-global".
Direi che si tratta di movimenti spontanei, poco legati agli schieramenti politici, no?
"Non so fino a che punto siano tutti spontanei. Ci sono i nostalgici della lotta di classe contro il capitalismo. Ci sono i figli di una generica cultura anti-industriale che si oppongono allo sviluppo e al progresso tecnologico. Ci sono quelli che esprimono preoccupazioni sincere, sentimenti che sono largamente diffusi e in parte condivisibili. Chi non vuole più salute e un ambiente sicuro? Chi non tiene a tramandare ai propri figli un pianeta migliore? Sennonché l’ambiente e la salute, più in generale un più alto livello di equità sociale, si garantiscono con la ricerca scientifica, con il progresso tecnologico, con le risorse che solo un maggior sviluppo economico può generare. E chi ha interesse a fare tutto ciò, chi può farlo se non le imprese?".
 sicuro di questo? Le imprese non perseguono esclusivamente il loro interesse?
"Le imprese hanno interesse ad investire di continuo se vogliono sopravvivere. Investire sia nell’innovazione dei processi produttivi sia in nuovi prodotti. Con questo contribuiscono in maniera determinante allo sviluppo complessivo della scienza e della tecnica. Sviluppo industriale e progesso scientifico sono strettamenti legati. così che abbiamo avuto, in Occidente, la caduta verticale del tasso di mortalità infantile, l’allungamento continuo della durata media della vita, i successi della medicina contro le malattie incurabili, la diminuzione – nonostante tutto – della fame nel mondo, la diffusione in definitiva di un benessere complessivo che è un dato innegabile. Certo, ogni progresso risolve vecchi squilibri e ne crea di nuovi. Ma si tratta della vita, no? La vita chiude un problema per affrontare quello successivo".
 merito delle imprese?
"Non solo, ma anche delle imprese. E oggi, in un mondo cresciuto in pochi decenni da due a sei miliardi di persone, dobbiamo tutti impegnarci a promuovere un ambiente e uno sviluppo sostenibili. Per le imprese non è solo questione di responsabilità ma anche di interesse. Solo in un clima migliore, in un clima di consenso sociale si determinano le condizioni più favorevoli per lo sviluppo delle attività economiche. Sviluppo economico e benessere sociale sono i termini di un binomio inscindibile: senza il primo non ci può essere il secondo".
Come andranno le elezioni amministrative del 2003?
"Dipende da quello che il governo farà nei prossimi mesi, se saprà, in particolare, recuperare quella vocazione riformatrice che l’aveva portato al successo elettorale e che sembra aver smarrito. è vero che ha avuto un primo anno di legislatura molto complesso per una serie di eventi straordinari, a cominciare dall’11 settembre. Ed è vero che sta attraversando un secondo anno travagliato da aspri conflitti di politica interna. Ciò non toglie che deve impegnarsi a realizzare le riforme per le quali è stato votato. Nel suo stesso elettorato si avvertono malumori ed insoddisfazioni. Mentre, d’altra parte, la nostra sinistra è disarticolata, in ricerca di programmi e direi anche di autori che li sappiano scrivere. La vedo confusa e divisa. Ma anche i contrasti all’interno della coalizione di governo sono forti. Berlusconi e la sua maggioranza hanno ancora un tempo sufficiente per chiarirsi al loro interno e per dare slancio alla politica delle riforme. Hanno i numeri: li adoperino".
Come andrà l’inflazione?
"I nostri dati dicono che nel 2003 sarà all’1,8 per cento, ma si potrà fare meglio se prevarrà la consapevolezza che dobbiamo essere competitivi. Ricordiamoci che la Germania è all’1,1%".
Vede una ripresa della new economy?
"Innanzitutto chiariamoci bene: non esistono un’economia economia nuova e un’economia vecchia, esistono piuttosto un’economia buona e un’economia cattiva. Quella buona fa investimenti per migliorare i prodotti e i processi. Quella cattiva, no. La rivoluzione digitale rappresenta una fondamentale innovazione dei processi di produzione ed è essa stessa un prodotto nuovo. La sua introduzione ha determinato una forte accelerazione della produttività e della crescita economica. Oggi stiamo vivendo in una fase di assestamento, ma le nuove tecnologie restano una grande opportunità per maggiori efficienze e per la realizzazione di nuovi prodotti. In questa fase di crisi l’economia americana sta reagendo con una ristrutturazione formidabile, che razionalizza quelle inefficienze stratificatesi negli anni della crescita. Lo può fare grazie ad una flessibilità del lavoro e del sistema sociale che noi non abbiamo. In ogni caso, pur essendo un anno difficile, il 2003 promette agli Usa un tasso di sviluppo del 2,5-3 per cento".
Queste ristrutturazioni significano licenziamenti?
"Significano soprattutto nuove opportunità di lavoro che rimpiazzano opportunità di lavoro ormai esaurite. La questione è di moltiplicare le occasioni di lavoro e di affrontare la vita per quello che è: si deve fare ciò che serve e ha un futuro, e non intestardirsi a tenere in piedi un’occupazione senza domani, senza un orizzonte di sviluppo, un’occupazione che alla fine danneggia tutti frenando il sistema".
Questo sarebbe il ritratto dell’Europa e dell’Italia.
"Dove infatti già andrà bene se nel 2003 riusciremo a tenere un tasso di crescita che si avvicini al 2 per cento. Ma l’Europa deve darsi una capacità di sviluppo autonoma. Non si affronta un periodo come questo continuando a muoversi con il ritmo lento degli ultimi anni. Altrimenti, quando tornerà la ripresa, ancora una volta gli Usa saranno molto più competitivi di noi".
L’anno sarà tutto così terribile?
"Il primo semestre sarà difficile. Dobbiamo lavorare duramente perché nella seconda metà dell’anno ci sia un’inversione di tendenza che riguardi anche noi. Quello che proprio non va oggi è la crisi di fiducia delle famiglie e degli operatori. Le famiglie sono bombardate da messaggi negativi, gli operatori si trovano di fronte a mercati incerti e depressi e si vedono offrire, come soluzione, ricette scoraggianti, perlomeno inadeguate. La fiducia degli imprenditori si recupera con una politica di riforme che mostri la volontà di superare il gap di competitività. La fiducia delle famiglie si ottiene con una politica di investimenti che permetta alle imprese di aumentare l’occupazione e la quantità di reddito familiare. Interventi sui consumi non accompagnati da interventi strutturali rischiano di rivelarsi solo illusori. Non incidono sui fondamentali dell’economia".
La Borsa?
"Un’aspettativa esasperata dei risultati ha indotto, negli anni scorsi, ad acquistare titoli di imprese di cui non si sapeva niente, neanche che cosa producessero. Questo ha generato una bolla speculativa molto dannosa. Aggiunga le frodi che sono emerse, soprattutto negli Stati Uniti, e avrà il quadro che spiega la depressione attuale. Per uscirne, è necessario recuperare saggezza e capacità di analisi sui fondamentali delle aziende. I risparmiatori devono essere più attenti ad analizzare la situazione reale dei titoli che acquistano. E per questo devono disporre di un’informazione societaria completa e trasparente".
Si parla di ”New Deal”. Lei che cosa ne pensa?
"Occorre aprire un dibattito su come riposizionare il sistema economico italiano nella mappa geopolitica, serve in particolare una nuova politica industriale adeguata alle nuove condizioni che si sono determinate sul piano dell’economia globale. E quando parlo di politica industriale, non penso né alle vecchie politiche di settore, né tantomeno a una nuova stagione di interventismo statale, o peggio ancora regionale. Questa cultura, queste logiche, hanno già fatto il loro tempo. Il paese sta ancora pagando i debiti che hanno generato".
Allora l’Italia che cosa deve fare?
"Valorizzare quel patrimonio di talento imprenditoriale, di capacità di lavoro, di intelligenza e di cultura che rappresentano la nostra vera ricchezza. Posto che l’economia moderna è l’economia della conoscenza, queste risorse rappresentano un asset fondamentale, grazie al quale possiamo riposizionarci nella fascia alta della creazione del valore. A condizione che si facciano quelle riforme per rendere il paese più competitivo e che si inizi finalmente a investire di più in ricerca, in una scuola migliore, in università di eccellenza".
Con l’allargamento dell’Europa ad Est, non rischiamo di essere periferici rispetto ai grandi mercati continentali?
"Al contrario. L’Italia può avvantaggiarsi di una posizione, direi unica, di cerniera tra Est e Ovest, tra Nord e Sud. Con il crescente ruolo del Far East nell’economia mondiale, il Mediterraneo, cinquecento anni dopo la scoperta dell’America, sta recuperando centralità rispetto alle due sponde dell’Atlantico, tornando ad essere quel crocevia degli scambi di merci e di cultura che era nell’antichità. Per mettere a frutto questa posizione strategica abbiamo bisogno di infrastrutture che rendano più veloce ed efficiente la rete dei collegamenti in Italia, e tra l’Italia e il resto dell’Europa. I nostri concorrenti hanno interesse a tagliarci fuori e cercano di canalizzare il flusso decisivo del mercato a Nord delle Alpi, con il cosiddetto corridoio 5. Dobbiamo batterci con forza a Bruxelles perché questo corridoio passi invece a Sud delle Alpi. è un interesse vitale per il nostro paese, e deve rappresentare un impegno prioritario per il governo".
Ma l’Italia è un paese in declino industriale?
"Niente affatto. è declinata la competitività del nostro paese, negli anni scorsi. Ma non la nostra capacità di fare impresa e sviluppo industriale. Nessun paese al mondo ha tanti imprenditori come ne abbiano noi. Ed è questa la ragione per la quale ho molta fiducia nel futuro dell’Italia. Certo, le cose sarebbero più facili se qualcuno si ricordasse quello che diceva Winston Churchill".
Che cosa?
"Alcuni vedono l’impresa come una tigre da abbattere. Altri come una mucca da mungere. Nessuno la vede per quello che realmente è: un cavallo che tira faticosamente un carro molto pesante. Noi quel carro, lo sviluppo del paese, continueremo a tirarlo" (Libro Vespina ”Come sarà il 2003”).

«Non si possono far riforme difficili con il consenso di tutti» (Antonio D’Amato, presidente di Confindustria) (Claudio Rinaldi, , ”L’espresso” 23/10/2003).

Antonio D’Amato, presidente di Confindustria, convinto che serva «seriamente e da subito un giro di vite sulle pensioni che generi risorse da investire in sviluppo, occupazione e competitività» (Claudio Rinaldi, ”L’espresso” 23/10/2003).

2004

Fiducia. Le precedenti elezioni Confindustria: D’Amato aveva ottenuto il 91,7 per cento; Fossa 94,5; Abete 97,2; Pininfarina 98 e Lucchini 98,1. Appena diventato presidente, Montezemolo ha ringraziato molto «per questa fiducia, ottenuta con una percentuale molto alta» (Roberto Ippolito, ”La Stampa” 27/5/2004).

2005

Riccardo Sarfatti: Nel suo percorso politico a fine anni Novanta è stato presidente dell’Assoluce e vicepresidente di Confindustria, uno dei pochissimi a contestare la linea filogovernativa di Antonio D’Amato, compreso l’articolo 18. Il coraggio politico? Sarfatti risponde: ”Il maggior coraggio lo ho avuto all’assemblea generale di Confindustria nel 2002, quando, non invitato, ho chiesto la parola e proposto come cosa più urgente di cambiare il simbolo, un’aquila imperiale fascista con le unghie dentro l’ingranaggio a bloccare un’industria fordista che non esiste più. Applausi da tutti, Romiti incluso. D’Amato fece tagliare le unghie all’aquila, ammorbidire le linee. Io resto dell’idea che la Confindustria rappresenti poco e male la struttura produttiva del paese”. [...]» (Enrico Arosio, ”L’Espresso” 27/1/2005).

D’Amato. Il più probabile candidato di Forza Italia alla presidenza della Campania è Antonio D’Amato, già presidente della Confindustria prima di Montezemolo. Il candidato del centrosinistra in Campania sarà Antonio Bassolino (Framm. 101270).

2007

D’Amato è tra le personalità nel libro MARCO FERRANTE "CASA AGNELLI. STORIE E PERSONAGGI DELL’ULTIMA DINASTIA ITALIANA" MONDADORI 2007 (Framm 136846).

D’Amato è tra le personalità nel libro SERGIO RIZZO - GIAN ANTONIO STELLA "LA CASTA. COSI’ I POLITICI ITALIANI SONO DIVENTATI INTOCCABILI" MONDADORI 2007 (137138).

2008

L’appuntamento è fissato per la sera di mercoledì 16 gennaio. Intorno al tavolo, insieme al presidente della Confindustria, Luca di Montezemolo, sono invitati tutti i suoi predecessori: Luigi Abete, Antonio D’Amato, Giorgio Fossa, Luigi Lucchini, Vittorio Merloni e Sergio Pininfarina. In base all’articolo 34 dello statuto, i magnifici sette dovranno indicare, a maggioranza dei presenti, una rosa di nove nomi, all’interno della quale il giorno dopo la giunta di viale dell’Astronomia voterà, a scrutinio segreto (con un massimo di due preferenze), i tre saggi incaricati di svolgere le consultazioni per il rinnovo della presidenza degli imprenditori (L’Espresso 10/01/2008).

Bocchino: per il Pdl non avremo bisogno di primarie per scegliere il nostro candidato: siamo coesi, troveremo una soluzione unitaria. Potremmo aprirci alla società civile: c’è Antonio D’Amato, che però si è già tirato indietro due volte (Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 5/12/2008).

2009

Luca Montezemolo. Storia complessa la sua. Si conquista un ruolo pubblico nella successione al divisivo Antonio D’Amato sconfitto sulla campagna per l’articolo 18 (Gianmaria Pica, il Riformista 23/09/2009).

2010

Niente accessi a Napoli, al Circolo del Remo e della Vela Italia, per Antonio D’Amato e Corrado Feriamo (Enrici Mannucci, Sette 11/3/2010).
Antonio D’Amato aveva spaccato a metà gli imprenditori. Emma Marcegaglia è riuscita nel miracolo di ricompattarli (Stefano Livadiotti, L’espresso 20/5/2010).

Di D’amato si parla nel libro di SETTA Monica - Cuore di manager. Amori, passioni e potere nelle storie di 50 uomini d’oro del capitalismo italiano. Sperling & Kupfer, Milano 2002 (Framm 215273).