Marinella Correggia, il manifesto 20/7/2010, 20 luglio 2010
DEBITO ITTICO MONDIALE
Lo scorso 8 luglio è stato il «giorno del debito ittico europeo». Per capire il concetto si deve partire da uno studio condotto dalla organizzazione di ambientalisti inglesi New Economics Foundation insieme ai biologici marini del Pew Environment Group: hanno calcolato quante tonnellate di pesci possono produrre ogni anno le acque europee in modo sostenibile e hanno confrontato la cifra con il consumo ittico annuo del nostro continente, che ha la seconda industria ittica al mondo dopo quella della Cina. Arrivando alla conclusione che se gli europei che mangiano pesce potessero consumare solo gli stock del continente, l’8 luglio sarebbero già arrivati al capolinea. Dunque, da quella data in poi sono in debito con il resto del mondo. Logica conseguenza del fatto che le popolazioni di molti pesci di cattura sono al lumicino e nemmeno l’acquacoltura riesce a star dietro al gap.
Austria e Slovacchia al giorno del debito ittico arrivano molto prima durante l’anno, mentre Estonia, Lettonia, Lituania, Irlanda, Paesi Bassi e Svezia rimangono creditori. Il marino Portogallo, dove i consumi annui pro capite di pesce ammontano a 57 chilogrammi, importa i due terzi di quanto consumato nel paese, mentre la quota che viene riesportata sotto forma di lavorati è di molto inferiore.
Si potrebbe obiettare che in un’economia globalizzata non c’è problema: chi manca di un alimento lo importa. Ma i pesci di cattura sono qualcosa di diverso da un alimento: sono a tutti gli effetti animali selvatici. La loro offerta, se non è finita come quella del petrolio, non è nemmeno illimitata. Insomma è rinnovabile solo a gestirla con cura.
Il che non avviene. E le nazioni europee sono colpevoli di dare la priorità alla presenza abbondante di pesci sui loro mercati anziché alla sostenibilità ecologica di questa presenza, ignorandone le ripercussioni sulle comunità dei paesi in via di sviluppo. Navi pescherecce scandagliano i mari africani 24 ore al giorno, vicinissimi alle coste, non lasciando nulla alle canoe dei pescatori locali. I vascelli guardacosta sono pochi e mal equipaggiati per i controlli. L’Unione Europa ha sì messo a punto di recente misure destinate a contrastare la pesca illegale, prevedendo sanzioni per chi non rispetta, anche fuori dalle acque dei paesi membri, gli standard indicati per i mari europei. Ma sembra che l’applicazione di queste norme sia quanto mai carente.
Ma la situazione è poco rosea anche in Europa, dove ad esempio l’80% del tonno rosso è sovrasfruttato. Nel «Libro verde» pubblicato in proposito dalla Commissione Europea nell’aprile 2009, si sottolinea fra l’altro la necessità di fermare la sovrappesca, integrare le politiche di pesca con le altre politiche del mare, ricostituire gli stock depauperati, adottare una politica del lungo periodo, promuovere un maggiore contributo e responsabilità dell’industria nella gestione degli stock.
Ma quante critiche al nuovo Regolamento Mediterraneo entrato in vigore in giugno che ordina limiti alla pesca di tante piccole specie come i bianchetti, le seppie, i calamaretti, le telline, i rossetti e i zatterini, oggetto di sfruttamento intensivo. L’imposizione di reti a maglie più larghe e di nuove distanze dalla costa per le reti gettate sotto costa rende difficile o impossibile la cattura di queste piccole prede. I ristoratori erano pronti ad acquistare dai mercati esteri. L’Italia ha subito firmato delle deroghe.
Eppure, la soluzione alla desertificazione dei mari non può prescindere da un cambiamento delle abitudini alimentari.