Karima Moual, Il Sole-24 Ore 22/7/2010;, 22 luglio 2010
VU CUMPR E ARTIGIANO, LA STORIA DI UN PADRE
«Quando sono venuto in Italia alla fine degli anni 70, ero uno dei tanti ragazzi ambiziosi che dal Marocco sentivano parlare dell’Italia come il sogno americano. Si diceva che in Italia c’erano grandi possibilità di lavoro, un buon guadagno che permetteva di fare abbastanza soldi per tornare al paese dignitosamente. Mai avrei immaginato quello che poi mi trovai davanti.Ho ancora l’immagine ben impressa: tutti i miei connazionali con allacciata alle spalle una scatola di cartone con dentro accendini, orologi, batteriee altri piccoli accessori per girare in lungo e in largo la vecchia Torino, e scoprire di far parte dei primi cosiddetti "Vu cumprà"».
A viaggiare con i ricordi e raccontarsi è un uomo che oggi ha 61 anni, uno dei primi marocchini arrivati a Torino, spinti dall’ambizione e dalla forza di volontà per cambiare in meglio la propria vita e quella della famiglia lasciata al paese d’origine.
Tutti uomini, e tutti giovani come lui, a quel tempo 26enne. Sono quei piccoli uomini che fanno parte di quella prima ondata d’immigrazione marocchina verso l’Italia. Che si avventurarono con pochi soldi, senza una conoscenza della lingua e soprattutto senza nessun appoggio nel paese di accoglienza. Soli, e con un solo sogno: cambiare. Sono proprio quei primi giovani, che per arrangiarsi s’inventarono un nuovo mestiere che avrebbe preso il nome del "Vu cumprà". Un mestiere che non avrebbero mai fatto al loro paese e del quale sono rimasti all’oscuro gli stessi familiari.
«Io in Marocco ho iniziato a lavorare a 13 anni per mantenere i miei 9 fratelli e, anche se avevo uno stipendio molto basso, ero riuscito a conquistarmi un lavoro sicuro con un contratto da 4 anni e avevo appena comprato casa. Per me è stato uno shock – racconta – mi aspettavo tutt’altro dall’Italia, ma non di caricarmi sulle spalle una scatola di cartone e girare per la città, con la speranza che qualcuno riuscisse a leggere la disperazione nei nostri occhi e avesse pietà e generosità per comprare qualche aggeggio in cambio di poche lire». «C on altri ragazzi ”continua – percorrevamo tutte le vie da Torino a Rivoli con l’autobus scendendo alle diverse fermate, per tornare solo a tarda sera e a piedi, nel freddo di Torino per noi completamente inaspettato, per raggiungere Porta Palazzo, nell’albergo dove dormivamo tutti. Perché una casa nessuno ce l’avrebbe affittata, così come nessun italiano voleva e poteva farci lavorare con sè. Anche se ci aiutavano, erano solidali con noi, tuttavia era troppo rischioso per loro. Non si poteva. Non eravamo regolari e non c’era modo per venirci incontro. Avevamo dunque tutti solo quella possibilità per sopravvivere ». «Dalla disperazione ho pianto per diversi mesi, per la situazione nella quale mi ero ritrovato. Avevo lasciato un lavoro sicuro, mia moglie e mio figlio di appena un anno. Molti soffrivano quanto me perché eravamo soli, avevamo lasciato le nostre famiglie, non sapevamo quando le avremmo riviste, chiamavamo una volta al mese. Era un distacco troppo forte, e infatti più di qualcuno aveva mollato. Abbiamo fatto la colletta per aiutarlo a tornare a casa. Ma io non potevo che resistere, era un disastro tornare, il lavoro sicuro non ce l’avevo più in Marocco e non l’avrei più trovato in quei tempi dove la povertà e la disoccupazione erano altissime. Dopo un anno riuscii a mettere da parte 120mila lire e comprai la mia prima macchina, una Fiat 124. Ero l’unico del gruppo ad avere la patente. Iniziammo ad andare in gruppo in altre zone e mercati, e per l’estate decidemmo di spostarci al mare,perché c’era più gente. Andammo a Rimini, e da lì iniziai a comprare e vendere articoli più corposi come lenzuo-la, asciugamani e coperte, così potevo avere più profitto. Facevo il giro della spiaggia, più di 10 chilometri a piedi con il caldo soffocante e la schiena che sentivo si sarebbe spezzata da un momento all’altro per il peso. Ma il più delle volte preferivo piazzare i miei articoli per terra fuori dalla mia macchina sul lungo mare e vendere da lì. Non mi piaceva la sensazione di dover scocciare la gente in spiaggia che prendeva il sole». il 1982: da "vu cumprà" ad ambulante senza licenza, la scatola di cartone è ormai lasciata alle spalle. Arriva anche la moglie. Lasciando tre figli dai nonni. Troppo piccoli e troppo dura la vita per loro in un paese che ancora non si conosce abbastanza e in cui non si è ancora riconosciuti. E la regolarizzazione infatti arriva solo nel 1986, anno in cui viene varata la prima legge in materia d’immigrazione. Da lì, è tutto un progresso: un lavoro regolare, il ricongiungimento nel 1990 dei figli, la stabilità, la casa e l’ambizione che si concretizza in realtà.
il 2010. Il 61 enne che per un anno ha fatto il "vu cumprà" nei lontani anni ’70 oggi ha un’attività commerciale con la figlia. Vendono biancheria per la casa. A vederlo oggi, nessuno potrebbe credere che quest’uomo abbia passato quel che ha passato pur se qui ne ha raccontato solo una minima parte. E io stessa mi meravigliai. Perché l’uomo di cui vi ho raccontato la storia si chiama Moual Mohamed ed è mio padre.