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 2010  luglio 22 Giovedì calendario

IL FISCO DI CAVOUR

Ci vengono minacciati nuovi sfracelli sul fronte dei controlli fiscali. Ma perché in Italia per far pagare le tasse occorre fare la faccia sempre più feroce, con risultati finora deludenti?
Siamo tutti vittime dell’atavica tendenza a farla franca o della radicata incapacità dello stato a farsi rispettare? Lettera firmata • Nella sua recente, bella biografia di Cavour (pubblicata da Salerno) lo storico Adriano Viarengo racconta della difficoltà che ebbe il Conte a far approvare nel 1856 una legge per tassare i liberi professionisti. Essi ritenevano di dover essere equiparati agli artisti e di non dover pagare pegno per la propria capacità professionale; Cavour giudicava al contrario essenziale il loro contributo alle finanze e agli impegni dello stato (ancora sabaudo): «Al senso civico doveva richiamarli il latifondista Cavour», commenta lo storico. Evidentemente, la difficoltà del rapporto tra borghesia e Fisco precede perfino la formazione dello stato unitario.
Sul tema, riproposto dalla manovra e da un intervento impietoso di Ernesto Galli della Loggia, ho letto molti commenti: alcuni, per esempio Francesco Forte, hanno sottolineato i danni del giacobinismo fiscale, e le virtù di un fisco meno vorace e più efficiente. Probabilmente era questo il modello che aveva in mente il conte di Cavour, implacabile però con chi rifiutava tout court l’obbligo tributario