Alfredo Faieta, il Fatto Quotidiano 20/7/2010;, 20 luglio 2010
”STATO VIA DA ENI PER NON FINIRE COME LA GRECIA”
Non parla greco, ungherese, spagnolo o portoghese, le lingue del dissesto pubblico e privato della vecchia Europa, ma l’enorme debito pubblico italiano lancia comunque messaggi poco confortanti dentro e fuori i confini nazionali. Segnali che il ministro dell’Economia Giulio Tre-monti spesso finge di ignorare trincerandosi dietro la nostra ”fortuna”: cioè l’avere ancora un debito del settore privato (sostanzialmente famiglie e imprese) relativamente basso rispetto ad alcuni grandi e importanti paesi Ocse, Stati Uniti e Inghilterra in primis. Ma quell’oceano che è il debito pubblico italiano (a maggio ha toccato 1.827 miliardi di euro, vicino al 120 per cento di Pil, confermandosi il terzo al mondo dopo Usa e Giappone) che sia o meno controbilanciato dal settore privato rappresenta per noi un problema enorme, che mina alla base la capacità di crescita del Pil e ci espone a ricette anche fantasiose, che finiscono per diventare attacchi infamanti, più simili a quelli che subiscono le più fragili tra le economie in via di sviluppo che non a un economia del G8.
LE ACCUSE DI KNIGHT.
L’ultima in ordine di tempo è arrivata dalle pagine del quotidiano inglese Financial Times, ad opera di Eric Knight, azionista importante del colosso petrolifero Eni con una quota vicina all’1 per cento, posseduta tramite il suo fondo d’investimento Knight Vinke. Per dare un ordine di grandezza, il suo pacchetto di titoli ai prezzi attuali di borsa corrisponde a 620 milioni euro di controvalore. Secondo il finanziere l’entità del debito italiano farà di noi ”la prossima Grecia o Ungheria”, come spesso molti ricordano fuori dai confini nazionali, a causa del crescente costo degli interessi per la mancata crescita economica. Ma il ministro Tremonti ”fortunatamente è nella posizione di avere una potenziale soluzione per alleggerire questa pressione” scrive Knight in una lettera aperta al quotidiano. E la soluzione starebbe proprio nello spezzatino di Eni, che dovrebbe separare le due anime che la compongono: quella dell’esplorazione di pozzi petroliferi in giro per il mondo, e relativa estrazione (upstream in inglese), da quelle nel settore del gas, di cui è monopolista in Italia. Le prime, che fanno del gruppo del Cane a sei zampe, uno dei maggiori player mondiali nel campo estrattivo di petrolio, andrebbero poi vendute utilizzando il ricavato per la cura del debito nostrano. Un’operazione che avrebbe una grande enfasi in tutto il mondo lasciando intendere agli osservatori internazionali che il governo ha in cura le sorti delle finanze pubbliche. E dalla vendita, si lascia intendere, si ricaverebbero molti soldi: il finanziere che già nel settembre 2009 ipotizzava una rivoluzione nella grande conglomerata italiana che fu di Enrico Mattei, è convinto che la società sia ampiamente sotto-valutata in Borsa: ”Anche fino a 60 miliardi di euro” di valore nascosto, che si aggiungerebbero ai 62 miliardi di capitalizzazione attuale.
LE VOCI CONTRO. Se quest’operazione bastasse per risolvere i problemi di debito Tremonti potrebbe con coraggio metterla anche in campo, ma probabilmente questo governo, che aveva al suo interno fino a qualche giorno fa esponenti come il sottosegretario Nicola Cosentino (proprio all’Economia), finirebbe per sperperare queste risorse lasciando l’Italia senza un asset fondamentale per la sua sopravvivenza, e cioè un’impresa statale che garantisca una parte consistente degli approvvigionamenti di petrolio a un Stato che manca di materie prime. Lasciandoci in balia delle multinazionali straniere come British Pretroleum dalle quali proprio Mattei si era affrancato pagando probabilmente con la vita.
Al contrario proprio le attività nel gas in Italia potrebbero dare al nostro governo cospicue risorse garantendo ai cittadini e alle imprese prezzi più bassi per questo combustibile e per l’energia elettrica. La proposta è stata rilanciata ancora una volta lo scorso 15 luglio da Alessandro Ortis, presidente dell’Autorità per l’Energia nella sua relazione annuale in Parlamento. Eni controlla il 92 per cento della capacità infrastrutturale di trasporto del gas e il 65 per cento del prodotto venduto in Italia, che si traducono in un costo per gli utenti finali almeno del 10 più altro di quel che dovrebbe essere. ”Un passaggio del controllo di Snam Rete Gas da Eni a Cassa depositi e prestiti” è la ricetta di Ortis ”farebbe certamente bene al mercato, ai consumatori e allo stesso sviluppo di Snam, che si potrebbe proiettare anche oltre i confini nazionali”, oltre a incassare quelle somme utili in questo momento di manovre correttive. Al momento non è previsto nessun cambiamento, ma quel che traspare con forza è la debolezza della nostra economia pubblica, e del nostro governo, che permette anche a un finanziere che ha a cuore solo il suo investimento di prendere posizione con ricette spericolate e di dubbia utilità su un organo di stampa ininfluente come il Financial Times, che ha un’eco mondiale. Un’altra pagina nerissima, sulla quale il ministro Tremonti molto dovrebbe riflettere, per la ben poco ”Magic Italy”.