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 2010  luglio 20 Martedì calendario

«PRESTO L’ECONOMIA DI CARTA FINIR IN UN BAGNO DI SANGUE»

Il saggio di David Parenzo ed Eugenio Benetazzo è estremamente interessante, oltre che utile, perché squarcia il velo d’ipocrisia e d’inganno che ha caratterizzato l’informazione economica non solo negli ultimi anni, ma probabilmente da sempre, almeno da quando, con la rivoluzione industriale, autentica crasi fra modernità e passato, è nata, con la pretesa di essere scienza, l’economia politica.
Fino a ieri sia la destra sia la sinistra ci avevano raccontato la favola gaudiosa delle «sorti meravigliose e progressive». Ma anche oggi le leadership mondiali, nonostante i cupi colpi di gong che si avvertono da tutte le parti, ci dicono che superato lo choc iniziale della crisi finanziaria, per altro già annunciata sinistramente nel 1996 con la bancarotta del Messico, nel 1997 con il tracollo delle «piccole tigri» asiatiche e venuta a piena maturazione negli ultimi tre anni con il default dei subprime americani, tutto tornerà come prima e meglio di prima. Perché «l’economia reale», questo fantasma sempre evocato nei momenti dubbi e che somiglia molto all’ineffabile e incomprensibile Spirito Santo della Trinità, tiene. In realtà non esiste nessuna «economia reale» che si differenzi da quella finanziaria. Il capitalismo finanziario non è solo la logica conseguenza di quello industriale (la cosiddetta «economia reale») ma ne è, in una certa misura, la precondizione. E chi, come qualche anno fa fecero Viviane Forrester, Alain Minc e altre compunte suorine della sinistra francese (ma anche oggi, ipocritamente, più o meno tutti), cade in deliquio davanti agli «eccessi» dell’economia finanziaria, fa la stessa parte di chi avendo inventato la pallottola si meraviglia che siamo arrivati al missile. Davanti a noi non si stende la prateria, illusoria e paranoica, ma sempre richiamata e ribadita, delle crescite esponenziali e illimitate, bensì, se non ripensiamo in radice e rapidamente il modello di sviluppo nato con la rivoluzione industriale, un futuro di tutt’altro tipo.
Il denaro è futuro
Nell’ultima pagina del mio libro Il denaro: «sterco del demonio», del 1998, dopo avere raccontato la trionfale cavalcata del denaro dall’epoca della sua prima apparizione (a cavallo fra VIII e VII secolo a.C. in Lidia, piccolo regno dell’Asia minore, nell’orbita della cultura greca) ai giorni nostri e della sua progressiva trasmutazione, quasi alchemica, da mero intermediario dello scambio (per evitare le triangolazioni del baratto) e misura del valore a merce vera e propria, sia pure assai volatile, concludevo dicendo: «Il giorno del Big Bang non è lontano. Il denaro, nella sua estrema essenza, è futuro, rappresentazione del futuro, scommessa sul futuro, rilancio inesausto sul futuro, simulazione del futuro a uso del presente. Se il futuro non è eterno ma ha una sua finitudine, noi, alla velocità cui stiamo andando proprio grazie al denaro, lo stiamo vertiginosamente accorciando. Stiamo correndo a rotta di collo verso la nostra morte come specie. Se il futuro è infinito e illimitato, lo abbiamo ipotecato fino a regioni temporali così sideralmente lontane da renderlo di fatto inesistente. L’impressione infatti è che, per quanto veloci si vada, anzi proprio in ragione di ciò, questo futuro orgiastico arretri costantemente davanti a noi. O forse, in un moto circolare, niciano, einsteniano, proprio del denaro, ci sta arrivando alle spalle gravido dell’immenso debito di cui l’abbiamo caricato. Se infine, come noi pensiamo, il futuro è un tempo inesistente, un parto della nostra mente, come lo è il denaro, allora abbiamo puntato la nostra esistenza su qualcosa che non c’è, sul niente, sul Nulla.
«In qualunque caso questo futuro, reale o immaginario che sia, dilatato a dimensioni mostruose e oniriche dalla nostra fantasia e dalla nostra follia, un giorno ci ricadrà addosso come drammatico presente. Quel giorno il denaro non ci sarà più. Perché non avremo più futuro, nemmeno da immaginare. Ce lo saremo divorato».
 quanto sta accadendo, anche se non nei termini così radicali che io indicavo. Per un collasso definitivo ci vorrà ancora un po’ di tempo. Non molto. Il prossimo colpo sarà quello del KO. L’ha ammesso il ministro
dell’Economia Giulio Tremonti in una recente intervista al Corriere della Sera: «Il crollo delle piramidi di carta, nell’autunno 2008, ha causato il crollo dell’economia reale, che invece si stava sviluppando in senso positivo. Ora a rischiare per un nuovo imminente crollo dell’economia di carta non c’è solo l’economia reale, ma anche la struttura sovrana dei debiti pubblici e quindi dei governi». E il ministro ha aggiunto: «Il salvataggio dell’economia di carta, garantito dagli Stati, ha prodotto in forma diversa le stesse condizioni di crisi potenziale che c’erano appena due anni fa. [...] Da un lato sul mercato ”over the counter”, il mercato principe dell’economia di carta, sono tornati gli stessi valori di prima del 2008, dall’altro lato nel mondo ogni otto secondi si emette un milione di dollari o di euro di nuovo debito pubblico».
In sostanza Tremonti ha affermato che, come avevo scritto io qualche tempo prima su il Fatto Quotidiano, la crisi era stata temporaneamente tamponata immettendo nel sistema altro denaro inesistente, drogato, tossico non meno dei titoli tossici, nella speranza che il cavallo dopato facesse qualche ulteriore passo in avanti. Ma la cosa non può durare ancora a lungo, perché, prima o poi, arriverà il momento dell’overdose fatale.
«Ma come può intervenire la politica?» domanda a questo punto l’intervistatore Aldo Cazzullo.
« già molto capire, e l’impressione è che, sopra i popoli, superato lo choc iniziale, anche segmenti sempre più ampi delle classi dirigenti comincino a capire», è la risposta del ministro.
Ma noi non abbiamo bisogno di classi dirigenti che capiscano le cose quando sono già avvenute, che ci dicano il risultato della partita quando è finita. Ciò che io, che non sono un economista, avevo capito o intuito nel 1998, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti aveva il dovere di capirlo almeno nel 2007, quando ci fu il tracollo dei subprime americani.
Le sue prediche di oggi, elargite con gran prosopopea, sono
inutili oltre che sommamente irritanti (fra l’altro Tremonti, per salvarsi l’anima, colloca il sopravvento dell’«economia di carta» sulla cosiddetta «economia reale» nei primi anni Duemila, ma il processo si è prodotto molto prima, tanto che già nel 1964 l’americano David T. Bazelon, che non era neppure lui un economista ma un letterato, aveva scritto L’economia di carta, in cui sosteneva questa tesi).
Il grande inganno
E ciò vale, ovviamente, non solo per Tremonti, ma per tutte le classi dirigenti occidentali, politici, economisti, imprenditori, intellettuali che o non hanno capito, e allora sono dei coglioni indegni di dirigere alcunché, o sono dei mascalzoni che hanno fatto finta di non capire e ci hanno ingannato, e continuano a farlo. Perché anche la distinzione fra capitalismo finanziario e capitalismo industriale (l’«economia reale») è un inganno. Infatti il capitalismo industriale si basa sulla stessa logica di quello finanziario: un’inesausta scommessa su un futuro, additatoci continuamente, per tenerci al basto, come Terra Promessa, che arretra costantemente davanti ai nostri occhi con la stessa inesorabilità
dell’orizzonte per chi abbia la pretesa di raggiungerlo. Casomai il capitalismo finanziario, con la sua brutalità, ha il pregio di smascherare questo giochetto infame che dura da due secoli e mezzo e che deve finire. E finirà. In un bagno di sangue, quando, crollato questo modello di sviluppo paranoico, la gente delle città, accorgendosi che non può mangiare il cemento e bere il petrolio, si dirigerà verso le campagne, dove verrà respinta a colpi di forcone da chi, avendo compreso le cose al momento giusto, sarà tornato, come ai vecchi tempi, all’economia di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) in cui il valore di una mucca, a differenza di quello del denaro o del petrolio, resta sempre tale, perché una mucca bruca, trasforma l’erba in latte, caga come Dio comanda e concima, in un ciclo biologico perfetto, e al limite se ne può sempre fare bistecche.
Queste verità, nonostante i disinvolti contorsionismi delle élite politiche e degli economisti al loro servizio, se non al loro guinzaglio, cominciano ad apparire, sia pure ancora in maniera confusa, anche agli occhi dell’opinione pubblica. E il libro di David Parenzo ed Eugenio Benetazzo è un ottimo strumento per mettergliele bene a fuoco.