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 2010  luglio 21 Mercoledì calendario

L’INCHIESTA SULLA P3 PUNTA ALLA MONDADORI

C’è una parola che appare 430 volte nelle oltre 15 mila pagine allegate all’inchiesta sulla nuova P3. Quella parola è il nome di una società: ”Mondadori”. Non è un nome qualsiasi, perché è l’elemento chiave della tesi della procura di Roma. Che detto in parole semplici e rudi è questo: chi è se non il vero capo, il vero beneficiario della P3 e dei suoi progetti? Scontato: Silvio Berlusconi. Perché si gira intorno a mille rivoli diversi, ma alla fine il fatto più importante di quelle 15 mila pagine sarebbe un presunto favore da 200 milioni di euro che la P3 era pronta a fare alla Mondadori di Berlusconi. Cifra che fa impallidire l’unica altra somma che circola in quegli atti: il risicato milioncino di euro di cui avrebbe beneficiato Denis Verdini per l’aumento di capitale del suo Giornale della Toscana. Secondo i magistrati romani infatti tutto questo gran daffare per piazzare giudici amici in posti che contano sarebbe servito alla triade della P3 (Flavio Carboni, Arcangelo Martino, Pasquale Lombardi) per risolvere un contenzioso tributario del valore di circa 200 milioni di euro che la Mondadori trascinava da quasi 20 anni. Il desiderio della P3 era sempre secondo l’impianto dell’inchiesta quella di trasferire quel contenzioso davanti alle sezioni riunite della Cassazione presiedute da un giudice amico della triade, Vincenzo Carbone. Per farlo era necessario il via libera dell’Avvocatura generale dello Stato, fornito da Oscar Fiumara, che proprio per questo viene avvicinato dalla P3. Scrivono i carabinieri nei loro rapporti: «si ipotizza che l’interesse degli indagati riguardi l’assegnazione alle sezioni unite della Cassazione di un ricorso proposto dall’Amministrazione finanziaria e che vede come parte in causa la società Mondadori. Secondo notizie giornalistiche ricavate da articoli pubblicati sul quotidiano La Repubblica nei giorni 28 e 30.10.2009 il ricorso dell’Agenzia delle Entrate sarebbe stato effettivamente rimesso alle Sezioni Unite (...) su richiesta delle parti in causa con l’adesione dell’avvocatura generale dello Stato per conto dell’Amministrazione finanziaria ricorrente (...) Che tale questione possa essere l’oggetto dell’interesse da parte dei tre indagati potrebbe trovare conferma non soltanto dal fatto che tale vicenda si svolge nel mese di ottobre, ma anche da alcuni riferimenti che si ascoltano nelle conversazioni intercettate». Gli inquirenti pensano di trovarsi di fronte alla vera corruzione, ma trovano solo cravatte e bottiglie di vino regalate ai protagonisti. E allora legano alla vicenda Mondadori quel poco che hanno in mano: «si trova decisa conferma in quanto i coindagati stanno realizzando con riguardo al piano eolico, che è momento qualificante di quel programma e dove l’ipotesi della corruzione è, invece, ben più che un mero obiettivo futuro».
Il braccio di ferro fra Mondadori e fisco italiano è iniziato poco dopo la fusione fra Arnoldo Mondadori Editoriale Finanziaria (Amef) e omonima casa editrice controllata (Ame) avvenuta nella seconda parte del 1991, a chiusura della guerra di Segrate fra Berlusconi e Carlo De Benedetti. La vicenda è tecnicamente complicata, ma sostanzialmente il fisco contestò l’apposizione a compensazione delle perdite di un avanzo di fusione per circa 641 miliardi di vecchie lire, pretendendo che fosse imputato a reddito e tassato come plusvalenza. La Mondadori ricorse e sia in primo grado che in appello vinse, prendendo come consulente nella causa contro il fisco il più bravo di tutti: Giulio Tremonti. Per il terzo grado però proprio l’uomo che aveva difeso la Mondadori durante gli anni si era trasformato suo malgrado nell’accusa, essendo divenuto come ministro dell’Economia pro tempore il rappresentante dell’amministrazione finanziaria che voleva dalla Mondadori quei 200 milioni di euro. Una situazione senza dubbio imbarazzante, che aveva bisogno per essere risolta di un campo terzo di battaglia come quello delle sezioni Unite della Cassazione presiedute da Carbone. Per questo motivo l’avvocatura dello Stato non si oppose. Ma si tentò comunque un’altra strada per risolvere l’impasse: un emendamento alla finanziaria 2010 presentato nel 2009 da Angelo Azzolini secondo chi aveva nel processo tributario già due giudizi favorevoli poteva evitare la Cassazione pagando il 5% di quanto contestato e chiudendo così il contenzioso. Il finiano Maurizio Saia lo intercettò, chiamò il presidente della Camera, Gianfranco Fini che fece saltare quello che chiamò il lodo Mondadori. I magistrati sono convinti che proprio per questo la P3 cercò di favorire la soluzione Carbone e ipotizzano una corruzione pro Berlusconi. Ma i magistrati facendo acquisire tonnellate di materiale si sono dimenticati di fare seguire i successivi lavori parlamentari. Perché quell’emendamentoironia della sorteè stato ripresentato alla Camera mentre Fini dormiva a fine aprile scorso. E’ stato anche votato e inserito nella legge sugli incentivi ed è legge dello Stato italiano dal 22 maggio scorso. Quindi se tutta la P3 doveva servire a fare un favore da 200 milioni a Berlusconi, il teorema accusatorio non regge. Perché di quel favore la Mondadori non ha più bisogno.