Marco Belpoliti, La Stampa 21/7/2010, pagina 34, 21 luglio 2010
PICCOLE DONNE ARCHIVIANO MAO
La Cina non è solo la più grande fabbrica del mondo di oggetti, manufatti, macchine, vestiti, scarpe, cellulari, televisori, ma anche la più potente levatrice dell’umanità futura. Questo immenso e popoloso paese, scrive Leslie T. Chang in Operaie (tr. it. di Mariagrazia Gini, Adelphi, pp. 398, e24), oggi produce prima di tutto persone. Il libro della Chang, inviata del Wall Street Journal in Cina per dieci anni, è un reportage su Dongguan, la città-opificio, attraversata da autostrade e tangenziali, un resoconto sulla condizione della manodopera femminile dei migranti interni, e insieme la storia di una famiglia di proprietari terrieri fuggiti a Taiwan, e poi in America: il nonno e il padre dell’autrice. Ma prima di tutto è uno straordinario documento antropologico e psicologico sul mondo futuro.
Chang è insieme americana (è nata in quel Paese), ovvero una persona pragmatica, solida, e una cinese (parla correntemente il mandarino per via delle origini familiari) capace di comprendere la tortuosa, complessa e insieme stupefacente mentalità dei discendenti del Celeste Impero. Quello che accade oggi in quel Paese è un evento di una potenza unica: oltre 250 milioni di persone, in prevalenza donne, migrano dalle zone rurali interne verso i distretti produttivi della costa, là dove si sono insediate le multinazionali che producono gran parte delle cose che indossiamo o usiamo ogni giorno. All’autrice non interessa un discorso sindacale, o salariale, tutto quanto riguarda ciò che un tempo si sarebbe chiamata la forza-lavoro, ma come funziona la vita delle operaie, a cosa aspirano, come si muovono, come si rapportano con il contesto tradizionale dei loro villaggi, chi saranno da qui a qualche anno.
Il cellulare è il primo e principale strumento di comunicazione tra loro, in aree produttive dove milioni di persone sono in perpetuo movimento, così che i riferimenti abitativi - dormitori, case, appartamenti, uffici - sono del tutto inutili: se si perde il cellulare, si smarrisce anche il contatto con gli altri. Il telefono personale è tutto il contrario della vita comunitaria del villaggio, dove la singolarità è repressa a vantaggio della collettività. La grande mutazione antropologica in corso in Cina, per dirla con Pasolini, tocca in profondità un universo che, nonostante siano trascorsi sessant’anni dalla rivoluzione comunista, e poi maoista, è rimasto fermo, immobile, sino all’altro ieri. Oggi si stanno sbriciolando le tradizionali divisioni tra maschi e femmine, cambiano i costumi sessuali, le relazioni uomo-donna, tra i singoli e le comunità, una mutazione di proporzioni gigantesche e che avrà un enorme peso nel definire il mondo futuro. Leslie T. Chang è senza dubbio una conservatrice, tuttavia proprio il suo occhio disincantato, non ideologico, ci illumina sulle trasformazioni in corso.
Il successo è l’olio che lubrifica il grande cambiamento cinese. La città si fonda sull’intraprendenza e sul farla franca, così che il successo si basa sull’imparare quanto basta per arrivare a una situazione migliore: da operaia a impiegata, da venditrice a insegnante. Le sue sono in gran parte donne senza istruzione, senza etichetta, o educazione, che cercano di farsi strada frequentando corsi serali in cui s’impara il portamento, a parlare in pubblico, a vestirsi, a mentire e ad aggirare gli ostacoli. E soprattutto a parlare inglese.
Le parti di Operaie dedicate alle scuole sono straordinarie, piccoli gioielli di osservazione antropologica. L’autrice segue le sue nuove amiche, Yongxia, Dali, Min, Chunming, nelle agenzie matrimoniali dove ci si «conosce in otto minuti», oppure nelle scuole dove sono in funzione «macchine per l’apprendimento automatico» dell’inglese. Osserva e descrive le lucciole del Celeste Impero alle prove con difficoltà di vario livello. Il suo sguardo è compartecipe, spesso solidale; non si stupisce di nulla, o quasi. La storia di ogni migrante è una sola: aver fatto strada con le bugie, cambiando di continuo lavoro, lottando contro la miseria incombente, contro il maschilismo della società, per trovare un’occupazione sempre migliore. Sono storie di ascese e fallimenti continui.
I valori del vecchio universo agricolo e paleocapitalista, come si esprimeva Pasolini a proposito della situazione italiana a metà degli Anni Settanta, qui risultano centuplicati, elevati all’ennesima potenza. Vi appare un’umanità labile, fluttuante, indifesa, eppure ferocissima, e decisa a farcela per sfuggire dal cerchio inclusivo del villaggio cinese, da quella consorteria del Noi che opprime l’Io delle singole persone (l’autrice spiega la stessa spietatezza della Rivoluzione culturale con le sue follie e le cacce all’uomo attraverso la logica inclusiva del villaggio).
Cosa si perde e cosa si guadagna, ci si potrebbe chiedere con Pasolini, da questa mutazione in corso nel più importante Paese del XXI secolo? Cosa resterà della vecchia Cina e dei suoi perduranti valori eterni? meglio la povertà feudale dei villaggi o il costipato e folle magma delle città industriali? Il punto di vista scelto da Chang non fornisce risposte, del resto anche lei, con la sua doppia anima americana e cinese è una sorta di ibrido tra il vecchio mondo e il nuovo che sta nascendo. E così appaiono anche le operaie del libro: figure centauresche, metà animali e metà donne, metà nel passato e metà nel futuro. L’unica cosa che si comprende da questo libro raccontato in modo esemplare è che la Storia è una levatrice molto tenace e dura che non riduce mai i dolori del parto, ma anzi li moltiplica. Fino a quando durerà tutto questo?