Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 20/07/2010, 20 luglio 2010
LAUREE BREVI, LAUREE LUNGHE LA FABBRICA DEI DOTTORI
Non le sembra il caso di rivedere l’organizzazione degli studi universitari in Italia? Le lauree tradizionali sono state trasformate in lauree brevi triennali con una fantasiosa appendice biennale. La formula 3+2 è fallimentare perché dà in un tempo più lungo una preparazione inferiore. La laurea triennale nasce con un orizzonte più limitato di quello della vecchia laurea ora abolita, e il biennio aggiuntivo non crea un orizzonte nuovo, perché mancano le fondamenta. La laurea breve e la laurea tradizionale, ora detta magistrale, devono nascere come progetti separati fin dall’inizio.
Omar Valentini
omval@tele2.it
Caro Valentini, ho trovato considerazioni non diverse dalle sue in un bel libro di Andrea Graziosi («L’Università per tutti. Riforme e crisi del sistema universitario italiano»), pubblicato quest’anno dal Mulino. L’autore ricorda che la riforma nasce dal desiderio di uniformare per quanto possibile i percorsi educativi e formativi dei cittadini dell’Unione europea. Il primo passo fu la Dichiarazione congiunta della Sorbona, il 25 maggio 1998, e il secondo, più decisivo, quella dei ministri della Pubblica istruzione dell’Ue sottoscritta a Bologna nel giugno del 1999, in occasione del novecentesimo anniversario dell’università, su «Lo spazio europeo dell’istruzione superiore». Era, in linea di massima, una eccellente idea. In una comunità distinta da un mercato unico, da una moneta unica e dalla libera circolazione delle persone, i titoli di studio dovrebbero essere comparabili e valutabili con criteri comuni. Non era sbagliato quindi introdurre anche in Italia il sistema applicato con successo negli Stati Uniti: tre anni per un diploma di cultura generale con un particolare indirizzo (lettere, economia, comunicazione ecc.) e due anni di studi approfonditi in un’area più circoscritta.
Accanto a questo obiettivo europeo vi furono per i governi italiani altri obiettivi, non sempre altrettanto nobili. Volevamo, come ricorda Graziosi, aumentare il numero dei laureati e gonfiare in tal modo le nostre modeste statistiche nazionali. Volevamo ridurre il numero dei fuori corso incoraggiandoli a convertire gli esami già sostenuti in lauree brevi. Volevamo preparare i giovani all’esercizio di un mestiere. Ma gli obiettivi quantitativi sono spesso difficilmente conciliabili con la qualità degli studi. Non tenemmo conto del fatto, ad esempio, che la istruzione professionale di terzo livello viene spesso gestita all’estero «da istituzioni diverse dalle università, vale a dire non abilitate a rilasciare titoli dottorali». Sarebbe stato meglio favorire la distinzione fra le università e incoraggiarle a perseguire scopi diversi. Chiedemmo invece a uno stesso istituto di essere contemporaneamente scuola professionale e organizzatore di corsi per diplomi, lauree e dottorati. Poi, per buona misura, decidemmo che tutti, indipendentemente dal livello dei loro studi, sarebbero stati «dottori». Fra tutti gli effetti della riforma questo fu il più paradossale. Avevamo adottato il «tre più due» per rendere i nostri titoli di studio più facilmente comparabili con quelli europei e finimmo per confondere le idee dei nostri concittadini e dei nostri partner permettendo alle università di sfornare sempre e comunque «dottori».
Sergio Romano