Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  luglio 20 Martedì calendario

LA MORTE DELLA VEDOVA MORO

Col frastuono mediatico a cui purtroppo siamo abituati oggi, è veramente difficile ricordare la silenziosa vedova Moro, scomparsa a Roma all’età di 94 anni e a 32 dall’assassinio del marito. Noretta, la chiamava affettuosamente nelle sue lettere disperate lo statista sequestrato e poi ucciso dalle Br. Lettere che in buona parte le furono sottratte o taciute, di cui ebbe conoscenza nel loro insieme solo al momento delle indagini e dei processi, quattro, cinque, in cui la verità sulla tragedia fu sviscerata nei dettagli. Rinnovando il dolore dei familiari che avevano assistito attoniti, nei cinquantacinque giorni del sequestro, alla doppia condanna a morte piovuta sulla testa del loro congiunto, da parte dei brigatisti rossi deliranti e dello Stato, che aveva avuto Moro fra i suoi principali servitori, e non volle e non potè salvarlo.
Ma se appunto nelle aule di giustizia Eleonora Moro si decise a parlare e a lasciare trasparire la sua rabbia per un delitto annunciato e colpevolmente non evitato, in nome della cosiddetta «linea della fermezza», sulla quale si reggeva il governo Andreotti di unità nazionale, con i comunisti nella maggioranza, nei lunghi giorni che precedettero l’esecuzione Noretta visse una metamorfosi che nessuno dei pochi che la conoscevano avrebbe immaginato. Lei ch’era un prototipo delle consorti-ombra dei leader democristiani della Prima Repubblica - così diverse dalle first ladies già in voga nella vita pubblica americana, e al contrario tutte casa e famiglia, ignote ai più, e quasi mai accanto ai mariti, spesso neppure nei viaggi di Stato - si battè in ogni modo per cercare di fermare la ghigliottina brigatista che stava per calare sulla testa del presidente democristiano.
Invano, cercò aiuto nel segretario dc Zaccagnini, che doveva a Moro la sua elezione al vertice di Piazza del Gesù, ma era completamente intrappolato nell’alleanza con i comunisti. Pressò Andreotti, che rimase impassibile. Ottenne da Papa Paolo VI, ch’era stato collega di studi dello statista e come lui membro della Federazione universitari cattolici, un appello straziante in cui si rivolgeva ai terroristi chiamandoli «uomini delle Brigate rosse» e riconoscendo loro una dignità di interlocutori che il mondo politico nel suo complesso, tolto Craxi, non aveva voluto concedere. Anni dopo, non il leader socialista che s’era messo a capo del ”partito della trattativa”, ma i suoi stretti collaboratori che per suo conto avevano cercato di intavolare un negoziato con le Br, dovettero riconoscere che era un’impresa impossibile. I terroristi che in modo molto guardingo avevano accettato un contatto con il Psi erano in dissenso con il vertice brigatista che aveva già pronunciato la condanna, e non erano in grado di provocare un ripensamento.
Malgrado ciò Eleonora Moro non si arrese fino all’ultimo. Trovò in extremis un alleato in Fanfani, ch’era allora presidente del Senato e si adoperò volenterosamente, ma con una lentezza e un linguaggio involuto (basti dire che alla vigilia dell’esecuzione fece fare una dichiarazione di apertura al capogruppo democristiano al Senato Bartolomei così ambigua che i brigatisti non la capirono) che si rivelarono inutili. Fece tutto ciò senza andare in tv, senza fermarsi davanti alle telecamere che assediavano la sua casa, avvalendosi di comunicati scritti asciutti, lapidari, vergati con il solo aiuto dei familiari e degli amici più cari del rapito. Anche il suo dolore rimase a lungo riservato e dovettero passare molti anni prima che si lasciasse andare a esternarlo.
Così che, a ripercorrere oggi la strenua e solitaria battaglia di Noretta, quel che colpisce di più è il silenzio pubblico in cui si svolse e il terremoto che dovette provocare nella vita di una famiglia abituata, come usava allora, a vivere separatamente dal loro illustre parente una vita normale, o almeno apparentemente tale. Fatta di abitudini e problemi consueti, scuole e salute dei figli, nipotini, come «il piccolo Luca», che Moro citava con grande amore nei messaggi dalla prigione brigatista, e frequentazione quotidiana della parrocchia. Cosa a cui la signora Moro non rinunciò neppure nei giorni del sequestro, nella speranza, chissà, di un intervento divino sulla coscienza degli amici di partito. Contro i quali invece, prima di morire, in una delle ultime lettere, Moro lanciò il suo terribile anatema: «Il mio sangue ricadrà su di voi».
La risposta all’indifferenza e all’incapacità - forzate o volute che fossero - dei democristiani, all’indomani dell’abbandono del cadavere dello statista nella famosa Renault rossa in via Caetani, a metà strada tra il palazzo democristiano di Piazza del Gesù e quello comunista di Botteghe Oscure, fu il rifiuto secco di Noretta e della sua famiglia dei funerali di Stato, di quello Stato che non era riuscito a salvarlo. Che si svolsero egualmente, e paradossalmente, come una vuota celebrazione, davanti ai volti impietriti dell’establishment d’allora, mentre Moro veniva seppellito nel cimitero di famiglia a Turrita Tiberina in una cerimonia privata a cui il solo Fanfani era stato ammesso.