Sergio Romano, Panorama 22/7/2010, 22 luglio 2010
LA FRAGILITA’ DI ABU MAZEN LA FRAGILITA’ DI OBAMA
Mentre scrivo, il presidente palestinese Abu Mazen sembra respingere l’ipotesi di una trattativa diretta con Israele dopo la fase dei negoziati ravvicinati («proximity talks») durante la quale le due parti si parlano soltanto per il tramite del negoziatore americano George Mitchell. Può darsi che Abu Mazen ceda alle pressioni americane e cambi idea. Ma il suo atteggiamento potrebbe ricordare quello di Yasser Arafat all’incontro di Camp David nel 2000, quando il leader palestinese rifiutò di accettare la soluzione offerta dal premier israeliano Ehud Barak con la mediazione del presidente Bill Clinton. Perché Abu Mazen corra il rischio di passare alla storia come il secondo palestinese che ha perduto un’occasione storica?
Abu Mazen ha smesso da tempo di rappresentare l’intero popolo palestinese. La legislatura è già terminata da qualche mese e il presidente dovrebbe indire nuove elezioni. Ma una consultazione nella quale i palestinesi di Gaza fossero assenti non sarebbe rappresentativa e un voto con la partecipazione di Hamas potrebbe dare la vittoria a quest’ultima. I leader della Striscia assediata sono oggi più forti e credibili dell’Olp di Abu Mazen. Stanno resistendo strenuamente all’embargo israeliano, hanno conquistato la simpatia di una parte importante delle società occidentali, possono contare sul sostegno di due grandi potenze regionali: la Turchia e l’Iran. Abu Mazen non ha molto di cui andare orgoglioso. Le condizioni economiche e sociali della Cisgiordania sono nettamente migliorate, però il merito è soprattutto della fermezza con cui il premier Salam Fayyad si è dedicato al consolidamento delle istituzioni e al rilancio dell’economia.
Sul piano politico, vale a dire sui grandi problemi insoluti della questione palestinese, Abu Mazen non ha ottenuto quasi nulla. Vi è stato un momento in cui Barack Obama ha fermamente denunciato gli insediamenti coloniali israeliani nei territori occupati e ha rafforzato in tal modo la posizione di Abu Mazen. Più recentemente, tuttavia, ha fatto un passo indietro e si è accontentato di un temporaneo congelamento, fino al mese di settembre, che non si applica comunque a Gerusalemme Est: qualche giorno fa il comitato per la programmazione urbanistica del municipio di Gerusalemme ha approvato la costruzione di 32 nuovi appartamenti in un quartiere ebraico che sorge al di là della Linea verde, nella parte tradizionalmente araba.
Dietro questo stallo vi è una prova di forza fra Obama e Benjamin Netanyahu. Il primo sa che gli insediamenti stanno rendendo sempre più difficile la soluzione dei due stati, per cui tutti dichiarano di volere lavorare; ma teme l’influenza della lobby israeliana sulla politica americana e guarda soprattutto alle elezioni del prossimo novembre per il rinnovo parziale del Congresso. Il premier israeliano fa concessioni parziali e temporanee perché spera di guadagnare tempo e di avere a che fare, tra qualche mese, con un presidente americano ancora più debole. Non è difficile comprendere perché Abu Mazen, in queste circostanze, guardi con preoccupazione alla prospettiva di lasciarsi imprigionare in un negoziato da cui uscirebbe, nella migliore delle ipotesi, uno stato palestinese zoppo e monco. Hamas lo rappresenterebbe agli occhi dell’opinione pubblica palestinese come un leader impotente, una specie di maresciallo Pétain, privo, come il presidente della Francia di Vichy, di qualsiasi reale indipendenza e autorità.