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 2010  luglio 22 Giovedì calendario

TRE ARTICOLI SULLA SANITA’ (SSN

e assistenza integrativa nelle aziende) -

ALLA SANITA’ I CONTI NON TORNANO

Quando un solo comparto spazza via il 75-80 per cento di un bilancio e quel bilancio viene tagliato di 8 miliardi e mezzo in due anni, è difficile credere al governo se dice che la sanità non verrà toccata dalla manovra. Soprattutto se all’articolo 14 di quella manovra si legge che le regioni dovranno ridurre i costi anche adottando "misure di contenimento della spesa sanitaria". Un mantra, ormai, ripetuto a ogni occasione che palesa la necessità di mettere in ordine i conti pubblici. Che incide sulla carne viva dei cittadini delle cinque regioni col deficit sanitario monstre (Lazio, Campania, Calabria, Molise e Abruzzo) chiamate a ripianare in gran fretta, il che significa tagliare posti letto e prestazioni senza avere nulla di alternativo da offrire. E che diventa materia bollente quando il ministro dell’Economia Giulio Tremonti annuncia che dopo l’estate sarà pronto il primo atto del federalismo: i costi standard della sanità, ovvero la definizione della spesa necessaria a mantenere gli italiani in salute partendo da quanto impiegano le regioni virtuose Emilia-Romagna, Lombardia, Toscana e Veneto, e dai costi standard si attende un risparmio di almeno 4 miliardi.
Ma non serve attendere tanto: dalla stima fatta dalla Cna di Mestre sui probabili tagli che oggi le Regioni saranno chiamate a fare emerge che 878 milioni in due anni saranno sottratti all’assistenza sociale, con punte fino a 318 milioni in Lombardia tolti alla gestione di uno dei capitoli più seri della sanità: l’assistenza ai non autosufficienti, agli handicappati, agli anziani. E poi la sforbiciata ai camici bianchi che per questo sciopereranno il 19 luglio: 78 mila operatori in meno, di cui 15 mila sono medici, nei prossimi tre anni col blocco del turn over non potrà che tradursi nella paralisi di molti ospedali e Asl. Insomma, se i conti dello Stato sono in disordine la sanità, che si porta via 112 miliardi nel 2010, deve mettersi a dieta. Ma perché?
Se è vero che spendiamo molto meno dell’Europa dei 15, che impiegano per questo comparto il 9,2 per cento del Pil a fronte del nostro 8,7, e meno persino della media Ocse (8,9); e se è vero, come indica l’Oms, che il nostro servizio pubblico è al secondo posto nel mondo per qualità nell’equità, per quale ragione, tra i mille capitoli di bilancio, è proprio la spesa sanitaria a dover essere ridotta? Insomma, dobbiamo forse accettare l’idea che siamo così malridotti da non poterci più permettere un Servizio sanitario nazionale universale?
Il tema è certamente politico giacché, come rileva l’economista dell’Università di Roma Tor Vergata, Federico Spandonaro, che cura ogni anno il "Rapporto Ceis Sanità", "la ragione prima del Ssn è l’equità. Quindi, dal momento che guardiamo al suo finanziamento, dobbiamo prima di tutto chiederci: vogliamo questo livello di equità o siamo disposti a rinunciarci?". Ma una valutazione di questo genere non basta più. Perché messa nell’angolo da due dati di realtà: da un lato il fatto inoppugnabile che cinque regioni affossano i conti dell’intero sistema coi loro deficit, e lo standard nazionale con la pessima qualità delle prestazioni che forniscono; e dall’altro che il combinato disposto dell’enorme debito pubblico e dell’invecchiamento della popolazione pone un interrogativo inedito: il Ssn è un sistema efficiente? Utilizza bene i denari che spende?
Certo è un sistema del tutto particolare giacché ha a che fare con la materia più dolorosa, la malattia, l’invalidità e, eventualmente, il fine vita; e sicuramente ha un guardiano rigoroso, l’articolo 32 della Costituzione che fa della salute un diritto. Ma ugualmente è un sistema economico e oggi gli si chiede di essere efficiente. E di spiegare perché, ad esempio, un parto in Campania costa più del doppio della media nazionale; o perché prima di operare un malato nel Lazio se lo tengono in ospedale in media 2,33 giorni a fare costosamente niente, mentre in Emilia Romagna ci sta meno di un giorno. O ancora come mai più del 30 per cento dei ricoveri in Campania non ha alcun senso clinico, mentre in Toscana questo genere di errore non supera l’8 per cento. Insomma, è sotto gli occhi di tutti che una buona quota del Ssn non funziona. E va raddrizzata. Partendo dal richiamo della Corte dei Conti che ha mostrato che, se tutti fossero virtuosi come le magnifiche quattro, il sistema costerebbe 2,3 miliardi in meno. "La Corte molto opportunamente indica dei capitoli di spreco. Sta alla politica decidere se si tratta di risparmiare 2,3 miliardi o di spenderli meglio", chiosa Spandonaro: "I confronti con gli altri paesi ci dicono che non è vero che spendiamo troppo. Ma le regioni del Sud e il Lazio, con il loro comportamento stanno mandando all’aria tutto".
A dirlo è l’analisi dei disavanzi che mostra come su 3,4 miliardi di deficit dell’intero Ssn, 3,2 sono nel Centro-sud (vedi tabella in pagina). L’elenco però, sottolineano i tecnici, non stila una pagella dei buoni e dei cattivi, innanzitutto perché il finanziamento pro capite stabilito dal Fondo sanitario, pesato sulla base dell’età dei cittadini, non tiene conto dei profili epidemiologici legati al tessuto produttivo o ai tassi di urbanizzazione: di quanto colpiscono, ad esempio, malattie costose come il cancro, molto più diffuse in regioni come il Friuli Venezia Giulia e Lombardia e meno in aree come l’Umbria o la Calabria, o quanto incidono le grandi aree metropolitane con le malattie dell’inquinamento. E infine a pesare è anche il modello del sistema economico-sanità: regioni come la Lombardia puntano tutto sulla concorrenza tra il pubblico e il privato convenzionato e lo scontano con qualche eccesso di spesa per ospedalizzazione (il privato convenzionato costa di più ed è più esposto a abusi di ricoveri e prestazioni), ma il grande spolvero dei celebri nosocomi lombardi attrae gente da tutt’Italia e con i malati arrivano i denari delle altre regioni: i cittadini non ne traggono vantaggio in salute ma il sistema sì. Insomma, non basta andare a vedere chi spende meno, bisogna scoprire chi spende meglio. Sul piatto, quindi, c’è un tema che intriga oggi più di ogni altro gli economisti sanitari: come definiamo un sistema sanitario efficiente?
Le valutazioni commissionate dal ministro Ferruccio Fazio alla Scuola Sant’Anna di Pisa vanno a vedere se gli ospedali spendono in maniera appropriata i denari che ricevono. E rilevano, ad esempio, quante volte si ricoverano persone inutilmente o quali regioni continuano a destinare più risorse agli ospedali e meno al territorio (scelta stigmatizzata come spendacciona e non salubre). Scrutando tutte le schede di dimissione ospedaliera d’Italia, la scuola di Sant’Anna ha fotografato il sistema delle inefficienze. E lo scatto è nitido: ci sono regioni molto valide come l’Emilia-Romagna, l’Umbria, il Veneto, la Lombardia, la Toscana, e altre che sprecano: palma d’oro al Lazio, ma anche Campania, Calabria, Molise.
Ma non basta, perché questo lavoro si limita agli ospedali. Per misurare l’efficienza dell’intero sistema bisogna mettere queste valutazioni insieme ai costi pro capite della sanità nelle diverse regioni e all’effettivo stato di salute delle popolazioni. Una faccenda dannatamente complessa. Ci ha provato il Cerm di Pisa guidato da Fabio Pammolli, che elabora una complicato modello per tenere conto dei costi e della qualità del sistema (vedi tabella di pag. 110) per fare una classifica di efficienza delle regioni italiane. Con un risultato inquietante: "Le regioni più inefficienti sono anche quelle che appaiono meno in grado di fornire prestazioni di qualità ai loro cittadini", annota Pammolli, "sovraspesa e bassa di qualità vanno di pari passo".
Rendere il Ssn più efficiente, allora, non vuol dire renderlo meno equo. Anzi. questo che ha spinto il ministero a fare di quattro regioni i pilastri su cui costruire il modello di spesa. Regioni con modelli molto diversi, magari con una diversa idea di equità e persino di sanità. Omologate da alcune caratteristiche: la qualità dei servizi, e la loro efficienza economica. E soprattutto il fatto di essere il risultato di un cammino di riforme iniziato oltre vent’anni fa. Un tempo necessario a spostare, ad esempio, l’asse del sistema dagli ospedali ai mille presidi del territorio (medici di base, piccoli laboratori, assistenza domiciliare, eccetera). A mettere in pratica politiche di prevenzione (convincere, ad esempio, le donne a fare tutte la mammografia o chi ha più di 55 anni a controllarsi il colon). A centralizzare i servizi: perché in Friuli Venezia Giulia un laboratorio di analisi fornisce 600 mila prestazioni l’anno e in Sicilia ne fa meno di 85 mila?
Ci vuole tempo e carisma politico per fare una rivoluzione di questo genere. Niente a che vedere con i cosiddetti piani di rientro che oggi le regioni meno virtuose devono presentare in tutta fretta. E che, necessariamente, si trasformeranno in tagli ai servizi. "I piani di rientro presentati oggi non hanno obiettivi realistici. Non miglioreranno le performance dei sistemi", dice Gilberto Turati, economista dell’Università Cattolica di Milano. Agli addetti ai lavori appare chiaro come finirà questa storia: il federalismo sanitario e i costi standard, imposti all’improvviso su sistemi antiquati e spreconi, faranno macelleria nella maggior parte delle regioni del Sud. A meno che, come suggerisce Spandonaro: "Non ci sia un supporto tecnico molto robusto da parte delle regioni virtuose e una volontà politica ferrea di raddrizzare le cose, della quale molti dubitano". Perché è ovvio, ancorché tragico, che la risposta alla nostra domanda se ci possiamo ancora permettere un Ssn equo ha oggi un’unica risposta: una parte d’Italia sì, e una parte no.

Daniela Minerva

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LA RIVOLUZIONE FEDERALISTA

La tensione si taglia a fette, nei piani alti del ministero della Salute dove i tecnici stanno preparando il primo banco di prova del federalismo fiscale: i costi standard per le prestazioni sanitarie pubbliche calcolati in base
a quanto spendono le regioni più virtuose. Moltiplicando poi questi costi per il numero degli abitanti, il Tesoro conta di calcolare il fabbisogno di ogni regione: quelle che hanno risorse autonome sufficienti copriranno le spese per proprio conto, quelle in difficoltà potranno contare su un fondo statale per coprire la differenza fino a quando non saranno anch’esse autonome. Pena la messa in mora delle amministrazioni spendaccione.
Sembra una strada diritta e lineare. Ma come percorrerla è un rompicapo. A partire dalla definizione dei costi standard: il governo sembra
voler ponderare la spesa delle regioni virtuose (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana) per classi di età e sesso, ma anche in base ai consumi pro capite delle principali variabili della spesa (farmaci, ricoveri, prestazioni specialistiche, ambulatori di oggi. Un metodo che
rischia, avvertono però i tecnici del Mef, "di inglobare nella spesa anche costi di sistemi erogativi meno efficienti", che ne manderebbero
all’aria l’attendibilità esponendo l’operazione a ridefinizioni continue
sulle quali la politica finirà col far pesare esigenze di consenso
che nulla hanno a che fare con la razionalizzazione del sistema.
Per questo l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali mette in discussione l’idea stessa che i costi standard possano essere utilizzati per stabilire l’ammontare delle risorse necessarie alla sanità. E propone
prima di fissare la quota di Pil da dedicare alla salute, e poi di provvedere a dividerla nel modo più equo possibile tra le regioni. Pesando la popolazione per età, ma introducendo anche determinanti economiche (istruzione, condizioni di lavoro, abitazione) e di stato di salute della popolazione, che consentirebbero di dividere le risorse in maniera più rispondente ai bisogni. Altrimenti si rischia di ripartire i finanziamenti secondo la spesa storica, il cui superamento è tra gli obiettivi della stessa legge sul federalismo fiscale.

Cesare Fassari

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PRIMA LA SALUTE POI IL SALARIO -

La chiamano "sussidiarietà", ma a volte ti salva la vita, come alla quarantenne bancaria di Milano. "Il tumore alla mammella era in stato avanzato. La signora chiese di intervenire subito, in regime privatistico, senza aspettare i tempi del servizio sanitario nazionale, e dopo quattro giorni era in sala operatoria all’Istituto Europeo di Oncologia di Umberto Veronesi. Costo circa 30 mila euro". Valerio Ceffa, direttore di Mu.Sa, un consorzio di mutuo soccorso sanitario, ricorda l’episodio di due estati fa. La signora non ha speso un euro per l’operazione: il contratto integrativo della banca per cui lavora prevede l’assistenza medica, fra cui i grandi interventi chirurgici, rimborso analisi di laboratorio e ticket, sussidio in caso di inabilità, visite specialistiche e ricoveri. I 250 euro l’anno al consorzio di Ceffa sono versati dal suo datore di lavoro e i benefici sono estesi ai suoi familiari.
L’integrazione sanitaria per i lavoratori dipendenti si sta diffondendo velocemente, negli ultimi anni, con i contratti integrativi di lavoro. Motivo? Lo Stato non riesce più a garantire tutte le prestazioni in modo efficiente e veloce; ecco allora che entrano in campo le società di mutuo soccorso, le assicurazioni e i fondi aziendali o di categoria. Secondo il rapporto sanità del Ceis dell’Università Tor Vergata di Roma, le famiglie italiane spendono di tasca loro 25 miliardi di euro per la sanità (che si sommano a quelli spesi dallo Stato per il Ssn) ma solo il 6 per cento di loro ha una polizza sanitaria integrativa. Mentre il 4,1 per cento delle famiglie si impoverisce a causa delle spese mediche per far fronte a patologie drammatiche. Le mutue sanitarie potrebbero quindi diventare un benefit importante per i lavoratori.
Paolo Da Lan, sindacalista della Uil di Belluno, è un assertore dei contratti integrativi sulla sanità. Ne ha appena firmato uno alla Luxottica di Leonardo Del Vecchio, che entrerà in vigore a settembre per i 7.300 lavoratori. Si va dalle cure odontoiatriche all’alta diagnostica, ai grandi interventi. In tempi di vacche magre, in cui è difficile chiedere aumenti salariali, l’unico modo per recuperare potere d’acquisto sembrano essere i contratti integrativi su welfare e sanità. sempre De Lan a spiegarne la convenienza. "Se chiediamo un aumento di 240 euro l’anno, il cuneo fiscale, cioè la fiscalità a carico del datore di lavoro e del dipendente, si porterà via quasi la metà. Al lavoratore restano poco più di 120 euro l’anno, 10 euro al mese". Ma se l’intera somma viene destinata alla cassa sanitaria, la cifra è esente da prelievo fiscale e viene interamente versata dal datore di lavoro per la salute del lavoratore. una legge del ’92 che lo prevede, a firma dell’allora ministro alla Sanità Rosy Bindi, rimasta inapplicata fino ai decreti di Livia Turco del 2008 e del ministro Maurizio Sacconi di pochi mesi fa. Le spese per le mutue sanitarie non vengono tassate ma a una condizione: debbono essere previste da accordi sindacali in sede di contratto di lavoro integrativo.
Così, sono proprio i sindacati a puntare a questo tipo di accordi, che vengono introdotti anche nelle piccole aziende con meno di dieci dipendenti, come le coperative. Alla DeRigo Refrigeration di Belluno, 170 dipendenti, poche settimane fa i lavoratori hanno promosso un referendum: aumento di stipendio o cassa sanitaria? Il 70 per cento ha scelto la sanità e i 200 euro sono finiti tutti nella cassa salute. Punto debole dell’accordo, secondo alcuni lavoratori, è il tetto massimo di 200 euro per le cure dentarie, ma con un modesto contributo si può estendere la cassa ai familiari.
Alla Granarolo l’accordo sulla mutua sanitaria è stato siglato due anni fa, ricorda Claudio Leandri, direttore delle risorse umane. Prevede la copertura totale dei grandi interventi chirurgici, un’indennità giornaliera per ricoveri, visite specialistiche e accertamenti diagnostici, cicli terapeutici, trattamenti fisioterapici a seguito di infortuni e assistenza odontoiatrica. Costo: 250 euro l’anno a carico dell’azienda, mentre il lavoratore può estendere la copertura ai familiari conviventi con 200 euro per il coniuge e 175 per figlio. L’accordo con i sindacati ha preceduto l’istituzione del Fondo sanitario nazionale per i lavoratori dell’industria alimentare, che partirà nel gennaio 2011. Anche alla Ducati sono stati fra i primi ad attivare la mutua sanitaria, così all’Anas, alla DeLonghi, alla Siemens, a Sky, al gruppo Gucci, alla Campari, a Finmeccanica e alle cartiere Fedrigoni. Ma il primato va ai dipendenti del Biscione. Fininvest e Mediaset hanno sottoscritto la copertura assicurativa di quattro mila dipendenti con UniSalute, specializzata nella gestione dei fondi salute, affiliata alla Legacoop. Convenzione rinnovata nel 2006 proprio nei giorni in cui infuriava la polemica di Berlusconi contro l’Unipol sul caso Consorte per la scalata a Bnl.
Tuttavia non c’è uniformità fra i vari piani sanitari per i dipendenti. Si entra in una giungla di prestazioni e di costi assicurativi a seconda del numero dei dipendenti e, dunque, dell’ammontare complessivo del fondo in dotazione. Non sono comunque le singole aziende a gestire direttamente la salute dei propri dipendenti. Le gestione dei fondi, dei piani sanitari e la rete delle convenzioni (con cliniche, laboratori d’analisi e dentisti) sono affidate a strutture specializzate. Anzitutto agli storici consorzi mutualistici e alle assicurazioni. La potenza in questo settore è rappresentata dalla bolognese UniSalute della Legacoop, un colosso che garantisce la copertura sanitaria a due milioni di aderenti, concentrati sull’asse Roma-Milano. "Il mercato crescerà molto", dice il presidente Lorenzo Bifone: "almeno 150 milioni di euro l’anno. Ora siamo solo in una fase iniziale". Il business dei fondi integrativi sanitari vale quattro miliardi di euro l’anno. Tanto appetibili che è stato istituito un registro, anche per sbarrare la strada alle cricche affaristiche. "Finora gli iscritti sono 279 sui 400 che operano sul mercato fra assicurazioni, che sono la parte più consistente, società di mutuo soccorso e fondi di categoria", rivela Placido Putzolu, presidente della Federazione delle mutue integrative. I dipendenti di molte aziende, come nel settore manifatturiero, sono gli ultimi ad arrivare e debbono siglare accordi azienda per azienda. Ma intere categorie vi hanno aderito in sede di contrattazione nazionale, come quella degli alimentaristi, il cui accordo entrerà in vigore nel 2011, oppure i lavoratori del commercio, che da anni hanno costituito il potente FondoEst. Giungla fitta, invece, nella pubblica amministrazione: i dipendenti della Presidenza del consiglio e del Consiglio superiore della magistratura hanno un contratto sanitario, ma la quasi totalità degli statali ne è sprovvista.
C’è il rischio di una dispendiosa sovrapposizione con il Servizio sanitario nazionale? Forse sì. Ma intanto le mutue e le assicurazioni riescono a spuntare fortissimi sconti nelle strutture private per le stesse prestazioni sanitarie offerte dal Ssn.

Paolo Tessadri