Francesco Margiotta Broglio, Corriere della Sera 03/07/2010, 3 luglio 2010
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L’INESTIRPABILE MODERNISMO
Nella sua «Relatio» del novembre 1903 il cappuccino Pie de Langogne, consultore del Sant’ Uffizio, polemizzando con il gesuita Gismondi che cercava di difendere lo studioso modernista Alfred Loisy, esortava con veemenza i cardinali della Congregazione a non tollerare nella «miserrima» Francia un autore che «ai pargoli del Santuario» offriva impunemente «pietre» al posto del «pane vivificante e il serpente mortifero... al posto del pesce divino». Questo e altri documenti inediti di grande interesse provengono in massima parte dall’ archivio della Congregazione per la dottrina della fede. L’ ormai più che decennale apertura agli studiosi decisa da papa Wojtyla ha offerto e offre una ricchissima e spesso scomoda documentazione del secolare confronto tra Chiesa e culture della modernità, scandito da censure e condanne e da quello che è stato considerato un «disciplinamento pervasivo e minuzioso». Sono, in particolare, i primi quattro decenni del Novecento a consentire, grazie alle nuove fonti, una determinante integrazione degli studi esistenti, numerosi e di grande rilievo (si pensi a Bedeschi, Guasco, Zambarbieri, Scoppola, Raponi, Botti, Cerrato, Fantappiè, Poulat, Turvasi, Parente, o alle «testimonianze» di Levi della Vida, Jemolo, Donini, e dello stesso Buonaiuti) sulla inesorabile repressione delle correnti di rinnovamento spirituale, storico e teologico ricomprese nel generico termine di «modernismo». A questa «mobilitazione» sono ora dedicati due volume innovatori e molto importanti. Guido Verucci - al quale già dobbiamo una esemplare ricerca sul processo censorio in absentia cui fu sottoposta l’ intera opera di Croce e di Gentile - ricostruisce su carte inedite la meticolosa e capillare repressione del modernismo italiano (L’ eresia del Novecento, Einaudi). Gli studi raccolti da Claus Arnold e Giovanni Vian (La condanna del modernismo, Viella) mettono in nuova evidenza, alla luce delle successive condanne, l’ autonomia e specificità della crisi modernista, inquadrandola «negli sviluppi della storia del cristianesimo in un arco cronologico più lungo», e le connessioni di essa «con processi di più lunga durata». Verucci prende le mosse dalla «eredità» di Leone XIII, con i suoi sforzi di recuperare spazi per il cattolicesimo nella società in profonda trasformazione e per favorire un qualche rinnovamento teologico, ma anche con le sue perduranti nostalgie per «una certa concezione imperialista dell’ azione della Chiesa verso la società», con la condanna dell’ «americanismo» (1899) e i primi sospetti verso laici, ecclesiastici e religiosi che, in qualche caso, portarono la Congregazione a discutere, all’ inizio del 1901, sulle misure da prendere per bloccare nei seminari la diffusione delle tesi di Murri. All’ inizio del Novecento, comunque, se le gerarchie vaticane sono ancora polarizzate su questioni essenzialmente politiche (sovranità del papato dopo il 1870, divisioni del movimento cattolico, paura del socialismo e della diffusione in Europa della laicità liberale), alcuni «giovani, ecclesiastici i più, ma anche laici» si fanno interpreti del «grave disagio prodotto dallo stato di tensione tra cattolicismo e cultura moderna» (Levi della Vida), mentre si intensificano i «fermenti di rinnovamento religioso, in senso biblico ed ecclesiale, al di fuori di preoccupazioni politiche», ma «collegati a iniziative sociali ed educative a favore dei ceti bisognosi» (Verucci). Il serrato discorso di Verucci si articola sui primi tre pontificati del Novecento, con una postilla su quello di Pacelli in riferimento a Ernesto Buonaiuti, e mette in nuova luce la crescente organizzazione della repressione, affrontando i casi e le censure, i ritorni alla Chiesa e le vite chiuse nel silenzio, le riduzioni allo stato laicale e le definitive condanne di Buonaiuti nel corso del pontificato di Pio XI, dopo le esitazioni di Benedetto XV e del suo segretario di Stato, Gasparri. Condanne che si tradussero anche in una disposizione concordataria che ne avrebbe dovuto assicurare l’ estromissione dall’ Università. Nuova anche la documentata prospettiva dei contrasti tra Benedetto XV e il Sant’ Uffizio, che si riprodurranno, con larghe analogie, quando, alla caduta del fascismo, si porrà il problema della reintegrazione di Buonaiuti nell’ insegnamento, con le note «contorsioni» dei ministri democratici della Pubblica istruzione e con le inedite iniziative del capo gabinetto di Sforza, Vittorio Ivella, nel ’ 44, presso la segreteria di Stato in favore di Buonaiuti, dei padri Ceresi, Valentino e Cordovani nello stesso senso presso Montini, al quale il Sant’ Uffizio però ribadì che la questione non poteva essere trattata dalla segreteria di Stato. Del tutto nuovo anche il timore del direttore di «Civiltà cattolica», Martegani, che Buonaiuti potesse diventare ministro senza portafoglio nel governo Bonomi. Del resto è noto che nel ’ 46 egli penserà di candidarsi alla Costituente. Alle prime censure al medesimo Buonaiuti è, invece, dedicato, nel volume edito da Viella, il contributo di Zambarbieri, che illustra le meno esplorate vicende del venticinquenne docente del Seminario romano che il maestro del Sacro Palazzo, Lepidi, difese a oltranza contro il gesuita Rosa, che sarà il «torturatore» di Buonaiuti ancora per decenni. Della condanna di Loisy tratta, invece, Arnold con riferimento alla prima trasposizione dell’ antimodernismo in un testo del magistero (il decreto Lamentabili del 1907), mentre Vian analizza l’ atteggiamento larghissimamente adesivo dei vescovi italiani e francesi (molto preoccupati, questi ultimi, dalla legge di separazione tra Stato e Chiesa) alle condanne culminate nell’ enciclica Pascendi di Pio X (1907). Losito studia le caute aperture di Laberthonnière, la Perin ricostruisce il caso del vescovo di Vicenza Rodolfi e la Schepers illustra, con elementi del tutto nuovi, i contrasti in Curia sul giuramento antimodernista destinato al controllo delle coscienze, che verrà prestato da tutti i chierici fino al 1967, anche con riferimento all’ opposizione di Gasparri a menzionarlo nel Codex che stava per essere promulgato. Che cosa resta, oggi, delle correnti «moderniste» e della loro spietata repressione? Verucci, il quale ricorda che fra le «colpe del passato» per le quali Giovanni Paolo II chiese «perdono» essa non rientrò, vede nel ’ 68 religioso una «nuova ondata di modernismo, assai più radicale e più vasta della precedente». Arnold e Vian ritengono che il disciplinamento antimodernista continui a pesare e sia, in un certo senso, responsabile dell’ «implicito depotenziamento dell’ insegnamento conciliare» e di una continuità, risalente al Vaticano I, che consente di riproporre, mutatis mutandis, il potere «esclusivo delle gerarchie ecclesiastiche» nella «definizione e interpretazione dei fondamentali diritti dell’ uomo». Un’ ottica che però deve, oggi, fare i conti con quel generale «declino del cattolicesimo europeo» documentato di recente dalla rivista «Esprit», con il timore, espresso dall’ arcivescovo di Poitiers il giorno di Pasqua, sulla base dei dati Ifop, che la Chiesa stia diventando una «sottocultura», con la prima generazione di «increduli» di cui ha parlato Armando Matteo e con i dati di partecipazione alla messa analizzati di recente su «Polis» da Rossi e Scappini. Il problema si risolverà, forse, quando non ci saranno più «truppe», né da una parte né dall’ altra.
Francesco Margiotta Broglio