Nadia Maria Filippini, Corriere della Sera 05/04/2010, 5 aprile 2010
STORIA DELLE SORELLE D’ITALIA (SENZA ONORI E CITTADINANZA)
Il 21 0ttobre 1866, mentre sul pennone di piazza S. Marco a Venezia sventola il primo tricolore e si preparano i festeggiamenti del plebiscito, una folla di donne invade l’area marciana agitando fazzoletti bianchi: inscenano un’imprevista manifestazione di festa certo, ma sorprendentemente anche di protesta. Proprio nel luogo deputato a sottolineare i grandi eventi della Serenissima, le donne intendono esprimere «l’amarezza e l’umiliazione» per la loro esclusione «da tutto ciò che si attiene al governo della cosa pubblica», come scrivono a chiare lettere in un messaggio inviato al re.
Si tratta della prima manifestazione suffragista della storia d’Italia, che prende corpo proprio nel momento costitutivo dello Stato nazionale; espressione più eclatante ed esplicita di altre azioni che si registrano in vari luoghi della penisola al momento dei plebisciti, nel 1860 e nel ”66, dal Nord al Sud, con modalità e forme diverse, sospese appunto tra la festa e la protesta. C’è chi allestisce urne separate (2000 donne votano a Mantova); chi organizza cortei e banchetti; chi invia indirizzi di adesione al re, non senza mancare di dichiarare «ingiusta e ingrata la nuova società, che nega affatto ogni diritto politico alla parte più viva e più influente dell’umano consorzio», come si legge nel Suffragio delle donne dell’Italia meridionale a sua maestà Vittorio Emanuele II (8 novembre 1860).
In questi episodi e discorsi sta tutta l’ambivalenza di un passaggio storico che segnava per tante patriote la realizzazione delle più alte aspirazioni civili e politiche, ma che sanzionava al tempo stesso l’esclusione dai diritti politici, codificando nel nuovo regno il loro essere cittadine senza cittadinanza.
Eppure le donne avevano contribuito in maniera determinante alla costruzione dello Stato nazionale, come hanno messo in luce le ricerche di storia delle donne e una recente storiografia finalmente attenta al genere, perché il Risorgimento non poteva essere e non fu solo cospirazione e azione militare, ma in primis processo di consapevolezza e di identità nazionale, mobilitazione delle coscienze, assunzione di nuovi modelli, rinascita morale e civile, coerentemente all’accezione stessa del termine. Un campo nel quale profusero un’azione e un impegno costanti e pervasivi, appena rintracciabili negli scritti, negli appelli, nelle lettere, nelle poesie patriottiche, in gesti e azioni simboliche; insomma in tutta quell’azione sotterranea e impalpabile fatta di mobilitazione, di educazione, di trasformazione dei comportamenti, dei sentimenti, dei culti. Così erano andate a costruire l’identità nazionale nella quotidianità, a tessere l’unità a partire dalle relazioni.
Molte di loro, per lo più appartenenti a quella borghesia cittadina che rappresentava il cuore della mobilitazione, avevano fatto anche di più, impegnandosi in prima persona nell’attività cospirativa, come «giardiniere» nella Carboneria o nella Giovane Italia: raccolte di fondi, sottoscrizioni, proclami, scritti, messaggi patriottici passavano più facilmente nelle loro mani (o sotto le vesti), meno sospette perché femminili; mentre nei salotti, sotto l’apparenza di conversazioni letterarie, si cospirava: celebre tra tutti quello di Clara Maffei, amica di Manzoni e di Verdi.
Non sempre era andata così liscia: molte erano state costrette all’esilio (tra queste Elena Monti d’Arnaud, Teresa Confalonieri, Bianca Milesi e Luisa Blondel, moglie di Massimo D’Azeglio); altre erano finite nelle maglie della polizia, denunciate e processate a migliaia, come traspare dai fascicoli che più minuziose indagini d’archivio hanno recentemente portato alla luce.
Ma soprattutto le donne avevano svolto un ruolo di primo piano in quell’appuntamento cruciale della storia, in quella «primavera della patria» che fu il ”48. Da Palermo a Venezia, da Milano a Brescia, l’insurrezione le aveva viste mobilitate in prima linea con gli uomini, a costruire barricate, a confezionare cartucce, a fare da vivandiere, a organizzare infermerie e ospedali.
A Brescia, Carolina Santi Bevilacqua aveva allestito un ospedale da campo al seguito dell’esercito piemontese, nelle cui file morirà il figlio Girolamo. Cristina Trivulzio di Belgiojoso, la principessa ritratta da Hayez, aveva guidato da Napoli a Milano un battaglione di 200 volontari a sostenere l’insurrezione. A Venezia, le donne avevano fondano la Pia associazione per supporto ai militari, coordinata, tra le altre, da Elisabetta Michiel Giustinian e Teresa Perissinotti Manin, con il compito di occuparsi dell’equipaggiamento delle truppe e dell’assistenza ai feriti. Così a Roma, nel ”49, Mazzini aveva affidato a una specie di «triumvirato femminile» (Cristina di Belgiojoso, Giulia Bovio Paolucci ed Enrichetta Di Lorenzo, compagna di Carlo Pisacane), la direzione del Comitato di soccorso ai feriti che arruolerà centinaia di infermiere (suscitando scandalo negli ambienti clericali).
Alcune avevano anche imbracciato le armi e combattuto sulle barricate, come si vede in molte stampe dell’epoca: da Colomba Antonietti, ad Antonietta De Pace, a Marianna De Crescenzo, che a Napoli aveva capeggiato uno squadrone di armati e accolto Garibaldi con lo scialle in spalle e il pugnale alla cintura. Travestite da uomini, erano andate a quelle guerre «sante» nell’accezione mazziniana, dette appunto «crociate», assumendo come modello Anita Ribeiro da Silva, moglie di Garibaldi, che a fianco dell’eroe si batterà fino alla morte, anche se incinta.
Ad altre questa «fortuna» non era stata concessa: la richiesta formale avanzata da alcune veneziane di costituire un battaglione femminile della Guardia civica, era stata respinta dal comandante, che aveva indirizzato verso attività più consone al «gentil sesso» il loro impegno. La donna in armi, o «virile» come si diceva allora, rappresentava nell’immaginario maschile un fantasma troppo eversivo dei ruoli sessuali e dell’ordine sociale che su questi poggiava.
E nel ”48 erano fioriti anche i primi giornali di donne, come la Tribuna delle donne (Palermo), Il Circolo delle donne italiane (Venezia) o La donna italiana (Roma), a riprova di come la partecipazione potesse innescare processi di consapevolezza di diritti sessuati, aspirazioni di «risorgimento delle donne e della nazione», come già avvenuto in precedenti frangenti rivoluzionari. Molte avevano pagato questo impegno con il carcere e con la vita stessa.
Fatta l’Italia, a qualcuna di loro, per lo più notabili e aristocratiche, toccò l’onore di una medaglia o l’omaggio reale di un anello a pietre tricolori, quali «benemerite della patria». A tutte, se non l’oblio della storia, la riduzione a un ruolo gregario di «ispiratrici» e «ancelle» dei «fratelli d’Italia», veri fondatori dello Stato nazionale, in un processo di riscrittura storica che ridimensiona la presenza femminile, che offusca e ridisegna le biografie «divergenti», per lasciare sull’altare della patria come icona femminile, solo quella della madre che offre in sacrificio i figli (esemplificata da Adelaide Cairoli); mater dolorosa mutuata dal simbolico cattolico che diventa figura-chiave del discorso nazional-patriottico successivo.
Una marginalizzazione storico-rappresentativa, cui fa da contraltare l’esclusione dai diritti civili e politici, formalizzata da un codice civile (Pisanelli,1865) assai più restrittivo in tema di diritti e libertà delle donne sposate di quello austriaco: una vera beffa per le lombarde e le venete!
Sarà proprio a partire da questa esperienza dissonante di nuove identità e di diritti negati che prenderà vita, nel secondo Ottocento, il movimento di emancipazione delle donne, per rivendicare una piena inclusione nella sfera della cittadinanza, a partire dall’esser madri sì, ma cittadine, come specificheranno Anna Maria Mozzoni e Gualberta Beccari. Iniziava così un percorso lungo e tortuoso, non ancora pienamente concluso.
Nadia Maria Filippini