www.nationalgeographic.it 7/4/2010, 7 aprile 2010
SCEGLI IL TUO VELENO. DODICI STORIE TOSSICHE
I nostri peggior nemici arrivano a piccole dosi. Il 14 agosto 1996 Karen Wetterhahn, tossicologa e docente di chimica presso il Dartmouth College si è versata una goccia, una minuscola particella di dimetilmercurio sulla mano sinistra. Wetterhahn, alta, magra, forte, era un esperta di metalli tossici e di come sono in grado di provocare il cancro, una volta penetrate nelle membrane delle cellule. Quando si è versata la goccia di veleno lì, nel suo laboratorio, non si aspettava nulla di quanto stava per accadere, perché indossava i guanti di lattice. Ciò che non conosceva l’ha uccisa.
Il dimetilmercurio è stato sufficientemente volatile da penetrarle il guanto. Cinque mesi più tardi, Wetterhahn ha cominciato a inciampare nelle porte e a strascicare le parole. Dopo tre settimane in ospedale è entrata in coma.
"Sono andato a trovarla, ma non era il tipo di coma che mi aspettavo," ricorda Diane Stearns. una dei suoi studenti post-dottorato, ora anch’essa docente di chimica. "Si dimenava, suo marito ha visto le lacrime rigarle il viso. Ho chiesto se stesse male, ma i medici dicevano che non risultava che il suo cervello fosse in grado anche solo di registrare dolore."
Karen Wetterhahn è morta cinque mesi dopo. Aveva 48 anni, era moglie e madre di due figli. Il mercurio aveva divorato le sue cellule cerebrali "a poco a poco, come termiti, per mesi," ha detto uno dei suoi medici. Com’è possibile che una così brillante, meticolosa tossicologa di prima classe abbia fatto questa fine?
"Solo i domatori vengono uccisi dai leoni," ha commentato Kent Sugdan, suo collega di post-dottorato.
Il veleno è un assassino silenzioso, efficace in minuscole quantità spesso impercettibili. il tradimento nel bicchiere di vino all’arsenico. L’attrazione fatale: la mela avvelenata di Biancaneve, L’arte di sfidare la morte del domatore di serpenti, la roulette giapponese praticata dai mangiatori di fugu. Senza veleno, i supereroi dei fumetti e i cattivi di opere teatrali e film sarebbero decisamente più pallidi. Spiderman esiste grazie a un morso di ragno radioattivo. Le Tartarughe Ninja erano normali tartarughe e sono diventate ninja cadendo in una fogna insieme a un contenitore di materiali tossici. Laerte ha ucciso Amleto con una spada intinta nel veleno, e la perfida madre di Claude Rains avvelenava furtivamente i drink di Ingrid Bergman nel thriller di Hitchcock Notorious - L’amante perduta.
Si direbbe che il tossicologo è colui che studia le sostanze che causano la morte. In realtà, la tossicologia ha a che fare anche con la vita. Ciò che uccide, cura.
Paracelso, un fisico e alchimista svizzero-tedesco vissuto nel XVI secolo una volta affermò: "Nulla è di per sé veleno, tutto è di per sé veleno, è la dose che fa il veleno." Insomma, il veleno sta nella dose. Tossicologia e farmacologia sono infatti strettamente collegate tra loro, una dualità alla Jekyll-Hyde. Un serpente attorcigliato intorno a un bastone simboleggia Asclepio, dio greco della medicina.
Prendiamo ad esempio l’arsenico, veleno dei re e re dei veleni. Sfruttando alcuni percorsi nelle nostre cellule, l’arsenico si lega alle proteine e crea il caos molecolare. Piccole quantità assunte per un lungo periodo portano debolezza, confusione mentale e paralisi. Assumendone meno di 3 grammi in una volta sola si hanno i classici segni di avvelenamento da arsenico acuto: nausea, vomito, diarrea, pressione bassa e, infine, morte.
Incolore, insapore e inodore, l’arsenico era il veleno preferito dai Borgia, famiglia rinascimentale esperta di omicidi ingegnosi, e da Hieronyma Spara, imprenditrice romana del XVII secolo che gestiva una scuola per insegnare alle giovani mantenute come fare fuori i propri mariti e diventare giovani vedove benestanti.
Per ambiziosi principi l’arsenico, detto poudre de succession (polvere di successione) è stato il lasciapassare per il trono: se somministrato in piccole quantità ad una balia, il veleno può contaminare il latte materno e uccidere i rivali neonati.
Dalla morte alla vita: Nel V secolo a. C Ippocrate utilizzò l’arsenico per curare l’ulcera. Divenne un ingrediente della Soluzione di Fowler, che fu scoperta nel 1786 e prescritta per oltre 150 anni per trattare numerosi disturbi e malattie, dall’asma al cancro. Nel 1910, un composto di arsenico divenne il primo rimedio efficace per la sifilide (poi sostituito da penicillina). I derivati dell’arsenico sono tuttora usati per trattare la malattia del sonno africana. Nel 1890 William Osier, fondatore della moderna istruzione medica, definì l’arsenico il miglior farmaco per curare la leucemia e oggi questa sostanza continua ad essere un efficace agente chemioterapeutico per le forme acute della malattia.
Quindi l’arsenico è un veleno o una droga? Secondo Joshua Hamilton, docente di tossicologia e farmacologia a Dartmouth "è entrambe le cose; dipende: stai parlando con un Borgia o con un fisico?" Siamo circondati da veleni. Non è solo l’eccesso di una brutta sostanza come l’arsenico a poter causare problemi, ma l’eccesso di qualunque cosa: troppa vitamina A, ipervitaminosi A, può causare danni al fegato; troppa vitamina D può danneggiare i reni; troppa acqua può causare iponatriemia, una diluizione del contenuto di sale nel sangue che distrugge il cervello e la funzione muscolare.
Anche l’ossigeno ha un aspetto sinistro. "L’ossigeno è la tossina ultima", afferma Michael Trush, tossicologo presso la Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health. L’ossigeno si combina col cibo per produrre energia; ma il nostro corpo produce anche radicali dell’ossigeno, ovvero atomi con un elettrone di troppo che danneggiano biomolecole, DNA, proteine e lipidi.
"Il nostro corpo si ossida continuamente", continua Trush; "il prezzo biochimico della respirazione è l’invecchiamento." Vale a dire: ci arrugginiamo. Come se i veleni di tutti i giorni non bastassero, ci si mettono anche i pericoli naturali più esotici ad angosciarci. una giungla là fuori; ci sono 1.200 specie di organismi marini velenosi, 700 specie di pesci velenosi, 400 di serpenti velenosi, 60 zecche, 75 scorpioni, 200 ragni, 750 veleni in più di 1.000 specie di piante e svariati uccelli dalle piume tossiche se toccate o ingerite.
Ma se il mondo ci tradisce, come mai l’avvelenamento non è tra le più frequenti cause di morte per l’uomo? Perché il nostro corpo è la corazza che ci protegge dalle tossine naturali e da quelle artificiali. La pelle, nostra prima linea di difesa, è fatta di cheratina - così impermeabile, resistente e fitta che solo le molecole più piccole e liposolubili riescono a penetrarvi. I nostri sensi ci avvertono della presenza di sostanze nocive e, se falliscono, subentra il vomito come seconda barriera. Infine c’è il fegato, che trasforma i veleni liposolubili in rifiuti idrosolubili che poi espelliamo attraverso i reni. La bilancia si inclina verso la tossicità solo quando oltrepassiamo la soglia del sovradosaggio.
Il tossicologo Mark Gallo conosce letteralmente a fondo il principio della soglia. Gallo, personalità iperattiva in un fisico segaligno, è un direttore associato presso il Cancer Institute del New Jersey, a New Brunswick. Nel febbraio 2004, all’età di 64 anni gli è stato diagnosticato un linfoma non-Hodgkin. Due settimane dopo è diventato tossicologo e paziente presso l’istituto. Il suo oncologo lo ha messo a dieta di tossine per via endovenosa per quattro mesi; così ha iniziato questo trattamento, meglio noto come chemioterapia, in una clinica appena quattro piani sotto il il suo ufficio.
Gli ingredienti del suo "cocktail" comprendevano Cytoxan, adriamicina, vincristina, prednisone e Retuxan - quest’ultimo abbastanza tossico da causare effetti collaterali che vanno dal vomito alla diarrea, al calo di peso, ai danni a fegato, cuore e vescica fino alla morte per infezione irreversibile, causata a sua volta da depressione del sistema immunitario. Inoltre, come Gallo sarà lieto di confermare, "Quasi tutti i farmaci contro il cancro sono di per se stessi cancerogeni".
"D’altra parte, commenta Gallo, "Nel momento in cui hanno bloccato l’ago nella mia vena mi sono sentito sollevato. Ho pensato: l’hanno preso, quel bastardo."
Gallo è stato fortunato. La sua chioma rossa e fluente è caduta, il suo aspetto è diventato quello tipico di una persona sottoposta a chemioterapia. Ma a parte la fatica e il periodico conteggio "al volo" dei globuli, ha continuato a lavorare durante la terapia.
"A me è andata bene", racconta, "ma nella stanza accanto alla mia c’era un paziente simile a me, della mia età e col mio stesso fisico: lui ha avuto problemi di rigetto. Perché? I miei enzimi farmaco-metabolizzanti dovevano essere leggermente diversi dai suoi."
Sono questi aspetti della tossicologia - la questione di differenza, la questione di quantità, la sottile linea che separa morte e guarigione - che Gallo, in quanto scienziato, adora. Questi aspetti sono il fulcro della tossicologia e quindi del veleno. "La tossicologia ti dà la possibilità di comprendere la biologia", sostiene Gallo.
Tra l’altro, la tossicologia gli ha anche salvato la vita. Sei mesi e migliaia di milligrammi di farmaci tossici dopo, il suo medico lo ha dimesso: il linfoma è in remissione.
La storia di due tossicologi finisce tragicamente per una, felicemente per l’altro. Se Karen Wetterhahn ha perso la vita a causa del veleno, Michael Gallo gli deve la sua e commenta: "Ho schivato un proiettile letale grazie ad una serie di proiettili ben piazzati. Se non fosse per la tossicità, a quest’ora sarei un uomo morto. Ringrazio Dio per averla creata".
Il curioso caso di Napoleone Bonaparte
E’ un gioco di indizi e un giallo storico, tutto in uno. La vittima è Napoleone Bonaparte, morto il 5 maggio 1821 a Sant’Elena, dove era stato mandato in esilio in seguito alla sconfitta subita a Waterloo. L’autopsia eseguita il mattino seguente ha dato come risultato la perforazione dello stomaco causata da un’ulcera, forse cancerosa. La vera causa del decesso? ? motivo di discussione da allora. Ecco alcune teorie.
Omicidio politico
Assassinato da avvelenamento da arsenico: questa la tesi di Ben Weider, fondatore della Società Internazionale Napoleonica e presidente di un enorme impero del body-building canadese. Per più di quarant’anni Weider ha cercato ininterrottamente la verità sulla morte di Napoleone, investendo ingenti risorse. A suo parere, Napoleone è stato avvelenato dagli inglesi e dai monarchici francesi, che lo volevano fuori dai piedi una volta per tutte. Al centro della sua ipotesi, Weider pone l’analisi dei capelli fatta da Pascal Kintz, lessicologo francese dell’Istituto di medicina legale di Strasburgo. Kintz ha sottoposto campioni di capelli di Napoleone a una tecnica sofisticata nota come spettrometria di massa di ioni secondari, che ha confermato la presenza a lungo termine di arsenico. Se Kintz prende le distanze dal commentare i risultati dell’esame, Weider è convinto che "l’avvelenamento di Napoleone fu intenzionale e pianificato. Il resto sono solo stupidaggini."
Avvelenamento ambientale
Avvelenamento da carta da parati: è quanto teorizza David Jones, immunologo presso l’Università di Newcastle in Inghilterra. La carta da parati della residenza di Longwood House, dove Napoleone ha trascorso i suoi ultimi anni di vita, conteneva verde di Scheele, un composto dell’arsenico altrimenti detto arsenito di rame. Una volta attaccato dalla muffa portata dal clima umido di Sant’Elena, l’arsenico si sarebbe diffuso nell’aria. Una cinquantina di anni fa a Clare Boothe Luce, ambasciatrice americana in Italia, è stato diagnosticato un avvelenamento da arsenico causato dalla caduta di trucioli di pittura che rivestivano le rose in stucco del soffitto della sua camera da letto.
Negligenza
Ucciso dai suoi medici: è ciò che sostiene Steven Karch, cardiopatologo di Berkeley in California. I medici di Napoleone gli somministrarono alte dosi di lassativi tra cui il tartaro emetico e, il giorno prima della sua morte, una dose massiccia di cloruro mercuroso, chiamato calomelano. Secondo Karch, i farmaci gettarono gli elettroliti di Napoleone nel caos totale, spezzando il battito del suo cuore e quindi provocandogli un arresto cardiaco. In termini patologici, la causa immediata della morte di Napoleone fu un’aritmia cardiaca portata all’esasperazione dalla negligenza dei medici e aggravata da esposizione cronica all’arsenico.
Malattia
Il cancro e le ulcere come risulta dall’autopsia: a Jean Tulard, uno dei maggiori storici napoleonici che la Francia può vantare, l’analisi dei capelli effettuata da Kintz non convince. Secondo lui la provenienza di quei capelli, cioè se appartenessero davvero a Napoleone o no è uno dei molti problemi che impediscono di individuare la verità dei fatti. "Esistono più campioni di capelli di Napoleone che reliquie della croce", ironizza. Al di là di tutto, Tulard scredita la teoria dell’avvelenamento per il semplice fatto che nessuno ha ancora trovato elementi che colleghino Hudson Lowe, il governatore generale britannico di Sant’Elena - o chiunque altro - a qualsiasi complotto contro la vita di Napoleone. "Un dibattito fasullo", afferma, "anche se è importante sapere come è morto".
Vendetta
"Un mio avo l’ha fatto", afferma Francois de Candé Montholon con una vena di orgoglio. ("Sono un aristocratico. Gli aristocratici non amano la rivoluzione e Napoleone ha fatto la rivoluzione") Il Conte di Monthlon, antenato di Candé-Monthlon, era con Napoleone a Sant’Elena. Napoleone ebbe una relazione e un figlio con la moglie del conte. Sappiamo che il conte era responsabile della cantina e del cibo di Napoleone; potrebbe quindi, spinto dal desiderio di vendetta, avergli avvelenato il vino?
Nessuna conclusione...
"Tutti hanno ragione, tutti hanno torto", dice Paul Fornes, patologo forense presso l’ospedale Georges Pompidou di Parigi. Fornes ha esaminato il rapporto sull’autopsia del 1821 e altri documenti storici e conclude: "Napoleone potrebbe essere morto di cancro, ma non è morto di cancro." Allo stesso modo, Fornes afferma che sebbene l’analisi dei capelli dimostri la presenza di arsenico, nessuno è in grado di stabilire se l’arsenico gli sia stato somministrato intenzionalmente né se l’ha ucciso. Secondo Fornes, l’accusa di omicidio per avvelenamento non potrebbe mai finire in tribunale.
Ognuno creda ciò che vuole. "Ci siamo lasciati alle spalle il mondo della storia e della scienza", spiega Jean-François Lemaire, medico e storico francese, disdegnando il circense dibattito (conferenze stampa! Articoli di giornale!). "Ora siamo nel mondo dell’intrattenimento." O forse è il classico caso in cui si vuole, come direbbero i francesi, couper les cheveaux en quatre - spaccare il capello in quattro.
Fai un solo passo falso e il serpente ti morde!
Nel corso di un’indagine sulla fauna selvatica che sta conducendo da solo su di un’isola deserta della barriera della Florida, l’erpetologo Bruce Means trova il suo rettile velenoso preferito.
Sa a cosa va incontro, ma cerca di attirare il serpente con un bastone...
Il serpente si difende e colpisce!
solo una puntura sul dito, ma Bruce sa che il veleno farà effetto in pochi secondi.
I tessuti si sciolgono in enzimi all’attacco velenoso.
Mentre le tossine lo devastano, Bruce si trascina in cerca di aiuto prima che sia troppo tardi.
Il sangue e altri liquidi cominciano a invadergli i tessuti. Il sangue sta perdendo la capacità di coagularsi. Morirà?
Ce l’ha fatta.
Bruce è riuscito a raggiungere un ospedale ed è sopravvissuto, ma il crotalo diamantino orientale ancora rivendica una vita occasionale. La potenza del veleno varia a seconda dell’età del serpente, quanto tempo è passato dall’ultima volta che si è cibato, in che momento del giorno subiamo il morso, quanto in profondità penetra e quanto veleno inietta.
Nella peggiore delle ipotesi
Insufficienza circolatoria, shock, necrosi massiccia dei tessuti ed emorragia interna ed esterna portano alla morte. La soluzione è il soccorso medico, ma alcuni fanno passare troppo tempo prima di cercare aiuto. Altri, spesso bambini, semplicemente non sono abbastanza robusti per resistere all’effetto letale del veleno.
Concerto in SI per Botox & Piano
"Ero spacciato", racconta Leon Fleisher; e quarant’anni dopo la sua voce lascia ancora trapelare la soffocante disperazione di allora. Fleisher, uno dei pianisti da concerto più importanti del mondo, parla del tragico finale di un giorno del 1965, quando la carriera che con tanta cura aveva coltivato per sé (il suo primo concerto pubblico a 8 anni, uno spettacolo con la filarmonica di New York alla Carnegie Hall a 16) fu bruscamente interrotta.
Fleisher, uomo dal carattere espansivo come una sinfonia di Beethoven, è seduto nella sala da musica della sua residenza di Baltimora. In quella sala, due pianoforti a coda Steinway formano un puzzle; sopra uno dei due ci sono le foto di un giovane e allampanato Leonard Bernstein e di George Szell, il leggendario maestro della Cleveland Orchestra ("con il suo solito sguardo algido", osserva Fleisher). La conversazione si sposta su quel giorno alla Severance Hall di Cleveland quando George Szell diresse Fleisher e l’orchestra nelle ultime prove prima di un tour nell’Unione Sovietica. "Eravamo in piena Guerra Fredda. Volevamo dare una lezione di musica ai russi," ricorda Fleisher. "A un certo punto mi accorsi che l’anulare e il mignolo della mia mano destra si erano involontariamente piegati. In quel momento pensai che dovessi metterci più impegno, e così feci, ma la situazione peggiorò. Anche George se ne era accorto".
Dopo le prove, Szell convocò Fleisher nel suo studio. "Non credo che sia una buona idea che tu venga in tour", gli disse. Stop, fine della corsa. Fleisher aveva 37 anni; la sua vita era appena sfumata.
Poi ci furono i medici: ortopedisti, neurologi, psichiatri e un chirurgo della mano. E iniezioni, radiografie, farmaci, agopuntura, aromaterapia. Tutti tentativi falliti. Tutto inutile. "Era come se la mia mano fosse posseduta dagli alieni," racconta. "Non dipendeva più da me."
Una carriera rovinata. Un matrimonio andato in frantumi. Il pensiero, addirittura, di farla finita.
"Finalmente, un giorno mi resi conto che ciò che mi legava alla musica era molto di più di un paio di mani. Così iniziai a dirigere, suonare il repertorio da mancino e insegnare presso il Conservatorio Peabody." Ma il dolore per il pezzo mancante della sua vita non passava. "Ho insegnato e diretto e ogni maledetto giorno ho provato a far funzionare questa mano." Alza la mano incriminata e mostra le dita incurvate all’indentro come artigli.
In tutto ciò, una breve tregua degna di nota c’è stata. Nel 1981 sembrò infatti che le condizioni stessero migliorando. Fleisher suonò all’apertura della Meyerhoff Hall di Baltimora. "Avevo resistito", ricorda, "ma appena appena. Poi sono scoppiato dietro le quinte. Un uomo adulto che piange come un bambino..."
Decenni dopo, ecco emergere una diagnosi. Fleisher era affetto da distonia focale, una sorta di tilt del cervello che causa spasmi e costringe quindi i muscoli a tenere posizioni anormali e a volte dolorose. Si tratta di un disturbo che spesso colpisce coloro che dipendono da piccole e specifiche azioni motorie; per esempio musicisti, scrittori e chirurghi. Finalmente un sollievo sembrava possibile. Gli fu suggerita una sperimentazione clinica presso i National Institutes of Health, dove la tossina botulinica era un rimedio testato contro le disfunzioni muscolari patologiche.
La tossina botulinica è prodotta dal batterio Clostridium botulinum, tra le sostanze più velenose che si conoscano. Un grammo di tossina botulinica, se disperso e ingerito, può uccidere 20 milioni di persone. La tossina produce una proteina che inibisce il rilascio di acetilcolina, un trasmettitore che comanda al muscolo di contrarsi. Il farmaco Botox, contenente il veleno in forma estremamente diluita, si è rivelato efficace e sicuro nelle applicazioni mediche che spaziano dalla distensione delle rughe alla cura dell’emicrania, alla correzione dello strabismo, a un trattamento per le contrazioni spastiche di sclerosi multipla e paralisi cerebrale.
La tossina botulinica allevia i sintomi senza curare la malattia; per questo, Fleisher riceve un’iniezione ogni sei mesi circa. Ma il miracolo, anche se dura sei mesi soltanto, è comunque un miracolo.
"Ho avuto otto, forse nove vite", dice Fleisher. In ognuna di esse c’è stato qualcosa per cui gioire, ma forse soprattutto nella nona: è tornato a esibirsi, va di nuovo in tour e di recente ha pubblicato il suo primo lavoro a due mani in quarant’anni.
Artur Schnabel, il mentore di Fleisher il cui insegnante aveva a sua volta avuto come maestro Beethoven in persona, diceva che la vita è ascendente. "L’unica cosa che cresce verso il basso sono le patate", ripeteva al suo protetto. Un direttore leva le braccia al cielo; un ballerino volteggia elevandosi; noi tutti cresciamo verso l’alto. "Suonate con slancio", Fleisher esorta i suoi studenti.
Quarant’anni dopo, anche la vita di Fleisher volge verso l’alto.
Che cosa prendi?
La segale infettata da ergot, un fungo tossico, ha causato epidemie devastanti nel corso della storia. Tremori e allucinazioni sono alcuni dei sintomi; l’isterismo delle persone accusate di stregoneria nel XVII secolo potrebbe essere stato, in realtà, avvelenamento dalla cosiddetta segale cornuta.
Le spie a volte portavano con sé pillole letali nascoste dentro a oggetti come gli occhiali, per usarle nel caso in cui venissero catturate. "Il KGB afferrava le spie per la gola, in modo tale che non potessero inghiottire", spiega Peter Earnest dell’International Spy Museum di Washington, D. C.
Un popcorn cat - un prodotto dolciario a forma di gatto e fatto di popcorn colorati - avvelenò diversi bambini nel 1955 in New England. Il colorante arancione in esso contenuto raggiunse livelli tossici a causa di scarsi controlli di fabbricazione. Le vittime alla fine guarirono; il produttore fu costretto a ritirare gli altri gatti dal mercato.
Il National Cancer Institute valuta il potenziale apporto delle tossine di animali marini per lo studio di nuovi farmaci contro il cancro. Gli animali invertebrati a mobilità limitata si difendono con il veleno. Lo scienziato del NCI David Newman la chiama "guerra chimica animale."
Georgi Markov, dissidente bulgaro, fu assassinato a Londra nel 1978 da un uomo che gli si avvicinò e gli puntò contro un ombrello modificato per sparare una pallottola contenente ricina, una tossina letale. Questa riproduzione mostra il meccanismo di funzionamento dell’arma.
Nel 1971 a Bedford, New York, un uomo morì di avvelenamento da botulino dopo aver mangiato della vichyssoise della casa produttrice Bon Vivant. Furono ritirati dal mercato più di un milione di barattoli di zuppa, forse non sufficientemente trattata. La società presentò istanza di fallimento.
Buono da morire
Il fugu (Takifugu rubripes) è un pesce dalle labbra spesse e lo sguardo spietato del peggior gangster di Chicago. Meglio noto come pesce palla, in Giappone è una prelibatezza. Ma può anche essere letale: mangiandone il fegato, le ovaie, le gonadi, l’intestino o la pelle si ingerisce tetrodotossina, una potente neurotossina che congestiona il flusso di ioni di sodio nelle cellule nervose paralizzando gli impulsi nervosi. Si corre il rischio di fare la stessa fine del famoso attore di kabuki Mitsugoro Bando, che nel 1975 si abbandonò a una lunga cena a base di fegato di fugu perché gli piaceva sentire quel formicolio che gli provocava alle labbra e alla lingua. Al formicolio seguirono la totale paralisi degli arti, problemi respiratori e infine, otto ore dopo, la morte. Non esiste alcun antidoto conosciuto.
Per fortuna al giorno d’oggi gli chef di fugu hanno una preparazione estremamente controllata e certificata. Gli aspiranti cuochi che intendono passare ore e ore in cucina a pulire e tagliare il fugu in tranci sottili come fazzoletti per la preparazione di un sashimi da 500 dollari a porzione, devono sostenere un esame: 20 minuti a sezionare il pesce e separare i pezzi commestibili da quelli non commestibili, contrassegnare quelli tossici con etichette di plastica rosse e quelli commestibili con etichette nere e infine creare una composizione artistica. All’esame dell’anno scorso hanno partecipato 900 aspiranti cuochi di fugu; di questi, solo il 63% lo hanno superato.
La fonte velenosa del fugu è oggetto di dibattito. Tamao Noguchi, ricercatore presso l’Università di Nagasaki ritiene che il segreto stia nella dieta del pesce. Il pesce palla, sostiene Noguchi, ingerirebbe le tossine di piccoli organismi come molluschi, vermi e crostacei, i quali avrebbero a loro volta ingerito un batterio tossico chiamato vibrio. Durante i suoi esperimenti, Noguchi ha allevato il fugu in gabbia controllandone la dieta; in questo modo il pesce sarebbe cresciuto privo di tossine.
Noguchi spera che la sua ricerca porti lo Stato ad autorizzare la vendita di fegato di fugu. " una grande squisitezza; una volta assaggiata non si può più farne a meno,", afferma. Il Giappone ha vietato la vendita di fegato di fugu dal 1983; prima di allora, le persone morte per averne abusato o anche solo per averlo ingerito per sbaglio si contavano a centinaia.
Se Noguchi riesce nel suo intento, i golosi potranno avere di che rallegrarsi; i pesci però, come avverte lo stesso ricercatore, potrebbero risentirne. "Dopo tutto," dice, "un fugu senza il suo veleno è come un samurai senza spada."
Kendo Matsumura, biologo ricercatore presso l’Istituto di ricerca per la sanità pubblica della prefettura di Yamaguchi, scredita la teoria di Noguchi sulla dieta letale. Matsumura sostiene infatti che la tossicità del fugu provenga da ghiandole velenose poste sotto l’epidermide del pesce. Alcuni fugu sarebbero velenosi, altri invece no; ma neanche gli esperti sarebbero in grado di distinguere gli uni dagli altri.
Matsumura non ha mai mangiato fugu. "Non sono un giocatore d’azzardo," dice. Noguchi, al contrario, lo considera il non plus ultra dell’alta cucina. Non ci è dato sapere da che parte stia la ragione. Comunque sia, de "fugubus" non disputandum est.
All’obitorio con Al e Marcella
Marcella Fierro è capo esaminatore medico presso il Commonwealth della Virginia, e docente presso il Dipartimento di medicina legale della Commonwealth University School of Medicine di Richmond. Supervisiona le indagini mediche attorno alle morti violente, sospette e innaturali che hanno luogo in Virginia, e ha ispirato il personaggio Kay Scarpetta dei gialli di Patricia Cornwell. Alphonse Poklis è direttore di tossicologia e docente di patologia, chimica, medicina forense, farmacologia e tossicologia presso la Virginia Commonwealth University. Lavora con Fierro per analizzare le prove mediche nei casi di omicidio e testimonia come esperto in tribunale.
Cos’è che fa scattare l’allarme? Da cosa si capisce quando si ha a che fare con un caso di omicidio per avvelenamento?
MF: Ci sono un paio di segnali. Se qualcuno assume una dose eccessiva di qualcosa di tossico, ci si aspetta una classica serie di sintomi che anche uno specializzando della prima ora saprebbe notare. Con l’avvelenamento cronico, quando cioè le tossine vengono assunte lentamente e in maniera continuativa, è invece più facile sbagliare la diagnosi. Un caso recente aveva a che fare con dell’antigelo nel Gatorade. Un comune segnale di allarme potrebbe essere una ricca cartella clinica. Ad esempio, si prospettano un sacco di tranelli per il tirocinante che ha a che fare con strani sintomi o mal di stomaco. La vittima non si sente bene, ha un dolore diffuso e generico. Naturalmente, col tempo i classici segni di avvelenamento si fanno riconoscere: il paziente non mangia, perde peso, appare ogni giorno più squilibrato mentalmente. Sembrerebbe una malattia qualunque, ma non lo è.
A che punto entrate in gioco voi?
MF: Esaminiamo i corpi di persone morte all’improvviso, inaspettatamente, in maniera violenta, o per la cui morte c’è un’accusa di omicidio. Se abbiamo il corpo prima che sia interrato, lo esaminiamo. Spesso però ci vuole del tempo prima che spunti un capo d’accusa o che qualcuno gli dia credito. Magari un familiare della vittima ha un movente: dissenso circa una proprietà, un’eredità, una nuova moglie, un figlio che non ha ricevuto un buon trattamento. Tutte cose che mettono in moto una serie di eventi. Il corpo dovrà quindi essere riesumato.
E poi, come procedete?
MF: Prelevo molti campioni di tessuto in fase di autopsia: cuore, fegato, polmoni, cervello, milza, capelli, unghie. Il sangue ti dice quello che stava succedendo nel corpo al momento della morte. L’umore vitreo dell’occhio è utilissimo. E’ pulito, nessuna fermentazione né contaminazione batterica. Al ed io lavoriamo assieme. Quali veleni sono candidati? Che cosa è meglio raccogliere? C’è bisogno di una strategia. Vorremmo sapere a quale veleno avrebbe accesso l’imputato. Se è un agricoltore cerchiamo fra i suoi attrezzi del mestiere, per esempio pesticidi o erbicidi. Dobbiamo sapere in che direzione stiamo andando; è facile restare a corto di tessuti e campioni di sangue prima di restare a corto di test da fare.
Allora la tecnologia che utilizzate per rilevare il veleno in un cadavere dev’essere piuttosto avanzata.
AP: Molto. Io la chiamo lo zero relativo. Negli anni ’60 ci volevano 25 ml di sangue per rilevare la morfina. Oggi ce ne basta 1 ml. In termini di sensibilità, dai microgrammi siamo passati ai nanogrammi, ossia da parti per miliardo a parti per trilione con la spettrometria di massa. Con la ricerca si può trovare qualsiasi cosa. Naturalmente ci sono sostanze più evidenti di altre. Per esempio puoi sentire l’odore del cianuro nel momento stesso in cui apri un corpo per fargli l’autopsia. Il cianuro fa effetto molto rapidamente, come si vede nei film quando catturano una spia e quella morde la capsula e muore. soffocamento chimico; il cianuro colpisce i mitocondri nelle cellule e ogni cellula è così privata dell’ossigeno. Si muore in fretta, drammaticamente, con violenza.
Esiste un profilo personale tipo dell’avvelenatore?
AP: L’avvelenatore cerca di agire con discrezione, al contrario di chi spara, strangola o stupra. Conosco uno psicologo forense che chiama gli avvelenatori "assassini custode". Spesso si tratta di una vicenda familiare; si svolge nel giro di mesi o nel giro di un anno. Il fautore si prende cura della sua vittima e la guarda morire. Il veleno è l’arma del controllo per certi individui furtivi e privi di coscienza, che non provano pena né rimorso. Fanno paura, sono manipolatori e se non fosse per le prove stenteremmo a credere che si possa fare una cosa simile.
MF: Al vede l’avvelenatore come un controllore. Come uno scaltro psicopatico che saprebbe mentire anche a Cristo in croce e tu gli crederesti. Ne conosco solo due che si dichiararono colpevoli.
E un caso che ti è rimasto impresso?
MF: C’era un tizio all’ospedale dell’Università della Virginia. Veniva continuamente ricoverato per strani disturbi gastrointestinali. I medici si arrovellavano senza riuscire a capire di cosa potesse trattarsi. Quando stava meglio, sua moglie veniva a trovarlo in ospedale e gli portava del budino alla banana. Poi qualcuno decise di fargli i test di tossicità per i metalli pesanti. Ma lui fu dimesso prima che uscissero i risultati: arsenico in quantità spropositate. Ma quando li videro fu già troppo tardi. La moglie fu soprannominata Arsenico Budin.
Con quanti casi di sospetto omicidio per avvelenamento avete a che fare in un anno?
AP: Per essere sincero, relativamente pochi. Non è davvero nell’indole del killer americano. Se sei americano e vuoi uccidere qualcuno, gli spari a sangue freddo. Un vero uomo non sta a gingillarsi. Nella cultura americana tutto viene risolto in mezz’ora; perciò non si perde tempo a pianificare, andare a cercare il veleno e ragionare sul come somministrarlo. Si agisce e basta.
Tu sei l’esperto; se dovessi scrivere la formula del veleno perfetto per un omicidio, che ingredienti avrebbe?
AP: Un paio di idee le avrei, ma non ho intenzione di condividerle.
La morte a Venezia
Pensandoci bene, in 500 anni non molte cose sono cambiate. Spie, omicidi, contratti segreti, tangenti: tutte cose che fanno parte della normale amministrazione di un paese.
Nell’Italia rinascimentale, "il veleno era la soluzione a questioni politiche delicate", spiega Paolo Preto, docente di storia moderna presso l’Università di Padova. Quindi non dovrebbe sorprendere il fatto che l’avvelenamento venisse considerato un’arte alla stregua della pittura dell’architettura, o della scultura. L’aggiunta di un tocco di arsenico, cicuta o elleboro al vino era cosa discreta, quasi impercettibile (le autopsie erano rare a quei tempi), nonché assai meno "sporco" rispetto all’utilizzo di un coltello o di una pistola.
I Borgia - Alessandro VI e suo figlio Cesare, erano gli esperti avvelenatori del mondo religioso. Da papa, Alessandro sceglieva uomini benestanti e li nominava vescovi e cardinali. Permetteva loro di aumentare le proprie ricchezze, dopodiché li invitava a cena. Il vino della casa, asciutto, con sentori di arsenico congedava subito gli ospiti, le cui ricchezze, secondo il diritto ecclesiastico, passavano nelle mani dei padroni di casa. Il saggista britannico Max Beerbohm scrisse: "I Borgia selezionavano e disponevano veleni rari nelle loro cantine, con la stessa dedizione con cui curavano i loro vini d’annata. Sebbene nel XV secolo capitasse spesso di sentire uno snob romano dire ...’Stasera sarò a cena dai Borgia,’ nessun romano è mai stato in grado di dire ’ierisera ho cenato con i Borgia’."
Ma la capitale italiana della cospirazione era Venezia, dove gli architetti del male erano i membri del Consiglio dei Dieci, un tribunale speciale creato per scongiurare complotti e crimini contro lo stato. Per compiere l’avvelenamento, il Consiglio contrattava con un assassino, di solito proveniente da un’altra città. Una volta portato a termine l’atto, l’assassino veniva ricompensato tramite un intermediario. Il Consiglio disponeva di fondi immediatamente disponibili per questo tipo di utilizzo e teneva due diversi rendiconti: uno per le spese pubbliche e l’altro per quelle di natura privata.
Le procedure cappa e spada avvelenata del Consiglio venivano registrate ufficialmente (di fronte, in basso) in un volume sottile chiamato Secreto Secretissima. I presenti giuravano due volte sulla Bibbia di mantenere segrete le riunioni; era vietato persino ammettere che queste ci fossero mai state. Oggi il libro mastro si trova sotto un arco crescente negli archivi di stato di Venezia.
Si prenda in considerazione il piano proposto nelle sue pagine da un medico a un generale veneziano in guerra contro i turchi in Dalmazia. Il medico propose di tagliare le ghiandole infette delle vittime di peste bubbonica e farne una pozione velenosa da spalmare sui berretti di lana che sarebbero quindi stati venduti a buon mercato dietro le file nemiche, ai turchi. Presumibilmente, il nemico compratore si sarebbe ammalato di peste e quindi si sarebbe pentito dell’acquisto.
Il complotto fu accolto con entusiasmo dal generale, finché qualcuno non gli fece garbatamente notare che poiché molte truppe veneziane stazionavano dietro il fronte in Dalmazia, anche i suoi soldati correvano il rischio di venire infettati e quindi di perire insieme ai nemici.
Il veleno di qualche anno fa, la diossina, è stato protagonista del dramma del presidente ucraino Viktor Yushchenko, vittima di un complotto con lo scopo di eliminarlo dalla scena politica. Negli Stati Uniti, tali complotti segreti divennero oggetto di indagini da parte del Congresso dopo i primi anni ’60, quando l’eliminazione del dittatore cubano Fidel Castro era una priorità assoluta della CIA.
I gangster che collaboravano al piano sconsigliarono di colpire con una mitragliata e consigliarono un approccio più discreto: un flacone di pillole corrette con il botulino. Fra gli altri piani inizialmente presi in considerazione e poi scartati, vi erano la consegna di una scatola di sigari impregnati di botulino, la contaminazione dell’autorespiratore subacqueo di Castro con bacilli tubercolari e la diffusione di sali di tallio sulle sue scarpe nella speranza che la perdita dei capelli, uno degli effetti collaterali dell’assorbimento di tallio, gli facesse perdere la barba.
Sebbene le molte storie di avvelenamento possano provocare sentimenti di profondo scoraggiamento nei riguardi della razza umana, Paolo Preto, che ha alle spalle otto anni di ricerche sul lato oscuro di Venezia, adotta un approccio pragmatico: "La storia ruota attorno a cattive azioni".
Zyklon B e il Campo della Morte
L’estate del 1941 Himmler mi informò di quanto segue: "il Fuhrer ha ordinato la risoluzione definitiva della questione ebraica. Noi, in quanto SS, dobbiamo eseguire l’ordine. I siti di sterminio presenti a est non possono far fronte alla enorme portata di questa operazione. Pertanto, a questo scopo ho designato Auschwitz." -Comandante Rudolf Hoss, Auschwitz
Il 3 settembre 1941, ad Auschwitz, campo di concentramento polacco, le guardie di sicurezza naziste costrinsero 600 prigionieri di guerra sovietici e 250 malati ricoverati in una stanza chiusa a chiave. Attraverso una presa d’aria vi scaricarono granuli di Zyklon B, una forma cristallizzata di cianuro di idrogeno normalmente utilizzata come insetticida, e rimasero a guardare.
I precedenti sterminii erano stati compiuti da squadre di tiro oppure pompando gas di scarico in furgoni sigillati. Il primo metodo, tuttavia, era troppo lento e creava troppo spettacolo; il secondo non era affidabile e richiedeva attrezzature speciali.
I granuli di Zyklon B si rivelarono efficaci, efficienti e infallibili. Esposti ad aria, si trasformavano in gas che uccideva tutti gli occupanti della stanza nel giro di 20 minuti. Dopo l’esperimento i nazisti costruirono quattro camere a gas permanenti e forni crematori più grandi a Birkenau, un campo secondario di Auschwitz. La chiave per la soluzione finale, il piano di Adolf Hitler di sterminare gli ebrei d’Europa, fu lo Zyklon B.
Stefan Polchlopek, che è cresciuto e vive tuttora a Krynica, Polonia, fu arrestato dalla Gestapo il 28 dicembre 1942. Aveva 26 anni, era neo-laureato in legge e membro attivo della resistenza. Quando fu arrestato, qualcuno lo disse a sua madre, che corse sui binari e riuscì a salutare suo figlio mentre lo portavano via.
Polchlopek fu portato in un punto di raccolta e poi messo su un altro treno per Birkenau. Il convoglio era una soffocante massa compatta di prigionieri. Quando si fermò, ricorda l’uomo, "le porte si aprirono; sentimmo spari ululati di cani, e grida. Delle torce ci accecavano. Ci dissero di scendere, e precipitammo in un inferno indescrivibile."
Nell’estate del 1943, Polchlopek lavorava in un gruppo addetto all’estensione della linea ferroviaria dal deposito esterno al campo fino alle camere a gas. Arrivavano trasporti da tutta Europa a gruppi di due o tre al giorno. Ebrei, zingari, dissidenti politici come Polchlopek, omosessuali - chiunque fosse indesiderato dai nazisti - venivano scaricati dai vagoni ferroviari e portato alle camere a gas oppure spedito ai lavori forzati.
Un giorno, un ufficiale delle SS si avvicinò a Polchlopek e altri tre prigionieri che stavano lavorando alla linea e li trascinò nello spogliatoio, che era la stanza di fronte a quella dove aveva avuto luogo la gassazione. Poi fece loro raccogliere i vestiti e gli oggetti personali di coloro che erano stati uccisi.
"Vidi lo spogliatoio e la camera a gas," racconta Polchlopek, ora ottantanovenne. "Ricordo i bocchetti delle docce. Ricordo i vestiti, le scarpe, gli affetti personali lasciati nelle tasche. Abbiamo dovuto raccogliere i vestiti e caricarli sui camion. Gli affetti personali sarebbero finiti in dei capannoni dove sarebbero stati classificati. La puzza di cadaveri bruciati riempiva l’aria; i camini emanavano fumo nero. Capimmo che dovevamo fuggire, i testimoni venivano uccisi e noi avremmo potuto essere i prossimi." Così fuggirono. Scapparono nelle camerate.
"Tutti sapevano delle camere a gas. Una volta vidi due camion carichi di donne. Sapevano dove stavano andando. Una donna pregava. Una bestemmiava. Tutte gridavano. Le seguivano altri due camion pieni di legna da bruciare. Quelle donne furono uccise con lo Zyklon B. I loro cadaveri nudi furono portati fuori, gettati nei pozzi, e bruciati."
Al culmine delle operazioni, circa 8.000 persone vennero gassate ogni giorno ad Auschwitz Birkenau. Nel novembre del 1944, oltre un milione di uomini, donne e bambini erano morti. "Quelli di noi che sopravvissero a Birkenau si sono assicurati un posto in paradiso," afferma Polchlopek. "Abbiamo già sperimentato l’inferno."
Punture & Frecce
La storia è una lunga corsa agli armamenti - dai bastoni e le pietre alle armi nucleari. Secondo Adrienne Mayor, folklorista classica, il supereroe greco Ercole inventò la prima arma biologica descritta nella letteratura occidentale. Da quel momento ebbe inizio un lungo declino.
Ercole uccise Hydra, un serpente mitico a più teste; poi immerse le sue frecce nel veleno per assicurarsi che fossero letali. La sua eredità perdura nel termine "tossico", dal greco toxicon, che significa "freccia avvelenata".
Nel 199 dC i romani attaccarono Hatra, attuale città irachena. I cittadini si vendicarono lanciando contro i muri dei vasi di terracotta pieni di scorpioni velenosi. Annibale aveva messo a punto una strategia simile, 400 anni prima. I suoi marinai riversarono pentole piene di serpenti velenosi sui ponti della flotta avversaria. Alcuni studiosi ci insegnano che nel periodo neolitico gettare un alveare tappato in una grotta poteva stanarvi un nemico. La storica armeria del terrore annovera altre armi biologiche tra cui le coperte infette di vaiolo che gli inglesi inviarono agli indiani d’America durante le guerre franco-indiane, e ancora: le carcasse di animali gettate nei pozzi dalle forze confederate durante la Guerra Civile Americana, le canne di bambù appuntite e imbrattate di feci dei vietcong.
Fra le armi tossiche contemporanee vi sono le lettere all’antrace, che uccisero cinque persone negli Stati Uniti nel 2001, e il Sarin, che ne uccise 12 quando membri di una setta rilasciarono il gas tossico all’interno della metropolitana di Tokyo nel 1995. Tale triste realtà richiede manovre difensive come l’esercizio tenuto in tempi recenti dalla U. S Capitol Police a Washington, D. C. - una prova generale per un’ipotetica situazione di emergenza in cui fosse stata rilasciata una sostanza velenosa all’interno dell’edificio del Campidoglio statunitense.
Chi la fa l’aspetti. Oltre ai nemici, con le sue frecce avvelenate Ercole uccise vecchi amici e vittime innocenti. Alla fine, la legge delle conseguenze indesiderate valse anche per lui. Ingannato da una delle sue vittime, Ercole commise l’errore fatale di indossare un mantello intriso di veleno di Hydra. A quanto pare, i miti erano specialisti dell’ironia.
Prima di morire, Ercole passò le sue frecce velenose a Filottete, un abile arciere che uccise molti soldati durante la Guerra di Troia. La morte genera morte, ma - almeno questa volta - la ragione ebbe la meglio. Filottete decise infatti di non passare, a sua volta, le sue frecce mortali alla generazione successiva. Fondò un tempio dietro il quale lasciò le sue frecce. In segno di speranza, le dedicò ad Apollo, dio della medicina.
Il sacerdote che imbalsamò se stesso
Vivere secondo i precetti di una religione rigorosa può essere difficile. Morire con i precetti di una religione, invece, è un’altra cosa. All’ombra del monte Yudono, nella prefettura di Yamagata in Giappone, il paesaggio si libera in un ondulato tappeto sempreverde: la terra dei sacerdoti mummificati; quelli che, in un rito di purificazione conosciuto come la "mille giorni di formazione", si sono deliberatamente avvelenati e allo stesso tempo preservati, in conformità con gli insegnamenti di un monaco del IX secolo di nome Kukai e seguace di una setta del buddismo esoterico chiamato Shingon.
" il principio del ’soffro affinché tu possa vivere’", spiega Yugaku Endo, il sommo sacerdote (95° in una gerarchia) del tempio Dainichibo, casa di uno dei 27 sacerdoti mummificati del Giappone.
Come racconta Yugaku Endo, per 76 anni il sacerdote noto come Daijuku Bosatsu Shinnyokai Shonin visse nell’austerità. Non mangiò nulla eccetto bacche, cortecce e noci. Trascorse i giorni e le notti scalando le montagne nelle calde estati e nei gelidi inverni.
Infine sentì che i suoi giorni stavano arrivando alla fine e non mangiò nulla. Si nutriva con l’idea di morire di fame e di sacrificare se stesso. Si fece sempre più magro. Sorseggiò del tè di linfa di urushi, un albero tossico da cui si ricava la lacca. Verso la fine, bevve soltanto acqua termale che, a sua insaputa, conteneva grandi quantità di arsenico.
La linfa di urushi, un purgante, indusse il sacerdote a vomitare e urinare finché il suo corpo non si essiccò. L’arsenico, dalle proprietà conservanti, uccise i batteri che avrebbero causato al suo corpo la decomposizione. Avvizzito, emaciato, comunque il corpo si seccò. Morì nel 1783 all’età di 96 anni. Fu sepolto in un tumulo di terra e pietre. Tre anni dopo, quando fu riesumato, la sua pelle sembrava laccata su di uno scheletro: era diventato un sokushinbutsu - "Buddha istantaneo".
Spesso si muore come si è vissuto. I coraggiosi muoiono coraggiosamente; i Vigliacchi muoiono vilmente.
Nel corso della storia, il veleno è servito a tale scopo. Socrate, condannato a morte da una giuria ateniese nel 399 a. C. con l’accusa di corrompere i giovani della città e interferire con la loro religione, ha accettato la sentenza con grazia, bevve la cicuta, e morì in compagnia dei suoi amici. L’impavida Cleopatra, preferendo la morte piuttosto che essere messa in vetrina come bottino di guerra dal conquistatore romano Ottaviano, si dice abbia optato per il morso fatale di un aspide. Adolf Hitler, di fronte alla sconfitta, ha scelto il cianuro (non prima di averne somministrato una dose al suo alsaziano per testare l’efficacia della tossina).
Oggi Daijuku Bosatsu Shinnyokai Shonin risiede in una teca di vetro nel tempio Dainichibo, avvolto in vesti rosse e oro. Siede in una posa di meditazione - un uomo di fede avvizzito dal tempo, la tradizione della sua religione, e l’ingestione volontaria di veleno nell’intento di servire gli altri attraverso la sofferenza e la cancellazione dell’io.
Nella morsa del ragno...
Chuck Chuck Kristensen ha 70.000 bocche da sfamare e non va a letto prima delle 6 del mattino, così ha il diritto di assopirsi nel bel mezzo di un’intervista. I figli a suo carico sono ragni: 20.000 cuccioli di vedova nera, migliaia di reclusi marroni e di tarantole, e anche qualche specie di scorpione. Le creature costituiscono le partecipazioni della società di Kristensen, SpiderPharm. Ci vogliono 16 ore per mettere in ordine ogni giorno il salotto dei ragni. Non si fa in tempo a finire un pasto che è già ora di preparare il successivo. Il menu H24 comprende quattro formati di mosche e moscerini, vermi di cera, e, per la tarantole, occasionalmente un topo.
Kristensen alleva i ragni per estrarne il veleno e riempirvi fialette. un veleno potente; un morso di vedova nera può causare forti dolori e spasmi muscolari a chi lo riceve. Il veleno, di colore marrone, degrada i tessuti producendo una ferita simile a una cancrena. Il ragno con la ragnatela cosiddetta "a imbuto" secerne un veleno che provoca tremori, aumento della pressione arteriosa e vomito. I veleni di altri ragni bucano la membrana cellulare, portando alla morte cellulare.
Kristensen manda le sue fiale di veleno di ragno agli scienziati di tutto il mondo, perché il veleno semina morte e quindi ha molto da insegnarci anche sulla vita. Roderick MacKinnon, vincitore nel 2003 del Premio Nobel per la Chimica, ha usato il veleno dello scorpione e della tarantola per decifrare la struttura e la funzione dei canali ionici del potassio nelle cellule.
I canali ionici sono condotti simili a cancelli che direzionano la trasmissione degli impulsi elettrici nelle cellule. Poiché la loro apertura e chiusura nella membrana della cellula controlla l’ingresso di potassio, calcio, sodio e ioni cloruro, i canali e i loro recettori agiscono come interruttori che rendono effettivi o meno un pensiero, un battito del cuore, un respiro o un’alzata di sopracciglio.
Le tossine della tarantola sono in grado di stimolare i recettori per tenere aperto un cancello, nell’equivalente neurologico di una sovratensione elettrica, oppure per chiuderlo con forza, nell’equivalente di un black out. Un cancello guasto provoca condizioni che vanno dall’intorpidimento alla paralisi totale da un lato, e dalle contrazioni muscolari fino alle convulsioni dall’altro. Il medesimo malfunzionamento può provocare alta pressione sanguigna, aritmia cardiaca o epilessia.
Il veleno di aracnide provoca risposte fisiologiche talmente forti da rendere un ragno una Svengali virtuale. Ma perché mai il ragno non fa semplicemente fuori la sua preda per gustarsela subito dopo? Nella vita le cose sono sempre complicate, come dice Kristensen. Un cosiddetto ragno del tronco dell’albero può non amare mettere subito KO la sua preda, perché se lo facesse avrebbe un pasto raggrinzito e caduto dall’albero. Invece la paralisi è la sua carta migliore, il suo colpo secco e mirato.
Gli scienziati cercano di far propri i segreti della padronanza chimica del ragno. Kristensen sostiene che "chi ha il controllo dei canali del potassio ha in pugno il mondo intero".
Il primo morso non si scorda mai
Fra i rischi professionali di ogni re, zar, o maharaja, pochi sono così permanentemente invalidanti come un pizzico di arsenico scivolato nella minestra. Per questo i reali hanno da sempre un rimedio: l’assaggiatore.
La famiglia di Mathura Prasad ha ricoperto per tre generazioni il ruolo dell’assaggiatore per conto dei thakur, cioè i signori, di Castle Mandawa, nel deserto del Thar in India. "Il cibo veniva tenuto sotto chiave", ricorda. Prima di entrare in cucina, "il cuoco doveva farsi un bagno e cambiarsi d’abito. Le guardie gli perquisivano tasche e turbante per assicurarsi che non stesse nascondendo nulla, dopodiché poteva entrare. Quando il cibo era pronto, un cane lo assaggiava per primo da ciascun piatto. Dopo di lui lo assaggiavo io, poi le guardie, e finalmente il cibo veniva portato in tavola sotto scorta armata. Quindi, diversi generali di fiducia lo assaggiavano a loro volta. Infine, il signore e il suo ospite si scambiavano porzioni dai rispettivi piatti. Per sicurezza".
Oggi questa non è più prassi al Castello di Mandawa - che è diventato un hotel. Ma di recente, quando il vice presidente dell’India vi ha pranzato, un assaggiatore ha "pregustato" il menù. Per sicurezza...
Mitridate, re del Ponto e nemico di Roma, testò sui prigionieri gli antidoti per il veleno e tirò un sorso di un beverone di 54 ingredienti per proteggersi dall’avvelenamento. L’imperatore romano Nerone comandò agli schiavi di distinguere i funghi commestibili da quelli velenosi. Una guardia armata scortò la cena fino al tavolo alla corte di Luigi XIV, e Colombo nel suo secondo viaggio portò con sé dei cani ai quali faceva assaggiare il cibo per conto del suo equipaggio, che in cambio prometteva buona volontà con i nativi delle nuove culture.
I sovrani medievali testavano le vivande con calici di cristallo e pietre che si dice avessero il potere di individuare il veleno al solo contatto con le sostanze. Tuttavia, il vero metodo di fiducia per garantire la sopravvivenza ultraconviviale era l’impiego di una cavia Saggiaprimatù. Secondo la tradizione, il cibo da testare prima di essere servito al sovrano veniva posto su una credenza. Il termine credenza deriva dal latino credential, che significa "fiducia".
Oggi le opportunità di lavoro per gli assaggiatori sono in diminuzione. In Inghilterra, Buckingham Palace fa sapere che presso i reali non è in uso alcuna procedura formale per la verifica preventiva di prodotti alimentari. "Gli inservienti vengono esaminati scrupolosamente", riferisce un portavoce del palazzo.
L’imperatore giapponese non ha un assaggiatore da anni, ma l’ex presidente George W. Bush per testare i pasti si è avvalso della collaborazione degli addetti alla mensa della Marina. Nelle cucine di stato della Thailandia, gli esseri umani sono tutti uguali. In quel contesto - bellissimo esempio di occupazione basata sulle pari opportunità - le eroiche cavie del gusto che partecipano al tavolo dei commensali, diretto dal ministero della Salute, sono una legione di topi bianchi.