Giulio Ferroni, Corriere della Sera 25/04/2010, 25 aprile 2010
LA CRITICA VIVA SE FA ARRABBIARE CERTI SCRITTORI
Quando ci prova, quelle poche volte che ci prova, la critica viene respinta come incapace di capire e ascoltare, altezzosa e presuntuosa, ancorata a modelli che non renderebbero conto della trionfante vitalità del presente. Si potrebbe pensarlo leggendo l’intervista di Paolo Di Stefano, lunedì sul Corriere, ad Alessandro Baricco, ripresa da Alfonso Berardinelli sull’Avvenire di ieri. La critica letteraria è in crisi, decrepita, in stato preagonico, morta: lo si ripete da anni e in questo c’è una parte di vero, se si pensa che il suo spazio è sempre più ridotto, che dalla grande editoria e dalla stampa periodica è quasi sparita, che quasi sempre resta chiusa in piccoli spazi istituzionali, senza saper toccare i nodi cruciali della cultura contemporanea. Ma forse, proprio perché sembra morta, la critica è più necessaria che mai: e lo dimostrano gli scatti di intolleranza e sufficienza di certi scrittori e di tutti coloro (sempre più numerosi) che misurano i valori letterari sulle classifiche, sulle copie vendute, sul successo mediatico. Certo essa è in condizione minoritaria, non è mai in primo piano (la si ascolta solo se fa un po’ di rumore o prende di petto qualche celebrità indiscussa). Ma può essere tanto più necessaria, quanto più sia in grado di far percepire il carattere evanescente di tante cose oggi sulla scena. Può allora chiedere agli scrittori di dar voce non a ciò che già il pubblico da loro si aspetta, ma a qualcosa di essenziale, al di là del flusso veloce e illusorio della comunicazione. Nell’attuale impero dei modelli televisivi e pubblicitari (che in Italia fagocita ormai ogni forma di rapporto culturale, economico, politico) c’è chi vorrebbe una critica ridotta a rincorrere il «cervello dei ragazzi», a inseguire target predefiniti, a piegarsi agli orizzonti comunicativi vincenti (come fa la politica, che insegue il consenso immediato, si piega a identificarsi con la «pancia della gente», senza più tracciare disegni di ampio respiro e responsabilità). No, non è di questo che ha bisogno la letteratura: non ne hanno bisogno gli scrittori, né le giovani generazioni. Molte delle cose su cui oggi ci si accapiglia, molti dei modelli di vita e di cultura sulla scena, si reggono su un equilibrio effimero e illusorio; molte delle cose che ogni giorno consumiamo sono solo il risultato di una provvisoria configurazione della storia; il mondo che abitiamo (e il nostro stesso Paese) è sospeso a pericoli che in poco tempo rischiano di farlo saltare in aria. Minoritaria quanto si voglia, e forse proprio perché minoritaria, la critica ha senso se cerca una letteratura in rapporto con tutto questo: che sia conoscenza e non mero intrattenimento, che interroghi ciò che è davvero essenziale per il nostro destino, che miri a saldare il nostro passato con un futuro davvero possibile. E che faccia questo scavando nel linguaggio, estraendo dalla lingua il colore vivo del tempo che viviamo e tutto ciò che di esso non è stato ancora riconosciuto. Nel mondo ci sono ancora tanti scrittori che lo fanno: ma non so se siano venuti fuori da scuole di scrittura.
Giulio Ferroni