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 2010  aprile 30 Venerdì calendario

«COME DON CHISCIOTTE» LA MISSIONE DEI CRITICI PER SPIEGARE IL PRESENTE

Periodicamente ci si interroga sulla critica letteraria, la sua utilità, la sua efficacia, la sua stessa esistenza. Uno spunto per tornare a riflettere sul tema è nato con il nuovo libro di Giulio Ferroni Scritture a perdere. La letteratura degli anni zero (Laterza) di cui si è occupato ieri sul «Corriere» Franco Cordelli. «Credo di sapere che il suo paradigma è Adorno-Benjamin, gli stessi autori che più di ogni altro hanno influenzato me e tutta la nostra generazione - scrive Cordelli -. Ma, mi chiedo, che senso ha oggi giudicare, o addirittura leggere, con Adorno in testa e tra le mani?». Che senso ha, si chiede Cordelli, buttarsi a corpo morto nel presente, in un mondo estetico e prima ancora in un mondo della comunicazione che si è trasformato completamente, se poi non si giunge all’ inevitabile conclusione che ogni condanna diventa inutile? Una domanda a cui risponde lo stesso Ferroni: «Innanzitutto è vero che io mi dedico al presente, ma ho anche l’ occhio rivolto al passato, quindi il mio è uno sguardo doppio. L’ analisi di Cordelli è giustissima, condivisibile, ma io risponderei con una parola: resistenza. Nel senso che è chiaro che questa prospettiva oggi rischia di non essere efficace, ma continua a esserci il bisogno di uno sguardo globale. Insomma, la critica letteraria perde, però rimane necessaria. Io vedo il critico come un Don Chisciotte che continua a lottare, anche contro i mulini a vento perché i giochi non sono fatti. Certo il mondo della comunicazione oggi è molto complesso, in America c’ è l’ universo dei cultural studies, ci sono tutte le opportunità aperte dalla Rete. Chi insegna nelle scuole, in Università, queste cose le incontra quotidianamente. una prospettiva frammentata, di cui bisogna tenere conto, ma non si può sottoscrive acriticamente tutto, bisogna suggerire confronti, contesti». Le categorie usate dai critici nati negli anni Quaranta - il paradigma Adorno-Benjamin - non solo non sono sorpassate per un critico come Andrea Cortellessa nato nel 1968, anzi, sostiene, «bisognerebbe ripartire proprio dall’ analisi dell’ industria culturale, adesso che vige l’ egemonia del mercato. Dialettica dell’ illuminismo di Horkheimer e Adorno, pubblicato nel ’ 47, sembra scritto oggi. Certo, quella categoria, come tutte le categorie del pensiero del passato deve essere tradotta nella lingua del nostro tempo. La cultura della critica è una cultura del dialogo, della conversazione, di per se stessa antagonista alla cultura oggi imperante che è quella della comunicazione». I vecchi strumenti per Cortellessa sono ancora validi, magari aggiornati. «Se c’ è una cosa che ci hanno insegnato i situazionisti già negli anni Cinquanta, prima di tutti Guy Debord, è che anziché contrapporsi frontalmente all’ egemonia dell’ avversario si può mimare la sua strumentazione, criticare scendendo sullo stesso terreno. Che è un po’ quello che fa Saviano. In una società culturale in cui lo scrittore diventa un personaggio, colui che appare, Saviano si è posto al di fuori di una dimensione puramente letteraria, ha adottato una specie di guerriglia semiologica per validare qualcosa che si contrappone alla società dello spettacolo usando proprio la fama, la visibilità, la presenza come armi. Una pratica che le arti visive hanno scoperto da un po’ , basta pensare a Cattelan. Certo può essere un gioco pericoloso che presta il fianco ad accuse di cinismo, ma ha un senso». «Ferroni - dice Massimo Onofri - come Alfonso Berardinelli e come Cordelli si porta dietro questa necessità di esercitare la critica come critica della cultura che ingloba la considerazione dei fenomeni letterari come elemento della totalità. L’ orizzonte è, da una parte, la filosofia della totalità dispiegata di Lukács, dall’ altra la totalità frammentata di Adorno e Horkeimer. Una volta usciti da quella prospettiva hegelo-marxista, ciò che rimane importante per valutare è mettere a sistema, in verticale e in orizzontale, quello che si è letto. Insomma, se uno ha letto solo Baricco, magari lo trova stupefacente, all’ interno di un sistema i valori cambiano. chiaro che il rischio di questa prospettiva totale è di perdere le sfumature. Il presente è esploso e come critico sono costretto ad avere la pazienza della finitezza». Chi non ama le categorie, i sistemi di pensiero che stanno, o dovrebbero stare, dietro alla critica letteraria è Ermanno Paccagnini: «La critica è lettura. Si tratta di avere la voglia, la sensibilità di entrare nel testo, di smontarlo e rimontarlo per vedere che cosa va e che cosa no, nell’ assoluta libertà da ogni struttura mentale. Il miglior critico è colui che non si fa schiavo di presupposti teorici o ideologici». Ma non si tratta solo di questo, secondo Paccagnini. C’ è anche un aspetto pratico, di costume, che coinvolge l’ esercizio della critica. «Bisogna misurarsi su un libro, l’ autore interessa solo per questo. Non dovrebbero entrare discorsi come l’ amicizia, il clan, la tribù per cui di quell’ autore si parla sempre bene, di quell’ altro sempre male e se una volta un libro non rientra negli schemi, allora si cerca un certo linguaggio espressivo. Tantomeno dovrebbero entrarci gli editori. Altrimenti rischiamo di trovare chi recensisce libri usciti nella collana che dirige, oppure chi stronca il libro di un editore perché gli ha rifiutato la pubblicazione di un saggio».
Cristina Taglietti