Franco Cordelli, Corriere della Sera 29/04/2010, 29 aprile 2010
LA CRITICA CHE VOLTA LE SPALLE AL FUTURO
Il tema su cui mi accingo a riflettere è quello che nel suo Scritture a perdere Giulio Ferroni chiama «Evaporazione di una cultura critica». A suo modo questo tema lo affronta anche Alessandro Baricco nell’ intervista di Paolo Di Stefano di qualche giorno fa. Esiste ancora una cultura critica? O più modestamente: esiste ancora una critica (letteraria - o d’ ogni altra espressione artistica)? Me lo sono chiesto leggendo le pagine sferzanti che Ferroni dedica agli «scrittori di successo». Il suo libro Ferroni lo comincia - come da qualche tempo gli succede - raccontando di sé: in modo rilassato, dismettendo gli accademici panni. Ci parla di un suo soggiorno al Salone del libro di Torino, dove l’ eccesso è di casa; e d’ una passeggiata nelle vie del centro cittadino fino ad imbattersi in uno show condotto da Maria De Filippi, dove l’ idea stessa della spettacolarità, di fatto dominante, esalta e fissa ciò da cui era poc’ anzi fuggito, il regno dei libri-non più libri. Tutto si tiene, egli dice, e ciò che leggiamo lo riflette, ne è parte integrante. Ma all’ inizio del terzo capitolo del suo libro c’ è un’ espressione che mi colpisce. L’ espressione è: «l’ Arcadia nera del noir», dove - specie di fronte alla pretesa degli autori di noir di «raccontare l’ Italia insistendo su fatti di cronaca estremi» - quella parola inaspettata, Arcadia, rinvia nel suo uso e nella sua dinamica antifrastica, al metodo critico di Ferroni, ovvero alle idee con cui giudica le opere contemporanee. Condivido tutto ciò che dice, giudizio e metodo per pronunciarne uno. Credo di sapere che il suo paradigma è Adorno-Benjamin, gli stessi autori che più di ogni altro hanno influenzato me e tutta la nostra generazione (Ferroni è del 1943, come me e come un altro nostro amico, Alfonso Berardinelli, assai prossimo a questa postura critica). Condivido dunque. Non posso non condividere. Ma, mi chiedo, che senso ha oggi giudicare, o addirittura leggere, con Adorno in testa e tra le mani? In buona sostanza, Berardinelli si è ritirato dall’ agone; o è fermamente intenzionato a restare nel Novecento, poiché crede (così suppongo) che i nodi del XX secolo siano tutt’ altro che sciolti. Ferroni con sempre maggior slancio, come si tocca con mano leggendo l’ evoluzione della sua scrittura critica in scrittura narrativa, si getta a corpo morto nel presente. Anzi, pensa che uscire dall’ orizzonte dell’ attualità sia difficile, o impossibile. A che risultati conducono queste scelte? Oso dire a nessuno. Non, beninteso, per colpa loro, degli adorniani. Ma, appunto, per la radicale trasformazione del mondo estetico e, prima d’ esso, di quello della comunicazione - come lo stesso Ferroni ben vede e descrive. Non giunge però all’ inevitabile conclusione della sua analisi: l’ inutilità della condanna, specie se pronunciata con vecchie leggi, con leggi in cui nessun altro si riconosce. No, non è più come prima. Prima, se si diceva: Bassani è come Liala, tutti capivano l’ enormità del paragone. Non pensavano tutti che Bassani e Liala appartenevano a ordini diversi? E perciò come non stupirsi d’ un simile accostamento, ovvero d’ un simile giudizio su Bassani? Ma oggi chi potrebbe dire una frase del genere? Chi si potrebbe accostare a chi per eventualmente svalutarlo o per istituire (mantenere attivi) ordini che non ci sono più? Personalmente, non solo non credo - come ho a lungo creduto, offuscato dal mio stesso essere contemporaneo al loro mondo, che Pasolini e Calvino, su cui tuttora si discute per stabilire i buoni e i cattivi, o Sciascia e chi volete voi della generazione dei nati negli anni Venti, la generazione che (io stesso l’ ho scritto) costituisce la spina dorsale della letteratura del secondo Novecento - non solo, dicevo, non credo che questi scrittori siano i veri scrittori canonici del XX secolo. Ma credo che il continuo riferirsi ad essi, il piangerne l’ assenza tra chi oggi scrive, sia una futile prova di forza, o una pura e semplice nostalgia. Che importano i canoni e, alla fine, perché insistere così a lungo su un passato prossimo che in realtà è remoto? La vera questione è non a caso la critica. Anch’ essa viene rimpianta. Tutti insieme sono spariti Raboni e Giuliani, Garboli e Baldacci. Non pensavano allo stesso modo, ma un loro giudizio era, anche dall’ avversario, ritenuto influente. Dunque lo si combatteva. Un loro giudizio collocava un’ opera nel rango che ad essa competeva e in cui, più o meno, è rimasta. Oggi questo non accade e non accade perché, come dice Ferroni, viviamo nell’ eccesso. Tutti pronunciano giudizi ma nessun giudizio di nessuno è influente al punto di sfoltire l’ eccesso, ad esso conferire una forma, insomma istituire il valore, qualcosa che tenda a un riconoscimento virtualmente universale. Accade piuttosto un’ altra cosa. Vi sono, sì, giudizi che hanno incidenza, ma sono quelli della tribù. Raramente dei singoli, quasi sempre di una comunità, piccola o meno piccola. Ogni scrittore appartiene a una tribù, che è quella pronta a riconoscerne la qualità, a proclamarne la dimensione, l’ altezza, l’ occupazione di spazio. In Italia, tutto ciò rispecchia in modo straordinario l’ evoluzione politico-sociale del Paese. Non sono in grado di neppure immaginare se sia così in tutto il mondo, un mondo che tutto sommato ci somiglia ma che è troppo grande per pronunciare un altro giudizio. Si può però fin d’ ora sapere che davvero il nuovo secolo non è simile ai due precedenti e che vivere in esso come se non vi fosse stata soluzione di continuità è un’ illusione. A dimorare in un’ illusione non c’ è niente di male. Ma, giunta l’ ora, supporre d’ uscirne come l’ Angelus Novus di Benjamin, con lo sguardo rivolto all’ indietro, è proprio una speranza del passato, non già del futuro.
Franco Cordelli