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 2008  settembre 25 Giovedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 10 MAGGIO 2010

«Il break-up, ovvero l’implosione dell’euro, non può essere esclusa a questo punto»: [1] è la sentenza emessa la settimana scorsa da Nouriel Roubini, professore di economia alla New York University altrimenti noto come la ”Cassandra” degli economisti [2] o anche ”Dottor Recessione”, soprannome conquistato prevedendo con largo anticipo lo scoppio della bolla immobiliare, il crollo della fiducia dei consumatori e dei mercati finanziari e la profonda recessione di questi anni. [3]

La settimana scorsa il crollo dell’euro ha gettato nel panico i mercati finanziari. Sfondata lunedì quota 1,32, [4] venerdì in poche ore è sceso da 1,28 dollari a un minimo di 1,2610 per poi risalire sopra 1,27. [5] Mentre i pessimisti alla Roubini prevedevano una discesa fino «almeno a 1,10» [1], Jean-Claude Trichet, presidente della Bce, ha parlato di «crisi sistemica». Andrea Bonanni: «Un modo garbato per far capire che, in assenza di misure convincenti, l’euro potrebbe sciogliersi come neve al sole». [6]

Per evitare che dall’apertura dei mercati asiatici di stamattina la speculazione trascinasse l’euro sempre più in basso, venerdì, per la seconda volta nella storia della moneta unica, i 16 capi di Stato e di governo dell’Eurogruppo si sono riuniti straordinanariamente per discutere nuove regole in grado di evitare che il rischio di insolvenza della Grecia possa ripetersi con altri Paesi in difficoltà (Portogallo, Spagna, Irlanda). [7]

«Dobbiamo accelerare la regolamentazione dei mercati finanziari. Il tempo stringe, dobbiamo fare presto» aveva dichiarato venerdì la cancelliera tedesca Angela Merkel arrivando a Bruxelles. Adriana Cerretelli: «Poco prima aveva raccolto l’appoggio incondizionato del presidente americano all’operazione di salvataggio: non della Grecia ma ormai della moneta unica». Nel fine settimana si è lavorato al piano che oggi i mercati valutari di tutto il mondo sottoporranno al primo test. [8]

Nessuno si illude di poter improvvisare in quattro e quattr’otto la regolamentazione dei mercati finanziari né la modifica del patto di stabilità. Cerretelli: «Quello che però viene ritenuto decisivo nell’immediato è l’istituzione del Fondo europeo di risoluzione delle crisi, cioè del meccanismo che dovrà scattare se un altro paese dopo la Grecia si ritrovasse alle corde. Trichet ha parlato di crisi sistemica. Ammissione da brivido. Che evoca lo spettro di Lehman Brothers, solo che ora in gioco è l’euro». [8]

Cosa fino a poco tempo fa impensabile, la crisi finanziaria greca ha messo a repentaglio la sopravvivenza dell’euro. Joseph E. Stglitz, economista della Columbia University premiato nel 2001 col Nobel: «Potrebbe essere utile gettare uno sguardo ai problemi dell’euro da una prospettiva globale. Gli Stati Uniti hanno deplorato il surplus della bilancia delle partite correnti cinese (di quella commerciale), eppure, in termini di percentuale del Pil, quello tedesco è ancora più consistente. Se si assume che per l’eurozona nel suo insieme sia stato previsto un equilibrio, il surplus della Germania implica che il resto dell’Europa deve mantenere un disavanzo. Il fatto che questi paesi importino più di quanto non esportino indebolisce ulteriormente le loro già deboli economie». [9]

Se il tasso di cambio tedesco potesse apprezzarsi, la Germania incontrerebbe più difficoltà a esportare e per il suo modello economico, basato su un export consistente, la strada non sarebbe così liscia. Stiglitz: «Al tempo stesso, il resto dell’Europa esporterebbe di più e registrerebbe quindi una crescita del Pil e un abbassamento della disoccupazione. La Germania - come la Cina - considera il proprio ingente risparmio e la propria abilità a esportare delle virtù e non dei vizi, mentre John Maynard Keynes ha spiegato che i surplus portano a una domanda aggregata globale debole». [9]

Una delle soluzioni proposte consiste nell’elaborare all’interno dell’eurozona un meccanismo equivalente a una svalutazione, ovvero una riduzione dei salari. Stiglitz: «Ciò, a mio avviso, non è realistico. Le conseguenze a livello distributivo sarebbero inaccettabili, le tensioni sociali che ne deriverebbero sarebbero enormi e quindi la considero una fantasia». [9] Giacomo Vaciago, economista della Cattolica: «E i Paesi dell’euro si trovano nella condizione di non poter nemmeno fallire. Sono come un’azienda nella quale un socio impedisce all’altro di accedere a un concordato preventivo per ristrutturare i debiti. Il nodo è che strumenti facili non ce ne sono più, restano solo quelli dolorosi». [10]

Alla prima seria crisi, il difetto genetico della ”moneta unica” è venuto a galla: senza un vero Stato alle spalle non esiste vera moneta. Lucio Caracciolo: «Il bluff può funzionare nelle giornate di sole, ma quando si scatena la tempesta non sappiamo più come proteggerci. La lezione di Atene, per chi vuole intenderla, è netta: o adeguiamo l’Europa all’euro, o rinunciamo all’euro. Storia e cronaca dell’Unione europea lasciano intuire che sceglieremo una terza via. Rinviare, rinviare, rinviare. Fra un tampone finanziario e l’altro. Fino a che il morbo non si sarà talmente diffuso e radicato in tutti i paesi dell’Eurozona e probabilmente oltre, da renderlo incurabile. A quel punto la politica non potrà nulla, salvo preoccuparsi dell’ordine pubblico». [11]

Anche se il dollaro guadagna terreno nei confronti dell’euro, gli Usa finanziariamente sono messi peggio dell’Unione europea. Quest’anno il rapporto deficit/pil dovrebbe toccare il 12%, come quello greco. Il debito pubblico dovrebbe salire oltre l’80% del pil per raggiungere nel 2012 il 100%. Marcello Foa: «Numeri da brivido, con un problema. Anzi, due. Gli americani non risparmiano abbastanza, dunque, contrariamente a noi italiani, non sono in grado di finanziare da soli gli acquisti di Buoni del Tesoro: pertanto, oltre la metà del debito pubblico è finanziato da stranieri. Il secondo problema è che l’America è gravata anche da un enorme debito privato, che, sommato a quello pubblico, raggiunge il 300% del Pil. Un abisso». [12]

Conscia di questi numeri, la Cina, il maggiore acquirente di Buoni del Tesoro Usa, ha deciso di ridurre gradualmente la propria esposizione comprando meno titoli di stato americani. Fino a qualche mese fa, con l’euro pronosticato da alcune banche sopra quota 1,50 se non 1,60, Washington avrebbe avuto difficoltà a trovare clienti con cui rimpiazzare i cinesi. Adesso che le agenzie di rating (Moody’s, Standard & Poor’s, Fitch) hanno spinto l’attenzione verso i problemi europei, la situazione americana appare meno grave. Foa: «Di fronte a un’Europa che potrebbe esplodere, molti investitori sono indotti a pensare che tutto sommato siano meglio i Treasury bonds Usa. Un’operazione raffinata che sfrutta la forza dirompente della speculazione e la psicologia dei mercati. Con un obiettivo: sfiancare l’euro per salvare il dollaro». [12]

 dall’inizio dell’anno che l’euro perde terreno nei confronti del dollaro, il cui apprezzamento mette a rischio la ripresa manifatturiera statunitense rendendo meno competitivi parecchi prodotti industriali e tecnologici. [13] Scriveva a febbraio Giuseppe Turani: « la politica che sta tirando il dollaro verso l’alto. Sono cioè gli stessi americani. Prima lo hanno mandato giù e adesso lo mandano su. E lo fanno non perché la cosa gli piaccia, ma perché glielo hanno chiesto i cinesi, grandi finanziatori dell’impero americano. Con il dollaro in continua caduta, i cinesi stavano perdendo un sacco di soldi e così hanno chiesto a Washington di cambiare direzione. E gli americani hanno dovuto convenire che i cinesi avevano ragione». [14]

Dalla data della sua introduzione come moneta di riferimento (1944), il dollaro è stato usato da moltissimi paesi come valuta per le riserve. Scriveva Marco Sodano ad ottobre, quando si parlava di una fuga mondiale dal ”mini dollaro” verso il ”super euro”: «Si calcola che a oggi il 60% delle riserve in valuta di tutto il mondo sia in dollari: risparmi che perdono valore di pari passo con il biglietto verde. Così la Cina, che possiede grandi quantità di titoli del Tesoro americano (ovvero di quote del debito degli Stati Uniti) negoziate quando il dollaro era su quotazioni molto più alte, vede diminuire il valore del suo investimento. Per questa stessa ragione chi ha molto denaro investito nel debito americano, se decide di cambiare politica, deve farlo con molta prudenza. Se Pechino annunciasse che non comprerà più dollari, il dollaro sprofonderebbe tirandosi dietro i risparmi dei cinesi». [15]

La crisi dell’euro è una bella notizia per chi temeva che il calo del dollaro avrebbe finito col fargli perdere il ruolo di moneta di riferimento. Sodano (a ottobre): «Gli Stati Uniti emettono titoli per finanziarsi, gli altri paesi li comprano. Negli anni scorsi, tra l’altro, gli Stati Uniti hanno stampato moneta senza patire gli effetti inflazionistici di questo tipo di manovra proprio perché la loro moneta era comperata da altri paesi per farne riserva. Nell’immediato - paradossalmente - la svalutazione sembrerebbe favorevole a Washington, che vede scendere il valore del suo debito. In realtà non è così, perché di pari passo scende la fiducia nel biglietto verde. Gli altri paesi stanno cominciando a pensare che investendo le loro riserve altrimenti otterranno rendimenti migliori nel tempo». [15]

La crisi dell’euro non mette il dollaro completamente al riparo. All’ultimo summit delle quattro potenze economiche emergenti riunite nel Bric (Brasile-Russia-India-Cina, il 40% della popolazione mondiale e il 16% del Pil) si è parlato di «nuova governance della finanza mondiale», con un progressivo «superamento del dollaro come divisa di riferimento degli affari globali» attraverso l’istituzione di una nuova moneta, o con l’adozione dello yuan cinese nelle vesti di ”euro” dell’Asia. Giampaolo Visetti: «La Cina, per la prima volta attraverso il suo presidente Hu Jintao, ha annunciato che ”passerà gradualmente ad un sistema di cambi flessibili, pur sotto la gestione del governo”. Il brasiliano Lula si è spinto a rivelare che i capi del Bric hanno già ”dato istruzione di studiare meccanismi per usare le valute nazionali negli interscambi”. Non è un addio al dollaro, ma la Casa Bianca ha preso atto di un sostanziale ridimensionamento». [16]