Roberto Gervaso, Il Messaggero 5/4/2010, 5 aprile 2010
WILMA MONTESI
Caro Gervaso, sono molto più giovane di lei e, soprattutto, non sono uno storico, ma la storia d’Italia, specialmente quella del XX secolo, m’interessa molto. Alcuni personaggi, in particolare, e alcune vicende di quel periodo, mi hanno sempre intrigato, come quella di Wilma Montesi, che mi farebbe piacere che lei rievocasse in questa rubrica.
Anselmo Arditi - Prato
La mattina di sabato 11 aprile 1953, intorno alle 7:30, Fortunato Bettini, manovale, che in quel periodo restaurava un villino in località Zingarini, a Torvajanica, ”scorse sulla spiaggia, all’altezza della battigia, un corpo umano inerte”, quello di una certa Wilma Montesi, una giovane procace, mezza nuda, figlia di un falegname. Le indagini furono affidate al questore di Roma, Saverio Polito, alto funzionario di stato ai tempi del fascismo. Il quale, scrive Mario Tedeschi nel suo ”Dizionario del malcostume”, ”aveva appena ottenuto dalla Commissione dei medici militari dell’Ospedale al Celio l’aumento della pensione di guerra, concessagli per una sindrome nervosa posto-commotiva che gli aveva reso inefficienti gli organi della masticazione, e lasciato claudicante, essendosi accorciata di tre centimetri la gamba destra”. Forse, questi malanni influirono sulla condotta dell’alto poliziotto che ”trovò normalissimo” trasmettere alla magistratura il rapporto della squadra mobile in cui si attribuiva il decesso della giovane donna a un ”pediluvio”. Cominciarono a diffondersi voci strane e pruriginose: la signora Montesi aveva partecipato a un’orgia nella tenuta del sedicente marchese Ugo Montagna, assieme a Piero Piccioni, figlio del ministro degli Esteri democristiano Attilio, e ad altri vip, che consumavano spensieratamente cocaina, droga allora d’élite.
C’erano tutti gli ingredienti di un affaire clamoroso, dagli sviluppi imprevedibili, o prevedibilissimi, che avrebbe messo a rumore il ”Palazzo” e deliziato gli italiani.
La partita di piacere si era svolta a Torvajanica, nella tenuta del ”marchese”. I dettagli nel numero di ottobre dello stesso 1953 della rivista ”Attualità” diretta da un certo Silvano Muto, debole di vista e sempre con gli occhiali scuri, cui diede man forte la signorina Maria Moneta Caglio, per gli intimi Marianna, per gli estimatori più raffinati ”cigno nero”. La Montesi, dopo aver partecipato a un’orgia, o durante la medesima, si sarebbe sentita male, suscitando il panico fra i presenti che, per evitare scandali, provocheranno un terremoto.
Marianna era stata l’amante del Montagna, che l’aveva piantata. Qualcuno pensò a una ritorsione femminile. Qualche altro inzuppò il pane, adiuvantibus l’allora colonnello dei Carabinieri Umberto Pompei e il giudice Raffaele Sepe, che presero per oro colato le rivelazioni del ”cigno nero”. Le quali porteranno alle dimissioni non solo il questore Polito, non solo il capo della Polizia Pavone, ma anche il ministro degli Esteri, reo di essere il padre di Piero.
Nella Dc, fermento e sgomento. Scrive in un ghiotto volume, dovizioso di dettagli, pruriginosi e pieni di humour, ”Il letto e il potere”, Filippo Ceccarelli: nel partito di maggioranza relativa ”non ci sono dubbi che sia Fanfani, ministro dell’Interno nel governo Pella, a saper per primo, tramite un suo network di preti, che la Caglio sta dicendo cose turche su Capocotta, Montagna e il figlio di Piccioni”. Al ”rieccolo” non sembra vero. Affida al Pompei le indagini dalla quali risulta che ”Montagna pregiudicato e spia dell’Ovra durante il fascismo, potenziale trafficante di droga, affarista senza scrupoli”, procacciatore di donne per i potenti, è anche Cavaliere del Santo Sepolcro, e questo gli conferisce un’aurea di blasone blasfemo. Il consigliere d’appello Sepe prende in mano la situazione e fioccano gli arresti. Finiscono in galera, e ci stanno quasi un mese, dal 21 settembre al 15 ottobre 1954, Piero Piccioni, Polito, Montagna.
La tesi del pediluvio non convince nessuno, anche perché banale. Qualcuno insinua che simili abluzioni la Montesi poteva farle comodamente a casa nella vasca da bagno o nel bidet. Ma l’opinione pubblica ama il torbido, la storia a tinte gialle: l’idea del festino piace e intriga.
L’Italia si divide in due, come per Coppi e Bartali: gli innocentisti e i colpevolisti. Entrambi vogliono sapere, conoscere la verità, a patto che questa non sia troppo semplice, come infatti non è. Si mettono sotto processo i democristiani, baciapile nella vita pubblica, sporcaccioni in quella privata (come, del resto, negli altri partiti).
Si va al processo, anzi, ai processi. Nel primo, alla sbarra, Silvano Muto e Marianna. Nel secondo, celebrato tre anni dopo, nel 1957, gli imputati sono Piccioni, Montagna e Polito, che vengono assolti. I testimoni non si contano. Fra i tanti, centinaia, viene chiamato un certo Ceppi, originario di Torino: ”Quando salì sul banco nessuno sapeva più perché era stato convocato, anzi, che cosa potesse avere in comune con la vicenda. Gli domandarono se sapesse perché fosse lì. Rispose di no”. Ci si rivolge anche ai maghi Orion e Genius, ”dotato di pendolino”. Tutto, insomma, fa brodo e feccia. I giornali vanno a nozze, e quando si celebrano i processi, la folla davanti ai palazzi di giustizia è enorme. L’Italia mostrò allora il suo vero volto.