Mario Ajello, Il Messaggero 5/4/2010, 5 aprile 2010
GLI AFFARI DEL CIARRA, TRA ”BUFFI” E SOTTOGOVERNO
Un ruspante acrobata degli affari. Un mediatore e un faccendiere. Col pallino - non molto ricambiato - per l’editoria. Il Ciarra è un personaggio assai pittoresco, fascista, andreottiano, amico di tutti (tentò di assegnare un Premio Fiuggi pure a Pietro Ingrao) ma non dell’ossequio ai conti aziendali, sodale dell’editore Carlo Caracciolo che era un raffinatissimo principe intellettuale ma si divertiva a fare baldoria con uno così: «Insieme, mangiamo la pajata».
Di punto in bianco, sul finire degli anni Ottanta, in allegra e baldanzosa commistione, Ciarrapico cominciò a fondare o a comprarsi giornali, cliniche (Villa Stuart, la Quisisana), premi letterari, ditte di catering, bibite, società finanziarie, caffè storici (Rosati, a Piazza del Popolo), aerotaxi, stazioni termali, acque minerali (prima la Fiuggi e poi un’altra ventina), squadre di calcio. Come presidente della Roma, dal ”91 al ”93, vendette Voeller, acquistò Caniggia. E poi consegnò a Franco Sensi una società sull’orlo del fallimento.
Un vulcano d’idee, un proverbiale deficit di capacità gestionale e un continuo prendersi a braccetto con la politica. Ecco il Ciarra. Nell’ordinanza giudiziaria che ora lo riguarda viene citato, per esempio, anche Giulio Caradonna, ex deputato del Msi, scomparso nel dicembre del 2009 e per molti anni al fianco dell’editore di «Ciociaria Oggi». Entrambi fascistissimi. «Ma di quelli de ”na vorta!», come il Ciarra ripete di continuo. Aggiungendo ogni tipo d’improperio per il «traditore Fini». «’Sta destra smacchiata.... Ma chi la vole... E’ ”na monnezza!», così sentenziò a proposito di Alleanza Nazionale. Ora sta nel Pdl il Ciarra, con Berlusconi ha un buon rapporto, con il co-fondatore invece lo ha pessimo.
Quando ha fatto da mediatore, per conto del Divo Giulio che lui chiama «Il Principale» e in piena epoca del Caf (Craxi-Forlani-Andreotti), nella vicenda della spartizione della Mondadori, si portò un taccuino e lo divise in due: «Qui ce scrivo quello che vole Berlusconi, qui ce scrivo quello che vole De Benedetti. Come si fa quando se segnano li punti a scopone». Ma l’aspetto folk è soltanto un aspetto. Mentre il sottobosco, il sottogoverno e l’intreccio casereccio fra politica e affari sono l’habitat naturale del Ciarra.
Adesso, a settantasei anni, è di nuovo nell’occhio del ciclone, ma ha avuto una caduta istantanea e rovinosa già al tempo di Tangentopoli. Finì in carcere e si trovò sommerso dai debiti, specie con le banche. Ma fra pendenze giudiziarie e crisi aziendali, in qualche modo s’è arrangiato il Ciarra: in quanto tipico campione di quell’affarismo del «se po’ fa», del «famo a fidasse» e, appunto, del «m’arrangio». Che, notoriamente, sono ingredienti non proprio da etica del capitalismo di tipo calvinista (quello di cui parlava Max Weber. Max-ddechè?, direbbe il nostro). Fra le leggende che lo riguardano, ma appunto è solo una leggenda, c’è quella che in passato ricevesse i suoi ospiti con una pistola bene in vista sul tavolo.
E comunque. Il suo bel tesoretto se l’è tenuto il Ciarra, visto che la Guardia di Finanza, fra Roma, Milano e altre città, gli sta sequestrando il sequestrabile. Magari si rialzerà un’altra volta nonostante i colpi piovutigli addosso con questa ennesima sventura giudiziaria, magari invece questa botta lo atterra una volta per tutte. Ma il personaggio resta quello che è: un anti-modello.