GLAUCO MAGGI, La Stampa 3/5/2010, pagina 17, 3 maggio 2010
FALLISCE LA STILISTA DI MICHELLE OBAMA
Obama avrebbe tradito la moglie Michelle con Vera Baker, avvenente funzionaria del partito democratico durante la campagna elettorale del 2004: lei era il direttore finanziario e raccoglieva fondi, Barack era in corsa per quel posto al Senato al Congresso di Washington da cui avrebbe spiccato il volo alla Casa Bianca.
Ma non è questa la notizia che, come «gossip» di Palazzo soprattutto nei corridoi repubblicani pare girasse da tempo e non è (ancora) dimostrata. La notizia è che pubblica l’indiscrezione il «National Enquirer». Quindi la questione si fa seria. I due, oltre a frequentarsi per lavoro, pare si siano visti in albergo, fuori orario. Vera, 36 anni, viaggiava con il candidato che, allora, ne aveva 41. L’autista che li scarrozzava dai comizi ai meeting a porte chiuse per raccogliere fondi ha detto al giornale di ricordare più di un rendez-vous della coppia in vari alberghi. «Immagini del video di sorveglianza dell’hotel potrebbero fornire la prova irrefutabile - scrive l’Enquirer - gli investigatori lavorano per ottenere le videocassette. Se qualcuna diventasse pubblica, lo scandalo esploderà». Per investigatori non si intende ovviamente l’FBI, ma i reporter. L’«Enquirer» non ha insomma in mano la «pistola fumante», ma per i casi passati la tattica è stata quella di centellinare le indiscrezioni per motivi di cassetta. E intanto rivela che «emissari anti-Obama» starebbero offrendo più di un milione di dollari a testimoni in grado di confermare la scappatella.
Dopo decenni di presenza nello scaffale della stampa-spazzatura, il periodico specializzato in scandali si è fatto una reputazione di «castigafedifraghi». Se pochi ricordano che l’affaire Bill Clinton-Monica Levinsky fu un suo «scoop», tutti sanno oggi che il giornale ha sepolto nel 2008 la carriera del candidato presidenziale democratico John Edwards: l’«Enquirer» rivelò la tresca con Rielle Hunter, una del suo staff mentre la moglie lottava contro il cancro; poi lo costrinse ad ammettere di essere il padre della bambina nata dalla relazione. Più di recente, la rivista ha anticipato tutti sul motivo della notte folle di Tiger Woods: era un professionista dei tradimenti e la consorte l’aveva scoperto. Edwards, lasciato dalla moglie, fa il volontario ad Haiti; Woods è andato nella clinica per malati di sesso e ha il matrimonio appeso a un filo.
Chi, oggi, prenderebbe sottogamba il terribile magazine che ha ottenuto, mesi fa, un paio di nomination al Pulitzer per giornalismo investigativo? Per ora non ha vinto nulla, ma se la «storia esclusiva» pubblicata sul personaggio più in vista dell’universo sarà corroborata da pezze d’appoggio – foto, filmati, fatture – il riconoscimento è solo rimandato. E Obama avrebbe un calvario davanti.
La Baker, nera come lui, è nata a San Francisco e si è laureata al Mills College, in analisi economica e in studi afro-americani. Lasciata la politica attiva, ha lavorato per una società di broker in bond municipali, Alta Capital Group, e poi ha fondato una sua compagnia, Cape Caribbean. Ai tempi della frequentazione con Barack, sposato dal 1992 con Michelle e padre di due bambine, non era un personaggio di secondo piano: oltre a lavorare per il futuro senatore aveva la carica di vice direttore politico del Comitato per la Campagna Senatoriale del partito Democratico.
Il sogno americano di Maria Pinto, nome italianissimo di un’americanissima stilista di Chicago si chiude con la saracinesca della sua prima e ultima boutique aperta neanche due anni fa. Probabilmente la signora ha fatto solo - come si dice in questi casi - «il passo più lungo della gamba» in un momento in cui la recessione non perdona, ma forse metteranno anche questo fallimento nel conto degli Obama, in questo caso di Michelle, rea di non indossare più i suoi bei vestiti.
A farla sembrare particolarmente ingrata dev’essere il fatto che quelli firmati «Pinto», griffe piuttosto sconosciuta al di fuori di Chicago, sono proprio gli abiti che a Michelle hanno «portato bene», quelli degli inizi epici, della trionfante campagna elettorale e della convention che ha fatto intravedere nell’avvocatessa afroamericana una futura first lady tutta diversa dalle altre. Certo, va detto, anche per quegli abiti e quelle scelte di forma e di colore in cui forse Maria Pinto ha avuto i suoi bei meriti.
La stilista di origine italiana ha infatti la sua cifra nelle silhouette sciancrate e iperfemminili, nei colori accesi, nei lucidi tessuti. E in effetti, a fare un rapido screening dei look fondamentali di Michelle, la frequenza delle mise firmate «Pinto» si concentra nelle prime uscite da first lady, poi se ne perdono le tracce.
Restano memorabili gli abiti della campagna elettorale: quello turchese con manica lunga e mega spilla alla convention di Denver; quello viola smanicato con megaperle (false) della maratona finale. L’ultimo avvistamento in Pinto sembra l’abito rosso messo per salutare i Bush che lasciavano la Casa Bianca.
Il primo «tradimento» eclatante è l’abito dell’election night rosso e nero, indimenticabile, criticatissimo ma firmatissimo: Narciso Rodriguez. Poi vengono i viaggi ufficiali. Per la prima uscita in terra inglese Michelle sceglie un bianco-nero della cubana Isabel Toledo, per il primo incontro con la Regina una creazione del taiwanese Jason Wu; per il giorno, sdrammatizza con pezzi di J-Crew, catena di grandi magazzini a prezzi abbordabili.
Si possono chiamare «tradimenti»? L’abito non fa il monaco ma la first lady sì, e poi Michelle Obama è figura troppo moderna per restare fedele a uno stilista o persino a una nazionalità. Non lo è nessuna donna normale, perché dovrebbe esserlo proprio lei che si è sempre proposta come «prima inter pares»?
Certo dispiace per la Pinto che nel 2008 aveva aperto il suo bel negozio nel West Loop a Chicago, dichiarava che ne avrebbe aperti altri e oggi al «New York Times» dice: «La collezione è piaciuta, ma dove sono gli ordini?». Dispiace, ma Michelle ora è un’altra cosa. Il «Washington Post» ha scritto di lei che ha «il guardaroba più internazionale che si è visto a Washington, una sorta di ”Onu della moda” nell’armadio».
Niente a che vedere col look casalingo delle Nancy e Barbara, niente nemmeno con quello standard-professional di Hillary. Per trovare qualcosa di simile a lei tutti vanno a Jackie Kennedy, che flirtava spesso coi francesi.
Michelle invece è «global», ma fra gli europei preferisce gli italiani e fra questi quello più scanzonato: Moschino. In Moschino nero con velo in tulle è andata da Papa Benedetto lo scorso luglio; ed era Moschino anche la camicia bianca con gigantesco fiocco sfoggiata a Praga in visita di Stato.
Ma il cosmopolitismo modaiolo, si sa, non gode di buona stampa in patria, specie in tempi di grande recessione. Così, anche nella scelta di Moschino va trovata la motivazione patriottica: fra i designer della griffe italica, infatti, c’è un certo Bill Shapiro, che per fortuna è di Chicago.