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 2010  maggio 01 Sabato calendario

TEATRO (4 ARTICOLI)

Il libretto è già stato letto, il melodramma intitolato «decreto-legge per il riordino delle fondazioni lirico-sinfoniche» già visto e rivisto. Il rozzo ministro berlusconiano, il bieco baritono Bondi, che infierisce contro la Cultura. I sindacati che sparano acuti e scioperi nella difesa della Cultura oltraggiata e, già che ci siamo, di indifendibili privilegi castali e corporativi.
Intorno, il coro stonato delle opposte tifoserie politiche che più strepitano quanto meno conoscono la materia: anche perché non è che, a parte le prime con i fotografi, di politici all’opera ne vediamo spesso.
E non mancano le comparse: chi i teatri li dovrebbe gestire, sovrintendenti e direttori artistici che, con le dovute eccezioni (il migliore, non a caso, abbiamo dovuto importarlo dalla Francia) sono dei politicantucoli finiti in teatro perché troppo scarsi o troppo poco scaltri per assicurarsi una Asl.
Il nostro è davvero uno strano Paese. Che le «fondazioni lirico-sinfoniche» (un regalo della riforma fatta da Veltroni nel ”96 e ovviamente fallita) non possano andare avanti così è del tutto evidente. Il problema è semplicissimo: se la maggior parte delle risorse (da un minimo del 56% a un massimo dell’80) di ogni fondazione serve solo a pagare gli stipendi di chi, più o meno (più meno che più, dice il governo) ci lavora, non resta nulla per l’attività, insomma per produrre spettacoli. Come se un ospedale spendesse tutto per pagare lo stipendio a un chirurgo ma il chirurgo non potesse operare perché non ci sono i soldi per comprare i ferri e le bende. Da qui stagioni che, sempre beninteso con le ridovute eccezioni, non sono solo modeste per qualità (perché non è che questi chirurghi siano tutti dei virtuosi del bisturi) ma soprattutto disperanti per quantità. Pochi spettacoli, pochissime recite e molti dipendenti pagati per non lavorare. Poi si blatera di eccellenze italiane, quando basta comprare un biglietto low cost o anche solo qualche dvd per rendersi conto che qui di eccellente c’è solo l’ignoranza. Tanto più in questi anni dove, alla faccia della crisi che pure colpisce duro, nel mondo civilizzato le platee sono piene, anche di giovani, e sulle scene soffia impetuoso il vento della fantasia, della novità, della spregiudicatezza, del coraggio (da noi, si sa, prendono ancora sul serio Zeffirelli).
Per l’opera, globalmente, questo è un buon momento. In Italia, invece, il governo non trova di meglio che tagliare gli stipendi per decreto, mentre i sindacati scioperano per difendere il diritto dei professori d’orchestra, ovviamente culturale, a ricevere un’indennità se indossano il frac. Ma non si potrebbe, per una volta, far finta di essere seri? Mettersi intorno a un tavolo, esaminare le cifre, studiare le alternative e far funzionare i teatri come un normale servizio pubblico, come succede a Londra o a Zurigo o a Berlino, dove l’opera la si fa molto di più e molto meglio che in Italia e senza decretare o scioperare d’urgenza? Magari ricordandosi di tre dati di fatto. Primo: o l’opera è sovvenzionata o l’opera non si fa, quindi la politica decida una volta per tutte se vuole investirci dei soldi. Secondo: l’opera è il principale contributo della civiltà italiana a quella mondiale degli ultimi quattro secoli e la nostra lingua e la nostra cultura soprattutto per l’opera continuano a essere conosciute e amate. Ieri sera, 30 aprile, si sono date in tutto il mondo 93 rappresentazioni: bene, 38, poco meno della metà, in 15 Paesi di tre continenti, erano d’opera italiana. Terzo: l’opera non solo ci rappresenta all’estero, ma in patria: se un’identità nazionale c’è, l’hanno fatta anche e forse soprattutto Rossini e Verdi e Puccini e tutti gli altri. Quindi prima di chiudere i teatri e buttare via la chiave bisognerebbe pensarci un attimo. Giusto per non passare dalla farsa alla tragedia.
Alberto Mattioli

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Lirica e musica in rivolta dopo che il decreto Bondi sulle Fondazioni Lirico-Sinfoniche è stato firmato ieri dal presidente Napolitano. I sindacati tutti sono sul piede di guerra. Salta per sciopero la replica del balletto Don Chisciotte all’Opera di Roma, sospesa La donna senz’ombra che aveva inaugurato il Maggio Musicale Fiorentino, al Teatro Regio di Torino non andrà in scena domani il Barbiere di Siviglia, ancora nella capitale la prestigiosa Accademia di Santa Cecilia ha praticamente chiuso i battenti: orchestrali e tecnici hanno proclamato uno sciopero a oltranza, con blocco di prove, concerti e lezioni fino a data da destinarsi (con rimborso dei biglietti acquistati). E domani all’Auditorium Professori d’Orchestra, artisti del Coro e personale tecnico daranno vita a un happening musicale per sensibilizzare il pubblico sulle ragioni della protesta. «L’Italia non può permettersi di perdere la professionalità che gli artisti hanno conseguito con decenni di studio e perfezionamento continuo. Non si può depauperare in modo radicale il patrimonio artistico nazionale», scrivono nel comunicato.
E sì che Santa Cecilia era una di quelle Fondazioni che, nella prima versione del decreto, era considerata di serie A, insieme alla Scala di Milano. E ancora oggi, dopo che la classificazione, unanimemente criticata e oggetto dei rilievi mossi da Napolitano, è stata espunta dal testo, è comunque considerata meno a rischio di altre, dopo i tagli previsti dal decreto. Che le Fondazioni fossero da riformare e andassero rese più efficienti, non lo negava nessuno. Ma anziché lavorare a un disegno di legge, come chiedeva l’opposizione, il ministro Bondi, sollecitato da Tremonti, ha voluto procedere d’urgenza. Con norme che prevedono il blocco di ogni assunzione a tempo indeterminato, e dei concorsi, fino al 2012, la riduzione del 50% del trattamento economico aggiuntivo, che per artisti che fanno continuamente trasferte e orari notturni è fondamentale. Ma anche dopo il 2012 ogni assunzione, che dovrà essere autorizzata dal ministero dei Beni Culturali, non potrà essere superiore a quelle dell’anno precedente mentre quelle a tempo determinato non potranno superare il 15% dell’organico approvato. Viene «praticamente abolita la contrattazione integrativa e c’è il totale esproprio del sindacato e della contrattazione nazionale», denunciano i sindacati, che criticano anche lo spostamento dell’età pensionabile dei ballerini e le norme sul loro trattamento pensionistico.
Critico il Sovrintendente del Regio di Torino, Walter Vergnano. «Pur ritenendo urgente la scrittura di un nuovo contratto nazionale che dia più efficienza ai teatri lirici, non sono d’accordo con misure che implichino la riduzione, anche in futuro, della retribuzione dei dipendenti». Per Gabriele Gemignani, secondo violoncello del Santa Cecilia, «è un disastro: viene azzerato tutto, con ricadute anche sulle Scuole e i Conservatori: anche per generazioni future sarà un problema, i giovani non avranno un futuro».
«La logica del governo è sempre solo quella di tagliare, tagliare comunque, e basta. Come per la Scuola», sostiene Vincenzo Vita, senatore Pd. Preoccupato perché, visti anche le pesanti decurtazioni dei Fondi dello spettacolo, che hanno già causato buchi, specie nelle Fondazioni meno ricche, «finiranno per sopravvivere solo in 4 o 5». Con grande danno per la Lirica, uno dei must italiani nel mondo. «La maggioranza parla di federalismo, ma poi attua un centralismo al limite dell’autoritarismo, come hanno fatto anche per l’Università», osserva Vittoria Franco, Pd. L’opposizione annuncia battaglia quando il decreto sarà convertito in legge. E correzioni nel corso della conversione auspica anche Vergnano, «per far sì che questo decreto sia il primo passo verso la necessaria riforma delle Fondazioni».
MARIA GRAZIA BRUZZONE

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«Leggo sconcertato le notizie dall’Italia. Come si può pensare che La Fenice tanto amata da Verdi, o il San Carlo decisivo per Rossini, o il Regio di Torino e l’Opera di Roma così importanti per Puccini possano essere sacrificati?». Riccardo Chailly è direttore musicale del Gewandhaus di Lipsia, l’orchestra con il massimo organico al mondo, 185 musicisti.
Maestro, come siamo arrivati a questo punto?
« un processo che va avanti da molti anni, tutto nasce dalla scellerata decisione di ridurre da quattro a una le Orchestre Rai: è stato un segnale decisivo della perdita di centralità della cultura nella politica italiana».
Negli ultimi vent’anni la Germania ha dovuto sostenere i costi della riunificazione: è stata mai toccata la musica?
«Il confronto tra Germania e Italia in questo campo è schiacciante. Non si contano le orchestre, le associazioni concertistiche... Certo, vivo in una città privilegiata grazie a una tradizione che risale a Bach, ma nessuno, nemmeno nei momenti più difficili, si è sognato di minacciare l’identità musicale della nazione».
Ci sono colpe specifiche dei teatri italiani?
«Una su tutte: l’individualismo. Un male terribile che coinvolge anche i nostri teatri. Una pretesa di originalità a tutti i costi che va contro la collaborazione fattiva e concreta che potrebbe molto ridurre i costi di gestione».
La Scala firma coproduzioni...
«Sì, peccato che Lissner lavori volentieri con i teatri stranieri, più raramente con quelli italiani. Lo vedrò a fine maggio per parlare di future collaborazioni, ma mi piacerebbe che aprisse anche agli italiani».
Come si esce da questa situazione?
«Non sono ottimista, vedo prevalere un fiato corto. Da troppi anni sento parlare di lotta per la sopravvivenza sempre attorno allo stesso problema».
Quale?
«La dignità del lavoro artistico. Stabilito questo, diventa assai più facile scrivere le regole. La mia orchestra è formata da 185 musicisti: lavoriamo per il teatro d’opera, per la stagione dei concerti, per le cantate e gli oratori di Bach. Nessuno ritiene che sia troppo. Questa orchestra ha una storia meravigliosa, ma nello stesso tempo una straordinaria volontà di rinnovamento, la convinzione profonda che la tradizione sia il viatico migliore per il futuro».
Non la vede in Italia?
«No, e credo che questa sia la ragione profonda del male oscuro - ma forse nemmeno tanto oscuro - della nostra vita musicale. La musica è fondante nella nostra storia: c’era la musica italiana prima che ci fosse l’Italia. Sacrificare la musica è una scelta politica, prima ancora che economica».
RAFFAELLA SILIPO

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Ecco a cosa servono i sottosegretari: a dare interviste quando il ministro non c’è. Fatta esplodere la bomba del decreton de’ decretoni, Sandro Bondi si è dato alla macchia e la patata bollente è rimasta nelle mani di Francesco Giro, deputato di Roma, Pdl, 46 anni, docente di Filosofia morale. «Ebbene sì, sono un politico che sa leggere e scrivere».
Allora saprà che ci sono molti dubbi sul fatto che i requisiti di necessità e urgenza ci siano, per decretare su una materia come questa.
«Ci sono tutti. La situazione è gravissima. Negli ultimi cinque anni abbiamo dovuto commissariare cinque o sei teatri. Così non si va più avanti. Comunque questo decreto non è la riforma, ma ciò che la rende fattibile. Nei prossimi dodici mesi sarà completata».
I sindacati non l’hanno presa bene: dalle Alpi alle piramidi è tutto uno sciopero.
«I sindacati sappiano che a chiudere i teatri d’opera non saranno gli scioperi, ma i debiti».
Il decreto combatte su due fronti: l’autonomia e i contratti. Da dove partiamo?
«Dai contratti. Siamo stati costretti a intervenire perché il contratto nazionale di lavoro è scaduto da anni. L’associazione delle fondazioni e i sindacati non si mettono mai d’accordo? E allora interviene il ministero».
Tagliando del 50% i contratti integrativi.
«Ma sono gli integrativi i contratti veri. C’è stato uno sbalorditivo rovescimento per cui il contratto nazionale è ridotto all’osso e quelli integrative proliferano con privilegi scandalosi: in certi casi, sancendo il diritto a non lavorare».
Faccia degli esempi.
«Il gossip lo lascio a voi giornalisti. Ma per molti dipendenti delle fondazioni quella è la seconda o terza attività. Basta, chi prende lo stipendio se lo deve guadagnare».
Non è assurdo che, poniamo, il primo flauto della Scala insegni in Conservatorio: se non lui, chi deve farlo?
«Vero. Ma è assurdo che in certi teatri ci sia chi lavora i giorni dispari e chi i giorni pari».
Un taglio degli stipendi per decreto non s’è mai visto.
«Falso. E’ già successo con altri contratti. Si sono chiuse fabbriche e ospedali, si possono chiudere anche i teatri».
Il decreto toglie la contrattazione ai singoli sovrintendenti e l’accentra a Roma. Bel federalismo…
«Su questo punto siamo disposti a discutere in Commissione. Però non c’è nulla di strano che i contratti siano discussi dall’Aran come molti di quelli del pubblico impiego. E comunque i contratti devono essere compatibili con le risorse. E anche con il buonsenso».
Altro capitolo: l’autonomia. Il decreto stabilisce i criteri per permettere alle fondazioni «virtuose» di ottenerla. In pratica, che significa?
«Che se io sono bravo, ho dimostrato di tenere i conti sotto controllo, di trovare risorse mie, ho rilievo internazionale, continuo a ricevere la mia quota del Fus, cioé i soldi dallo Stato, ma sono più libero su come utilizzarli».
Cosa non convinceva Napolitano?
«Alcuni singoli aspetti. In alcuni casi le sue perplessità sono state recepite: il decreto bloccava le assunzioni per tre anni senza eccezione. Ne abbiamo introdotta una per le assolute eccellenze artistiche. Insomma, se c’è su piazza un flautista eccezionale, lo si può assumere».
Altrimenti, niente turn over.
«Chiediamo tre anni di indispensabili sacrifici. Le tournée si possono fare anche volando in economica e non in business e andando negli alberghi a quattro stelle e non a cinque».
Altre obiezioni del Presidente?
«Sul taglio degli integrativi. L’abbiamo spiegato ed è rimasto. Le fondazioni assorbono il 47,5% del Fus e gli stipendi inghiottono da un minimo del 56% del bilancio, come a Santa Cecilia, fino quasi all’80, come all’Opera di Roma. A questo punto ognuno faccia la sua parte».
ALBERTO MATTIOLI