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 2010  maggio 03 Lunedì calendario

ALFRED HITCHCOCK. L’IMPALPABILE ARTE DI REGALARE BRIVIDI

Oggi la grandezza di Hitchcock non è messa in discussione da nessuno. Anzi, nel chiedere il «solito» elenco dei maestri si può stare sicuri che il suo nome sarà tra i primi quattro o cinque citati, assieme a Fellini, Kubrick, Truffaut, forse Tarantino (a seconda dell’anagrafe). Eppure, a insistere per sapere le ragioni di questa grandezza le risposte sarebbero molto meno immediate e forse ci si dovrebbe accontentare di più di un imbarazzato silenzio.
Perché? Ma per la semplicissima ragione che l’arte di Hitch rischia di essere impalpabile, di scivolare tra le dita, legata com’è a un’inezia di montaggio, a una sfocatura dell’inquadratura, a una sfumatura nella recitazione. Una delle sue battute più celebri (e saccheggiate) è che il cinema è «la vita liberata dai momenti di noia» oppure, ed è un po’ la stessa cosa, che il cinema deve assomigliare a una «fetta di torta»: l’obiettivo della regia deve essere solo il piacere dello spettatore, senza pause (i «momenti di noia» ), ma anche senza esagerazioni (il paragone è con «una» fetta di torta, non con quelle composizioni multistrati che fanno pensare a indigestioni e nausee).
Per questo i suoi film non ci si stanca mai di vederli e rivederli mentre è molto più difficile spiegarli e smontarli per mettere a nudo le loro caratteristiche. O meglio: quel lavoro si può fare (e Truffaut, in un libro-intervista memorabile, lo ha fatto magistralmente) ma poi alla fine non ci si può accontentare delle spiegazioni, bisogna mettersi davanti allo schermo e godersi la visione di quei capolavori di eleganza (e di perfidia) che sono i suoi film e «vedere» – più che «capire» – come il genio cinematografico di Hitchcock ha dato una forma alle sue idee.
Ci si può perdere una giornata a smontare la celebre scena di Janet Leight (e della sua controfigura, la spogliarellista Marli Renfro) uccisa sotto la doccia in Psyco, ricordando con le parole del regista a Truffaut che «le riprese sono durate sette giorni e ci sono state settanta posizioni di macchina per quarantacinque secondo di film». E naturalmente studiare uno per uno i disegni dello storyboard con cui il regista aveva preparato quei sette giorni di lavoro. Ma alla fine a vincere, e a stamparsi nell’immaginario dello spettatore, è proprio quell’esplosione di violenza dove si distingue molto poco ma si sente benissimo l’emozione impadronirsi dello spettatore. Oppure spiegare che il senso di vertigine che prova James Stewart in La donna che visse due volte, quando si affaccia a guardare in giù sulle scale del campanile, è stato creato unendo l’effetto meccanico di una carrellata indietro con quello ottico di uno zoom in avanti: tutto perfetto ma la sensazione che fa sullo spettatore non la si spiega certo con le «meraviglie» della tecnica. C’è ben altro e la serie di dvd che il Corriere offre ai suoi lettori a 9,99 euro può essere l’occasione ideale per riassaporare quel «piacere del cinema» che nessuno come Hitchcock ha saputo inseguire e coltivare. Un piacere che porta lo spettatore a fare i conti con «l’umana perfidia e cattiveria» dei suoi film (Fofi), a scavare dentro le repressioni sessuali ( Nodo alla gola), le esplosioni di follia ( Psyco), le paure e le vendette che spiazzano ( Gli uccelli), gli egoismo e le debolezze degli essere umani (e qui l’elenco potrebbe non finire mai, da La donna che visse due volte a Delitto perfetto, da L’uomo che sapeva troppo a Marnie), per continuare con il cinismo dell’humour nero ( La congiura degli innocenti) o le piccinerie della piccola comunità provinciale ( L’ombra del dubbio) o le confusioni tra grazia e condanna ( Il ladro)...
A chi gli chiedeva il segreto del suo lavoro, già nel 1938 Hitchcock rispondeva (in un articolo pubblicato sulla rivista The Listener) che tutto dev’essere «creato per la macchina da presa. E questo discorso vale per l’intero processo di realizzazione di un film, a partire dall’illuminazione fino a comprendere tutti gli altri reparti coinvolti». E sottolineava, lui diventato «famoso» per la frase sugli attori-bestiame, che «per ottenere i risultati migliori è necessario che siano gli attori a recitare per la cinepresa, invece di aspettare che sia la cinepresa a cercare di capire quello che gli attori fanno. Ecco la differenza tra un film di impostazione teatrale e un film vero e proprio».
 soltanto in questo modo che noi spettatori alla fine possiamo ritrovarci con quel sentimento di appagamento che sanno regalare unicamente i film davvero riusciti, senza falle o momenti di incertezza. Magari per ripensare, dopo aver metabolizzato quel piacere tutto estetico, al fatto che anche ogni film di Hitchcock sa trasmettere un qualche tipo di insegnamento, per esempio quando mette in discussione il nostro sentirci comunque «innocenti» e ricordarci che in ognuno di noi forse si può nascondere se non proprio un assassino, almeno un potenziale «peccatore».
Paolo Mereghetti