Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 03/05/2010, 3 maggio 2010
«L’ITALIA IGNORAVA L’ORIENTE, LO SCOPRIMMO NOI»
Seduto in maniche di camicia dietro la scrivania del suo elegante studio milanese in via San Giovanni sul Muro, sede storica della Adelphi, Roberto Calasso parla con calma, anche quando esprime il suo dissenso rispetto a una cultura editoriale, la nostra, che per anni ha escluso interi filoni filosofici e letterari: «L’Oriente è rimasto clamorosamente assente. All’inizio dell’Ottocento in Francia e in Germania nasceva la grande orientalistica, mentre l’Italia era sorda per una specie di ostilità fisiologica che le impediva di avvicinarsi a questi mondi. Da noi il solo Vico ha avuto una vaga percezione di mondi più complessi. Nel 1966 Adelphi ha pubblicato la Vita di Milarepa e Il segreto del Teatro No. E il pubblico ha risposto. Milarepa, che per Bazlen era un libro di base, fu tra i nostri primi successi: abbiamo tirato fuori il Tibet dall’ambito del paraocculto in cui circolava, mettendolo sullo stesso piano dei classici greci e latini. Oggi entrambe le opere possono dirsi quasi ovvie».
Le collane Adelphi di ambito orientale sono note (Biblioteca Orientale e Il ramo d’oro), ma è tutto il catalogo a disporre sin dalle origini di classici cinesi, giapponesi, indiani. Le 101 storie zen uscirono nel – 73 nella Piccola Biblioteca e da allora sono state ristampate in trentotto edizioni per un totale di 410 mila copie: «Oggi un po’ tutti guardano all’Oriente, ma allora nessun editore se ne interessava, c’era un recinto penoso per cui si pensava che si trattasse di una zona secondaria e che con Le mille e una notte si fosse risolto il problema. Assurdo, se si considera che tuttora c’è un’enorme quantità di testi da scoprire». Se Adelphi significa, nella vulgata, soprattutto Mitteleuropa, non si può dimenticare che gran parte di quella letteratura è stata alimentata dalla cultura orientale: «Molti autori della Mitteleuropa, da Hofmannsthal a Hesse, si sono nutriti di Oriente, leggendo testi che nei loro Paesi, diversamente che in Italia, venivano pubblicati».
Ma anche in filosofia c’erano autori accantonati. Per esempio Max Stirner, il nichilista più scandaloso: « una vera spina nel fianco: il caso di un pensatore espunto dalle storie della filosofia (quindi prezioso a maggior ragione) per motivazioni teoretiche e politiche». Per restare sullo stesso terreno, va ricordato che la storia di Adelphi prende le mosse dal celebre «caso Nietzsche», cioè dal rifiuto opposto da Einaudi all’edizione critica progettata da Giorgio Colli. «Sapevamo bene sin dall’inizio – ricorda Calasso’ che Nietzsche avrebbe dato carattere alla nostra casa editrice, era un progetto ambizioso che per una volta sarebbe partito dall’Italia. Cercammo dei partner stranieri e trovammo Gallimard in Francia, ma in Germania i maggiori editori, da Suhrkamp a Fischer a Rowohlt, si tirarono indietro; accettò solo un editore accademico, De Gruyter, perché c’era un grosso finanziamento della Forschungsgemeinschaft, qualcosa di simile al nostro Cnr. Persino i giapponesi firmarono prima dei tedeschi. In Italia Nietzsche uscì nel silenzio quasi generale, ma almeno senza reazioni negative. Poi ci si rese conto della sua importanza anche per la forte eco che arrivò dalla Francia, dove Nietzsche era un argomento caldissimo grazie a Foucault, Deleuze, Derrida».
C’è poi il versante degli studi etnologico-religiosi, che in Einaudi ebbe una breve (e non proprio felice) parentesi con la famosa «collana viola» di Pavese e De Martino e che non mancò di aprire dibattiti interni anche feroci, perché faceva temere l’invasione del «morbo dell’irrazionalismo» in un corpo che si voleva essenzialmente illuminista. In parte se ne sarebbe appropriato il transfuga Boringhieri, in parte quel filone sarebbe poi confluito in Adelphi: «La "viola" era una collana coraggiosissima e guardata con sospetto dagli stessi curatori, dunque si esaurì con la morte di Pavese. De Martino era tormentato dall’angustia stessa dell’antropologia italiana, spaventata di tutto. Pavese era l’unico einaudiano che aveva un senso del mito». Quando si pensa all’Adelphi, non si pensa alla scienza. Qual è il significato della Biblioteca Scientifica, che sembrerebbe estranea al nucleo originario della casa editrice? «Ho esitato molto prima di farla partire» dice Calasso. Il primo titolo, datato 1977, era Verso un’ecologia della mente di Gregory Bateson: «Si tratta di un antropologo capace di intervenire su temi di scienza pura: ha inventato un’espressione come "ecologia della mente" che suonava stranissima ma molto attraente anche all’orecchio del lettore non specialistico. La risposta del pubblico è stata notevole anche per autori ardui come Putnam, Edelman, Minsky, Damasio. Il fatto forse è che mancavano in Italia libri di prima mano su certi argomenti: la nostra editoria ha puntato soprattutto su buoni compendi di scoperte fatte da altri. Ricordo che nel 1984 a Francoforte Martin Kessler, l’editore di Basic Books, arrivò come un commesso viaggiatore con una valigetta che conteneva il manoscritto di Gödel, Escher, Bach, il saggio di Hofstadter. Quel libro, che scopriva un intero mondo e divenne un successo ovunque, era per noi un’opera quasi evocata, un’opera che aspettavamo. In realtà il nome segreto della nostra collana è quello di Gödel, attorno a cui gira buona parte del pensiero scientifico del Novecento». Una collana parca, circa due libri l’anno. Il più difficile e nuovo, secondo Calasso, è Gnomon di Paolo Zellini, i cui saggi Italo Calvino segnalò nelle Lezioni
americane tra quelli che leggeva e rileggeva e meditava più spesso. Come si fa a stanare il lettore comune per testi di carattere comunque specialistico come questi? Calasso non sembra avere dubbi: «Una caratteristica di Adelphi credo sia la convinzione che lo stesso lettore potrebbe in teoria leggere tutti i nostri libri: così si spiega la Biblioteca Adelphi, che contiene saggi, romanzi contemporanei, classici, Sacks, Simenon, I Ching, Vita del lappone, i Vangeli gnostici… Accostamenti che sembrerebbero un azzardo, se non fosse che ogni titolo si riverbera nell’altro, dà forza all’altro».
La «fenomenologia di una collana» è un argomento che sembra dividere gli editori, c’è chi dice che il concetto di collana sia ormai superato. Calasso non è d’accordo: «In Inghilterra e negli Stati Uniti l’idea di collana si è quasi persa, perché si punta sul libro come singolo pezzo o colpo unico. E questo è un guaio. La collana stabilisce una complicità tra editore e lettore: se il lettore non viene tradito, tende a incuriosirsi a tutto. Io intendo la casa editrice come forma, come insieme di collane orchestrate al loro interno e in rapporto reciproco: spesso la coerenza e la congenialità tra gli autori e i titoli si ottiene proprio grazie al modo di presentarli». questo il significato della formula «libro unico»? « una formula di Bazlen, il perno su cui si è costruito il catalogo Adelphi: una costellazione di oggetti irripetibili, multipli e sovrapposti, che si forma col tempo anche nella mente del lettore».
Già, Bazlen: fu lui, con Luciano Foà (ex segretario generale Einaudi), a fondare l’Adelphi Edizioni il 20 giugno 1962, grazie all’aiuto finanziario di Roberto Olivetti. Calasso aveva conosciuto Bazlen con Elémire Zolla e Cristina Campo nel suo appartamento romano di via Margutta 7. «Il pittore Giorgio Settala, cugino di Bobi, era un nostro amico di famiglia’ e già da lui avevo sentito parlare di Bazlen come di un personaggio imprendibile e affascinante. Quando poi lo conobbi, ne ebbi una totale conferma (...). Senza timore di enfasi, direi che Bazlen aveva un vero genio nel far nascere le cose e nel far vivere insieme naturalmente testi che altrove si trovano separati e lontanissimi. questa la ragion d’essere di un editore. L’unica volta che questa sua specificità poté manifestarsi liberamente fu con Adelphi». Eppure, Bazlen era già stato consulente per Bompiani, Astrolabio e, dal ”51 al ”62, per Einaudi: «Quando le sue proposte venivano accolte davano risultati magnifici, come Musil da Einaudi. Però per lo più erano respinte. Visto oggi può sembrare comico, ma Konrad Lorenz fu bocciato, l’etologia suonava come una cosa poco seria. E anche il romanzo fantastico veniva visto con occhio severo. Penso a un libro come il Manoscritto trovato a Saragozza di Potocki, che finì nel nostro catalogo dopo tanti rifiuti». Calvino però all’Einaudi aveva già pubblicato la Trilogia, che non era letteratura realistica, anzi: «Diciamo allora che il fantastico andava bene, purché fosse moderato…».
Paolo Di Stefano