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LA SOPPRESSIONE DEI GESUITI E LE CONSEGUENZE PER L’INSEGNAMENTO
INTRODUZIONE
Nella seconda metà del ”700, periodo di transizione tra vecchio e nuovo, fra tradizione e innovazione, si manifesta un’attenzione particolare, pur carica di ambiguità e contraddittorietà, da parte dello Stato verso l’organizzazione delle scuole pubbliche, sia a livello di studi e di progetti che di interventi e di realizzazioni. L’istruzione pubblica diventa in tal modo una funzione statale; le motivazioni non vanno ricercate in una serie di fortuite circostanze, ma in quel mutato clima politico, culturale ed economico che si ripercosse sull’intera vita sociale. ”Per venticinque anni circa il giurisdizionalismo, il regalismo, il razionalismo, l’illuminismo, il giansenismo stesso, le forze cioè ereditate dalle generazioni precedenti, trovarono un punto di convergenza nella volontà di trasformare i costumi e le leggi”.
Il forte incremento demografico e l’intensa espansione economica del XVIII secolo implicano anche una diversa ridistribuzione del potere politico e un mutamento anche delle basi culturali della società. Se per la conservazione dei nuovi equilibri politici si afferma la soluzione accentratrice del potere nelle mani del principe ”illuminato” (assolutismo), posto al vertice dell’organismo sociale, per il rinnovamento e per la modernizzazione della società, una migliore istruzione, nei suoi vari gradi, cominciando da quelli superiori, ai medi e ai bassi, è indicata come il sentiero percorribile per creare una opinione pubblica favorevole agli indirizzi del governo (’sudditi fedeli”) e per sviluppare l’acquisizione di abilità, di saperi e di competenze in modo da porre ognuno, all’interno della propria classe sociale, in grado di essere utile a sé e di conseguenza alla società; ogni individuo, in tal modo, non si sente isolato, ma facente parte di un grande ”corpo”, di un progetto comune, con le proprie funzioni ed in grado di portare il suo piccolo contributo al bene dello Stato, che si identifica nel principe. Solo in questo modo la felicità del principe coincide con quella di tutti i sudditi.
L’istruzione, ritenuta un bene sociale, si trasforma in un ambito privilegiato di trasmissione ”dei meccanismi di riproduzione e di potenziamento della nuova società”; si istituzionalizza come attività pubblica, con i suoi luoghi (le scuole), con il suo linguaggio (la pedagogia), con le sue strutture ed i suoi addetti (i maestri, i dirigenti) e si fa sistema scolastico. Diventa quindi un campo di progetti, di provvedimenti legislativi e amministrativi e di relativi interventi mirati a migliorarla, ”alla luce sia di una teoria generale del governo della cosa pubblica sia di una teoria dell’educazione e della scuola”; da questo momento si può parlare di una nascente politica scolastica a favore del popolo, che si svilupperà lentamente e sarà realizzata solo dopo l’unità d’Italia.
In questa nuova dimensione del potere pubblico, il conflitto con quello della Chiesa, o con una parte di essa, è inevitabile. L’intervento del principe, una volta ribadito il proprio ambito di potere sul temporale ed aver chiarito i confini con lo spirituale, più che alla dottrina cristiana, si oppone a certe istituzioni tradizionali, a manifestazioni di pietà e di culto non più ritenute opera di fede o di assistenza, ma forme e luoghi di inutilità e fomentatrici di superstizioni, di fanatismi, non più tollerabili in una società che, in nome della ragione, ha messo al bando l’ignoranza. Lo stesso moltiplicarsi di congregazioni religiose, in un periodo in cui l’utilità sociale di ognuno è una regola perseguita, è ritenuto non un aumento di fedeli impegnati nel bene, ma di persone che non contribuiscono alla ”felicità” degli altri, quando non è visto come un fattore negativo per lo Stato a causa della fedeltà al papa. Sollecitazioni in senso riformistico vengono, ed erano venute, anche da parte del clero più aperto alle nuove istanze culturali, come ad es. da L.A. Muratori: gli ordini religiosi – scriveva – ”son da commendare, perché sommamente utili, e alcuni d’essi anche necessarj. Ma non ci sarà chi giudichi esser bene il moltiplicar troppo questi Ordini in una sola Città o Terra. E lo stesso dico del troppo numero degli Ecclesiastici Secolari. Sarebbe da desiderare, che ne avessimo un discreto numero, e questi di soli ben osservanti della santa lor profession ed esemplari; giacché questo bene non è da sperare, dove è troppo”.
Vengono di conseguenza soppressi luoghi pii, congregazioni, con i fondi dei quali sono finanziati gli interventi di attivazione o di riforma dell’istruzione scolastica, in modo che questi beni, come afferma il Bovara, siano effettivamente impiegati nelle finalità per cui originariamente sono sorti, cioè in opere pie: e la scuola, secondo lui, certamente può considerarsi un’opera pia.
La soppressione dei Gesuiti, ammirati, temuti e odiati ad un tempo, tradizionali detentori di gran parte dell’istruzione media e superiore delle nazioni cristiano- cattoliche, si trasforma in una potente accelerazione, ed in parte giustificazione, del massiccio intervento dello Stato in campo scolastico. Probabilmente anche senza questa drastica decisione, l’intervento scolastico statale si sarebbe realizzato, sia pur in modo più graduale. In un certo senso quindi la Dominus ac Redemptor [1] si rivela una concausa, seppur importante e non inaspettata, della riforma scolastica, che più che anticristiana sì presenta come anticuriale e antigesuitica.
Il ruolo del clero subisce una riqualificazione al fine di inculcare nella gente il rispetto per le direttive del governo e una religione priva di estremismi superstiziosi e fanatici. Per la mancanza di fondi adeguati e di personale qualificato il clero rimane tuttavia a dirigere e a fare scuola, anche se alle dipendenze del governo; massiccia diventa la sua presenza nelle scuole di campagne, dove ricopre quasi totalmente anche le funzioni di vigilanza e l’insegnamento diventa un’appendice del lavoro pastorale, a meno che non sia presente qualche laico disposto disposto, fra un lavoro e l’altro, a dar l’istruzione a dei ragazzi.
In questa alleanza trono altare, almeno fino alla Rivoluzione francese e durante la Restaurazione, la religione continua ad essere il fondamento della morale e del ”buon” ordine sociale ed in questo senso si rivela utile allo Stato. E’ una religione che, esplicandosi in numerose forme di culto, è volta ad inculcare obbedienza e rispetto a Dio e al Principe, insieme all’accettazione del posto che la natura e la provvidenza assegna a ciascuno; ”fedeli sudditi e buoni cristiani” diventa la finalità condivisa dall’istruzione scolastica e religiosa. Vedere in questa funzionale finalità una limitazione alla formazione dell’uomo in quanto tale e una soggezione della pedagogia alla politica è facile e, dal punto di vista pedagogico, corretto, ma è opportuno considerare come la scuola, diventando un bene sociale all’interno di una macro struttura, partecipi, in modo autonomo ma non indipendente e autosufficiente, alla funzione che la ”società totale” le attribuisce, per cui educa, come ha sempre educato, secondo ”l’utilità sociale storicamente determinata”.
La scuola di fine Settecento si sta ritagliando una propria autonomia e non può sottrarsi ad un compito, quale quello della formazione di un modello di uomo, socialmente e politicamente condiviso, che non punta al rivolgimento sociale. L’avere dei ”rudimenti” di istruzione è ormai una esigenza sentita da molte categorie di persone, soprattutto del commercio, dell’artigianato, della piccola borghesia, meno dal mondo contadino, che prima potevano usufruire, ma non tutti e non sempre, di un minimo di possibilità di istruzione non formale e poco strutturata. La riforma di fine Settecento si rivela in tal senso una ”rivoluzione” o l’inizio di una ”rivoluzione”, i cui punti fondamentali possono sintetizzarsi in questo modo:
• Il massiccio intervento dello Stato in campo scolastico, con la promozione di una serie di studi e di indagini sul territorio, di rilevazioni, di progetti che non trovano nessun riscontro nel passato e che sono indice di una mentalità totalmente nuova. Questo comportamento si rivela un primo timido passo, poiché ancora la scuola viene ritenuta un ”atto di generosità” da parte del principe e rientra infatti nelle opere pie, verso il riconoscimento del diritto all’istruzione e all’educazione di ogni persona.
• L’affermarsi di una scuola distinta da quella del latino, in nuce la futura scuola elementare, con l’importanza data alla lingua parlata dalla gente. E’ noto che anche le scuole del leggere, scrivere e far di conto, pubbliche e private, della città e della campagna, insegnavano anche, quando non soprattutto, i rudimenti della grammatica latina ed erano gestite in funzione e a supporto delle scuole successive. Le nuove scuole normali o comuni o triviali sono invece scuole a sé stanti ed in esse si insegnano materie ”indispensabili e necessarie” a tutti gli uomini. Resta il fatto che le scuole normali, per molti anni almeno fino al 1809-1814, raggiungono solo una piccola percentuale dei ragazzi del popolo.
• La nascita graduale di una classe insegnante, con la presenza in lenta ma continua crescita di laici e l’accentuarsi del divario fra quelli di campagna e di città. Mentre prima l’insegnare poteva essere un ripiego, soprattutto a livello elementare, poche volte degno di considerazione, ora lo Stato esige una preparazione certificata da un esame su quello che si intende insegnare e si cominciano a creare i primi corsi di preparazione dei maestri; inizia contemporaneamente la lunga battaglia contro gli insegnanti privati, condannati ma spesse volte tollerati o incoraggiati indirettamente, nella convinzione che senza il loro apporto la scuola pubblica si sarebbe rivelata insufficiente. In realtà per molto tempo questo piano rimane un desiderio a cui spesse volte non si tenta in maniera seria di dare soddisfazione. La mancanza di fondi necessari e di personale preparato porta ad addossare al clero, nell’ambito della ”sistemazione” delle parrocchie, il compito di fare scuola, invogliandolo, almeno nello Stato di Milano, con la prospettiva di benefici e di migliore considerazione sociale.
• L’attenzione ai problemi legati alla didattica e l’aumento delle scuole fanno sorgere un insieme di persone che ruotano attorno all’istituzione scuola con compiti diversi e nuovi: il direttore e il visitatore scolastico, il compilatore di libri per i maestri e per gli alunni, lo stampatore di libri scolastici, l’esperto dei problemi legati all’edilizia scolastica per la ricerca di un luogo più adatto, che non sia la disturbata casa del maestro, con la cura prestata ai nuovi mezzi didattici, come il libro, la lavagna, i banchi, i mobili, le penne, i quaderni.
• Il primo passo verso l’affermazione dell’obbligo dell’istruzione per tutti, distinto dall’obbligo scolastico. I vari interventi legislativi contemplano l’istruzione sia per i maschi che per le femmine, anche se per queste ultime il cammino sarà più lento e complicato.
Si può affermare che i problemi che hanno accompagnato la scuola italiana, sintetizzati da F. De Vivo nel principio dell’obbligo scolastico, nel diritto dello Stato ad intervenire al fine di garantire la laicità, nel reclutamento e nella preparazione degli insegnanti, nella frattura fra la scuola classica e la tecnica e nell’insegnamento della religione, siano presenti, tranne l’ultimo che si presenterà ad Italia unita, fin dalla nascita della scuola statale nel periodo delle riforme e si ripresenteranno, con accentuazioni diverse, fino ai nostri giorni.
LA ”SCOPERTA” DELL’IMPORTANZA DELL’ISTRUZIONE
1 - LE SCUOLE PRIMA DELLA RIFORMA SETTECENTESCA
Il problema di un’adeguata rete scolastica, sorretta da un intervento diretto dello stato, viene affrontato per la prima volta nella seconda metà del ’700, anche se il sistema scolastico creato in quel periodo, e soprattutto nella successiva età napoleonica, ha potuto contare su una lunga, seppur variegata e discontinua, tradizione scolastica. E’ proprio dal processo di rifondazione della rete scolastica iniziato nella seconda metà del ’500 che bisogna partire per comprendere la realtà scolastica settecentesca, poiché è nel corso del ’500 che avvengono le modificazioni più significative dell’assetto scolastico tradizionale, grazie soprattutto all’attività di quegli ordini religiosi che avevano assunto l’istruzione del popolo come terreno privilegiato del proprio apostolato.
Appare tuttavia convenzionale e poco credibile identificare totalmente le scuole dell’antico regime con i tradizionali collegi degli ordini religiosi, i quali, secondo G.P. Brizzi, hanno avuto sì un ruolo egemone nel connotare la scuola dell’antico regime sul piano organizzativo e didattico, ma da soli non esauriscono la ricchezza di specificazioni delle istituzioni scolastiche. Se per oltre due secoli i collegi si identificarono con la formazione scolastica e furono i luoghi di istruzione più prestigiosi e frequentati, con un impianto culturale, didattico e organizzativo che rappresentò un modello di riferimento per altre realtà scolastiche, non va dimenticato che essi furono istituzioni quasi esclusivamente cittadine, riservate ai maschi, e che si riferivano ad un tipo di scuola media-superiore, aperta a chi già conosceva i primi rudimenti del leggere e dello scrivere. Conviveva accanto una rete, anche se poco omogenea e continua, di "punti" di insegnamento sul territorio, privati o pubblici, sorretti da contributi e lasciti, che intendevano introdurre ragazzi nelle scuole dei collegi o davano una infarinatura di nozioni basilari per la vita quotidiana.
L’alfabetizzazione delle masse, inoltre, non va identificata con la scolarizzazione, né è da considerarsi limitata alla sola età infantile; le scuole non erano ancora una tappa obbligata, ma una delle strade possibili di formazione. Le abilità e l’apprendimento di un mestiere si trasmettevano in molti modi e il saper leggere, scrivere e fare i conti non rappresentavano un valore assoluto e significante, né un tutto inscindibile, soprattutto in campagna. Imparare a scrivere, ad esempio, era più impegnativo e a lungo risultò limitato e condizionato anche per il suo complesso iter di apprendimento.
Ma è soprattutto con la Riforma cattolica che si assiste ad un moltiplicarsi di iniziative in campo culturale e assistenziale, sorrette da una finalità e da una antropologia religiosa. All’idea dell’educazione come libero ed integrale sviluppo delle potenzialità umane, proprie della mentalità dell’umanesimo, si viene sostituendo quella per cui l’educazione è innanzitutto disciplina del corpo e dello spirito e trasmissione di determinati principi morali e religiosi in vista della formazione del "perfetto cristiano". Si perde in tal caso la fiducia umanistica nell’autonomia della morale naturale, sostituita da una visione pessimistica della natura umana, salvabile con un continuo sforzo di dominio sulle passioni e sugli istinti, con una fede incrollabile, con le "opere buone" e con la presenza della grazia di Dio.
"Gli uomini e le donne della Riforma cattolica aggiunsero nuove scuole e nuove priorità pedagogiche all’educazione rinascimentale. E probabilmente i riformatori cattolici dedicarono all’educazione maggiori energie e risorse che ad ogni altra attività religiosa o caritatevole. Ciò provenne da un unico impulso originario, il desiderio di fornire una istruzione religiosa basilare per rendere gli uomini migliori in questa vita e per aiutarli a ottenere la salvezza nella vita futura" - afferma Paul F. Grendler. Si combinò quindi l’insegnamento religioso con una istruzione più ampia; per gli strati più poveri della società era ritenuto sufficiente il leggere e lo scrivere in volgare in scuole gratuite, mentre per i più abbienti vi erano le scuole del latino: in ambedue i casi però il fine principale era di insegnare la dottrina del cattolicesimo, per riformare i costumi, salvare le anime e formare una società di cristiani.
Fondamentali si rivelarono il dibattito e le conclusioni del concilio di Trento (1545-1563), che diede una risposta "certa" ai problemi della fede e della morale "gettando le basi sul piano della antropologia mediante l’articolazione del discorso attorno al problema della giustificazione". Nella sesta sessione, nel gennaio 1547, fu chiarita la posizione della chiesa cattolica sulla giustificazione mediante la grazia e la possibilità della cooperazione umana in virtù della libertà. Venne affermata la libertà dell’uomo insieme con la sua vulnerabilità, la gratuità della giustificazione insieme con la responsabilità della accettazione e della cooperazione, la parte decisiva di Dio e insieme dell’uomo: ma l’uomo nascendo, macchiato dal peccato originale, poteva essere purificato solo col battesimo, cioè mediante i meriti di Cristo e tale giustificazione rendeva l’uomo giusto interiormente.
Su questo principio si ergeva tutto l’edificio della antropologia cristiana, la quale afferma che senza la grazia di Dio nessuno può salvarsi, ma alla salvezza l’uomo può collaborare, mediante le opere buone, o dare una risposta negativa: il "timore di Dio, fonte di ogni sapienza" e l’operosità umana diventano così i cardini dell’educazione cristiana controriformista.
Partendo da queste premesse acquisterà considerazione l’età infantile e si organizzerà la protezione del fanciullo, l’esemplarità della vita, la catechesi ed ogni insegnamento scolastico e familiare, perché tutto deve favorire e garantire l’accesso alla fede e l’adesione alla grazia divina, tenendo conto che il peccato originale ha rovinato e debilitato la natura umana nelle sue forze e il libero arbitrio è soggetto all’inganno e alle passioni. Mediante la risposta alla grazia divina e con l’aiuto dell’educazione si corroboreranno le energie naturali e ci si incamminerà sulla strada della salvezza: con la preghiera, l’ascolto della parola di Dio, i sacramenti e le buone opere.
Si corse il rischio - scrive L. Secco - di veder sorgere sistemi educativi fondati sul sospetto verso la natura; invece di sostenere l’interiorità del soggetto e lo sviluppo delle sue capacità, si arrivò ad opprimere facilmente l’iniziativa del soggetto, insegnando la mortificazione delle passioni, la fuga dai compagni cattivi e dall’ozio, la ritiratezza entro le pareti domestiche o del monastero, assumendo l’educazione i caratteri della precettistica e della rinuncia "esprimendosi nella famiglia come sottomissione al padre ed agli usi e costumi da lui fatti valere, nella scuola come venerazione dell’auctoritas magistri, nel collegio come obbedienza, spesso cieca, ed in tutti i rapporti sociali come accettazione dell’ordine stabilito".
Predicatori e studiosi, soprattutto gesuiti, si occuparono di diffondere fra il clero ed i fedeli questo messaggio di salvezza che faceva leva su un certo modo di educare, che considerava la natura umana bisognosa di correzione ("La stoltezza è legata al cuore del fanciullo, ma il bastone della correzione l’allontanerà da lui"), anche con mezzi "forti" ("Chi risparmia il bastone odia suo figlio, chi lo ama è pronto a correggerlo"); attraverso le prediche, le conferenze, i quaresimali questa dottrina entrava nelle case di molta parte del popolo e ne condizionava alquanto il comportamento.
In questo quadro la religione diventa naturalmente il fondamento della morale e dell’educazione e ai maestri, considerati come secondi padri, spetta non ”solamente insegnar le lettere, ma molto di più i buoni costumi, e la pietà christiana, qualità assolutamente necessaria per conseguir il nostro fine, cioè l’eterna beatitudine"; per questo la giornata modello dello studente cristiano, soprattutto quello collegiale, ricalca quasi completamente lo schema della vita monastica, la quale intende disciplinare tutte le energie individuali verso Dio con l’occupazione di ogni momento in esercizi religiosi ed attività specifiche, in modo da evitare l’ozio e le occasioni di peccato.
Pur in presenza di questa antropologia esaltante la vita soprannaturale, non si può tuttavia negare l’interesse, seppur indiretto, di fondatori ed educatori cristiani verso la diffusione della cultura e la valorizzazione delle capacità umane, ritenute essenziali per l’impegno del cristiano nel mondo. E’ quanto emerge dalle ricerche di alcuni studiosi della storia delle istituzioni scolastiche, che negli ultimi anni si sono interessati anche alle iniziative avviate nel corso del Cinque-Seicento nel campo della catechesi e della formazione cristiana della gioventù, particolarmente delle cosiddette scuole della dottrina cristiana, delle quali hanno sottolineato il ruolo nell’acculturazione cristiana del popolo, ma anche il contributo nella diffusione dell’alfabetizzazione, almeno alla capacità del leggere, e in minor misura dello scrivere.
Fondate da Castellino da Castello, cappellano della chiesa dei SS. Giacomo e Filippo a Milano, nel 1536, con la finalità dell’insegnamento del catechismo e dei principali doveri del cristiano, le scuole di dottrina cristiana divennero anche luoghi in cui si insegnava a leggere e a scrivere. "Le confraternite consideravano l’ignoranza spirituale e l’analfabetismo come due aspetti di uno stato di deprivazione" e così i bambini imparavano gli elementi fondamentali della religione "salmodiando e memorizzando il Paternoster, l’Avemaria, eccetera. Salmodiando e memorizzando le preghiere i bambini imparavano anche a leggere e a scrivere". L’introduzione al Regolamento milanese recitava: "Questa è la regola de la Compagnia dei Servi de’ Puttini in charità, che insegna le feste a puttini e puttine legere, scrivere, et li buoni costumi christiani, gratis et amore Dei, principiata in Milano ne l’anno 1536".
I testi prevalentemente usati erano il Summario della vita Christiana, un piccolo opuscolo il cui contenuto era di origini medievali e conteneva le preghiere e le conoscenze basilari per un cattolico, e l’Interrogatorio, un catechismo a domande e risposte che fungeva da testo per un’istruzione religiosa più avanzata e che presentava due temi tipici dei futuri catechismi: il timor di Dio come inizio della sapienza e la necessità per il cristiano di compiere opere buone.
Le scuole di Dottrina Cristiana, secondo i loro sostenitori, avrebbero riversato benefici sociali e morali sulla popolazione, poiché "un popolo bene istruito nella dottrina cristiana è pacifico, obbediente, giusto, costante, e fedele difensore della patria".
Questa modalità di insegnare la dottrina cristiana e, nello stesso tempo, di rendere capaci gli alunni nel leggere e nello scrivere si diffuse a macchia d’olio partendo da Milano e approdando in molte altre città, fra cui Pavia nel 1538, Venezia nel 1540, Verona nel 1541, Brescia nel 1544. Il concilio di Trento incise sulla loro diffusione, rendendo tale scuola un’istituzione ufficiale della Chiesa per cui, pur nella continuità degli scopi, cioè la riforma della vita sociale attraverso l’istruzione religiosa, assunsero una nuova fisionomia, trascurando sempre più l’insegnamento del leggere e dello scrivere, a favore di una più intensa alfabetizzazione religiosa.
Le Regole per la Congregazione, approvate e fatte stampare dal vescovo Agostino Valerio per la città di Verona, invitano a leggere ”il libro dell’educazione de i figliuoli, fatto da Monsignor Silvio Antoniano, nostro antico e amorevolissimo amico, libro pien di eruditioni varie, e di mirabile devotione, il quale, perché sia più nelle mani di tutti, si va pensando di ridurlo in compendio, acciocché, e intieramente, e compendiosamente si possa leggere” e ricordano il decreto di Leone X, approvato dal Concilio Lateranense V (1512-1517) nella sessione IX, sull’obbligo dei maestri di insegnare, oltre al leggere e lo scrivere, anche la religione: ”Essendo, che ogn’uomo dalla sua giovinezza sia inclinato al male, e sia di grande importanza dall’età tenera assuefarsi al bene; determiniamo, e ordiniamo, che gli Maestri di Scuole, e quelli, che insegnano a’ fanciulli, a’ giovani debbano instruire non solo in Grammatica, e Rethorica, e in simil altra facoltà; ma ancora gl’insegnino quelle cose, che s’appartengono alla Divina Religione, si come sono li divini Precetti, gl’articoli della fede, Sacri Hinni, Salmi, e le vite de’ Santi, e nelli giorni di festa non possino insegnar altro, che quello si appartiene alla Religione, e buoni costumi, e siano obbligati ad ammaestrargli in quelle cose, e essortargli, e quanto possono sforzargli, che vadino non solo alle Messe; ma anco alli Vespri, e ad ascoltare li Divini Officij, e così ancora alle prediche, e sermoni, ne gli possino leggere cosa, la qual sia contro i buoni costumi, o muova alla empietà”.
Oltre alle scuole di dottrina cristiana, che, come abbiamo visto, dopo il concilio di Trento accentuarono la funzione di insegnamento religioso, si diffusero in pochi anni, nelle città e nei borghi più popolati, i nuovi ordini religiosi della Riforma cattolica, soprattutto nella seconda metà del Cinquecento che, sorti inizialmente con finalità pastorali ed assistenziali, modificarono profondamente il panorama dell’istruzione. Parecchi di essi finirono per dedicarsi, a volte esclusivamente, all’insegnamento, considerato una efficace modalità di formazione cristiana, dedicandosi ad istruire bambini e giovani non destinati al sacerdozio, con un programma di latino o di volgare. Inizialmente gratuite, le nuove scuole dei diversi ordini religiosi (dai Gesuiti, ai Barnabiti, ai Somaschi, ai Piaristi o Scolopi), un po’ alla volta si sostituirono alle scuole esistenti o ne crearono di nuove e "per la prima volta da secoli, grazie ai nuovi ordini, la Chiesa fece sentire il suo peso nell’educazione preuniversitaria italiana".
I Gesuiti, ottenuta l’approvazione da Paolo III nel 1540, fecero voto di impegnarsi in attività religiose tradizionali quali la predicazione, le opere di carità e specialmente l’istruzione catechistica per contribuire al rinnovamento della società, ma gli eventi li portarono a interessarsi anche dell’insegnamento. Nel documento iniziale del nuovo ordine, (I cinque capitoli), che il fondatore Ignazio di Loyola faceva presentare a Paolo III dal cardinale Contarini il 3 settembre 1539 e che l’anno dopo verrà inserito nella bolla di approvazione dell’ordine, si enumerano distintamente i mezzi coi quali i dieci chierici di Spagna, di Francia e di Portogallo volevano aiutare le anime a conseguire il loro fine ultimo. Erano essi la parola di Dio, le opere di misericordia, il catechismo ai fanciulli e ai rozzi, la direzione delle coscienze nel sacramento della penitenza. Di istituzione scolastica non si faceva parola alcuna. L’insegnamento, e quindi l’educazione scolastica, partiva dalla riflessione della sua importanza per la trasformazione cristiana della società; non è quindi frutto di una primitiva vocazione o di spirito filantropico, ma scaturisce come risposta adeguata ad un impegno apostolico ("per la maggior gloria di Dio").
Dopo la fondazione di luoghi di istruzione religiosa per quei giovani che intendevano seguire la scelta religiosa e seguire i corsi universitari, come i collegi residenziali a Padova nel 1542 e a Bologna nel 1546, si arrivò ad organizzare lezioni interne ai collegi stessi a cui successivamente poterono partecipare anche gli esterni, dando così il via alla diffusione dell’educazione collegiale.
Il successo dell’apertura nel 1548 di una scuola gratuita a Messina per ragazzi e giovani attirò sui Gesuiti le richieste da tutta Italia soprattutto da parte dei principi, di cui cercavano la protezione; nel 1551 la Compagnia di Gesù fondò un collegio a Roma, che divenne il modello per tutti gli altri, ed aprirono scuole anche a Venezia nel 1551, a Padova nel 1552, a Brescia nel 1567, a Milano nel 1571, a Verona nel 1578. Sul finire del secolo nella provincia veneta gesuita si contavano parecchi luoghi in cui era presente la congregazione e più di ottocento erano gli scolari che vi potevano accedere.
Dopo un iniziale e parziale esperimento di educazione aperta a tutti e gratuita, i gesuiti adottarono un indirizzo pedagogico che li trasformò in insegnanti delle classi superiori e medie; nel 1551 Ignazio di Loyola ordinò l’abolizione dell’insegnamento elementare in tutti i collegi, adducendo la scarsità dei maestri di fronte alle continue richieste. Venivano accettati quindi scolari che già sapevano leggere e scrivere per offrire loro una cultura "disinteressata", che mirava alla formazione dell’uomo, più che alla preparazione ad un preciso lavoro, mediante la lettura degli auctores della classicità e l’uso del latino. A partire dal XVII secolo i collegi assunsero una connotazione sempre più elitaria divenendo di fatto, con alcune eccezioni, il luogo privilegiato per l’istruzione dei ceti medio-alti, dove accanto al corso letterario-umanistico facevano la loro comparsa altri insegnamenti, propri della classe nobile, come la scherma, l’equitazione, la danza, lo studio delle lingue.
Il programma scolastico dei Gesuiti, contenuto nella Ratio studiorum (un insieme di regole, articolate in trenta capitoli, riguardanti l’organizzazione della vita scolastica, frutto di esperienze di mezzo secolo), imitava sostanzialmente il programma umanistico sviluppato nel XV secolo e si basava su una solida base di grammatica latina, sui testi principalmente di Cicerone e Virgilio, sulla ripetizione, sul continuo ripasso, sulla memorizzazione, sulla disputa, su continui esercizi di composizione e sul procedere ordinatamente e in modo alquanto rigido negli studi. Comprendeva un sistema suddiviso in cinque classi (una unità di lavoro da svolgere piuttosto che un periodo di tempo), con un anno scolastico diviso in due semestri, iniziante in ottobre, con cerimonie solenni e con gli esami pubblici: tre classi di grammatica, una di umanità e una di retorica, con lezioni previste in cinque-sei ore giornaliere, divise tra il mattino ed il pomeriggio, per circa 130 giorni all’anno di scuola, tolte le numerose festività religiose. A questo corso, nei collegi più importanti, poteva seguire un corso filosofico di tre classi incentrato sullo studio delle dottrine di Aristotele alla luce delle interpretazioni di Tommaso d’Aquino ed uno quadriennale di teologia. Le classi, ognuna con un suo insegnante, erano suddivise in gruppi di dieci alunni e si procedeva coltivando un forte spirito competitivo ed un uso frequente di premi e di castighi. Gli scolari più capaci potevano finire le cinque classi anche in quattro anni; ad altri ne occorrevano di più; per questo vi erano esami anche a metà anno scolastico, verso Pasqua, per promuovere quelli che potevano salire al grado superiore. Il metodo didattico seguito era quello parisiensis, che consisteva principalmente nella distinzione graduale delle classi e dei corsi, per cui gli alunni attendevano ad un contenuto alla volta, progredendo ordinatamente, e nel fatto che i professori si prendevano cura particolare degli alunni con assidue esercitazioni. Data l’unicità della materia, il professore in ogni classe era unico ed era un gesuita, con una preparazione culturale ed una formazione specifica per l’insegnamento ottenuta mediante un tirocinio (il magistero) nell’insegnamento nello stesso collegio.
La storia dell’ordine dei Gesuiti appare straordinaria per la rapida espansione, ma anche singolare per le controversie e i giudizi discordanti che l’accompagnarono. Dalla Repubblica Veneta furono espulsi nel 1606 a seguito del contrasto con la Chiesa di Roma in relazione alla vicenda di Paolo Sarpi; da Verona iniziarono l’evacuazione il 7 maggio, dopo aver ricevuto dai rettori della città, a nome del governo veneto, l’ingiunzione di non pubblicare l’eventuale scomunica da parte del papa Paolo V. Vi fecero ritorno nel 1656. Ma fu un altro papa, Clemente XIV, che, momentaneamente, pose fine alla loro espansione con la soppressione del 1773, quando i loro collegi erano circa 660.
In generale gli edifici in cui erano collocati i collegi dei Gesuiti furono di dimensioni notevoli e architettonicamente curati, con tante comodità in modo che il tempo degli studenti, avvezzati nella maggioranza alla "vita cortese di società", risultasse piacevole, potendo disporre anche di ricche biblioteche, di ambienti per le rappresentazioni teatrali e per le arti cavalleresche; "la disciplina fu rigida ma non aspra; le pene corporali limitate; l’orario degli studi fu saggiamente ridotto, interrotto da esercizi ginnastici e da ricreazioni", ma, sottolinea A. Banfi, "l’abitudine alla soggezione, alla obbedienza, alla ricerca della propria individualità" portò ad un "avvilimento etico della personalità", che, insieme con la statuità dei programmi di studio, rappresenta uno dei difetti maggiori dell’educazione gesuitica.
Un altro fondatore del XVI secolo, Giuseppe Calasanzio, si occupò invece prevalentemente di scuola gratuita in volgare. Egli, nativo di un villaggio dell’Aragona, trovandosi a Roma e notando come gran parte del popolo rimanesse senza alcuna istruzione, cominciò con altri preti nel 1597 a far scuola gratuita ai fanciulli poveri in Trastevere. Le sue scuole presero il nome di Scuole pie o Piariste o degli Scolopi e, almeno inizialmente, vi accedevano solo ragazzi con certificato di povertà rilasciato dal parroco. Il suo insegnamento, come quello degli altri fondatori, univa l’istruzione con le pratiche religiose, ma mirava anche a dare una certa preparazione professionale, insegnando l’abbaco ed aiutando gli scolari a trovare un lavoro. La sua fu, secondo alcuni studiosi, la prima scuola popolare europea.Il certificato di povertà per essere ammessi alle scuole fu abolito nel 1617 e l’ordine scolopio cominciò ad interessarsi anche di altre classi sociali.
Oltre all’apertura verso la classe povera, in Calasanzio si può riscontrare una "rottura" con la cultura del tempo nell’impostare l’educazione e l’istruzione su una base scientifica, insegnando ad esempio la matematica fin dalle elementari.
Il corso elementare si strutturava su cinque classi: nella quinta si veniva delineando una differenziazione fra gli scolari che, all’età di circa 12 anni, potevano scegliere se studiare l’abbaco e lavorare come apprendisti o altro o se proseguire nel normale programma del latino. Le regole del 1610 sul modo di insegnare nelle scuole calasanziane, affermavano un’esigenza che diverrà solo qualche secolo dopo una conquista e cioè che "li maestri non tengano occupatione alcuna fuor delle scuole, (se vogliono profittar nelli scolari)"; ai più piccoli si insegnava cominciando dal Santa Croce e dal compitare, usando un cartellone attaccato al muro con le lettere dell’alfabeto; si proseguiva poi con il Salterio, con altri libri spirituali "di buona et chiara stampa" in volgare, con l’Abbaco, dividendo la classe in due parti sull’esempio dei gesuiti, in romani e cartaginesi o equites et pedites.
I Barnabiti o Chierici regolari di San Paolo seguirono le orme dei Gesuiti. L’ordine fu fondato a Milano nel 1530 da Antonio Maria Zaccaria, in collaborazione con due nobili milanesi Bartolomeo Ferrari e Giacomo Morigia, con finalità catechistiche, devozionali e pastorali finché nel 1605 accettò l’offerta di aprire una scuola - le Arciboldi a Milano nel collegio di S. Alessandro - a cui poi ne seguirono altre. Essi offrivano l’insegnamento gratuito del programma di latino ad allievi che già conoscevano gli elementi di grammatica latina.
Alla fine del secolo XVII i Barnabiti dirigevano 18 collegi in Italia, 9 in Francia e 3 in Savoia.
L’ordine dei Somaschi o Chierici regolari di Somasca (paese vicino a Bergamo) fu fondato dal nobile veneziano Girolamo Miani o Emiliani nel 1534, quando raccolse alcuni ragazzi abbandonati a Venezia, alloggiandoli e insegnando loro la dottrina cristiana, la lettura, la scrittura, l’aritmetica ed un mestiere. Per gli orfani "volle sorgesse una casa fissa e prescritto modo di vivere. Di poi da per tutto, e da trivii e da piazza, raccolto gran numero d’orfani, gli condusse nella casa allestita: invitò da ultimo con istipendio artefici, i quali ammaestravano fanciulletti nell’arti, che si esercitavano sedendo, colle quali e alleviassero in qualche parte la presente loro povertà, e un giorno vivessero onestamente, e, se chiedesse necessità, sostenessero anche le lor famiglie". Sorti dapprima con lo scopo di sostenere degli orfanotrofi, anche femminili, ai quali i Somaschi prestavano assistenza e fornivano anche gli elementi basilari dell’istruzione e della formazione professionale, in seguito, con l’apertura del collegio Gallio a Como nel 1583 e del Clementino a Roma nel 1595, seguirono sempre più l’esempio dei gesuiti e dei barnabiti e diventarono maestri delle classi superiori.
Un ruolo di particolare importanza ebbero nello stato veneziano, sia per le loro radici veneziane sia perché Venezia mise al bando i gesuiti nel 1606 durante il conflitto con Roma per l’interdetto. In quegli anni essi fondarono un collegio a Padova nel 1606, aprirono una scuola a Brescia nel 1628, una a Bergamo nel 1632 e una terza a Verona nel 1639.
Nel campo scolastico vanno ricordati, anche se furono attivi in un periodo seguente, i Fratelli delle scuole cristiane, fondati da G.B. De La Salle (1651-1719) nel 1684, ai quali si deve, secondo alcuni, la fondazione di vere e proprie scuole popolari, i cui principi e metodi furono esposti nella Guida delle scuole del 1720. Il corso di studi comprendeva la religione e i tradizionali insegnamenti di base del leggere, scrivere e far di conto e arti meccaniche. Tali scuole, nonostante il loro carattere ascetico-religioso, esercitarono un’indubbia efficacia sulla diffusione dell’istruzione ed elaborarono praticamente i metodi dell’insegnamento elementare; l’ordine aprì nel 1685 anche una prima scuola normale per i maestri.
Già il primo Cinquecento vide il forte interesse educativo di una fondatrice come Angela Merici (1470/75-1540), da cui nasceranno successivamente le Orsoline, ”’il tipo’ delle insegnanti, come è avvenuto con i Gesuiti per i maschi”. Nel 1685 Rosa Venerini istituì a Viterbo le scuole delle Maestre Pie Venerini. L’istruzione femminile tuttavia si sviluppò molto più lentamente di quella maschile, sia per la diffusa e solidificata concezione che considerava la donna come non bisognosa di istruzione per il ruolo che ricopriva, sia anche a causa delle restrizioni imposte alle religiose nella possibilità di uscire dal convento. Pio V infatti nel 1566 aveva disposto che le monache non potessero uscire dal convento tranne in caso di gravi emergenze e quindi gli ordini religiosi femminili potevano istruire solo le ragazze che vivevano nel convento o che vi si recavano come convittrici esterne.
In molti luoghi d’Italia la direzione delle scuole nei grossi comuni, nel corso del Cinque e Seicento, venne affidata ad ordini religiosi: i Barnabiti erano attivi soprattutto in Lombardia, i Somaschi nei territori veneziani, mentre i Gesuiti e gli Scolopi dirigevano scuole in tutta Italia. Varie ragioni spingevano i consigli comunali a ricorrere agli ordini religiosi per l’istruzione e l’educazione della gioventù: l’ottima reputazione pedagogica di cui godevano gli ordini religiosi, potendo annoverare fra i loro membri studiosi ed insegnanti eminenti; la "pubblicità" che veniva fatta aprendo i collegi alla popolazione in occasione di feste, dispute, esami pubblici; l’alleggerimento dei propri oneri amministrativi da parte dei comuni, non dovendo più pensare al reclutamento dei maestri, alla sorveglianza delle scuole, dei programmi; il risparmio probabilmente riguardava anche la minor spesa, in quanto, dopo l’iniziale esborso per l’edificio scolastico, le spese per gli stipendi e l’alloggio erano basse se non addirittura nullo nel caso, come a Verona e in altre città, subentrasse un capitale privato di qualche benefattore.
2 - LA "RIVOLUZIONE" SCOLASTICA
2.1. - La Dominus ac Redemptor
Il papa Clemente XIV, con il breve Dominus ac Redemptor del 21 luglio 1773, soppresse la Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola nel 1538 e approvata da papa Paolo III nel 1540, diffusa in molte parti del mondo soprattutto attraverso i numerosi collegi (120 in Italia) e altre attività educative (significativo fu l’impegno come precettori presso i privati) e pastorali.
I gesuiti erano già stati scacciati dal Paraguay, accusati di sobillazione nella rivolta contro il ministro Sebastiano Giuseppe Carvalho di Pombal, che era in lotta con gli indiani per il possesso di metalli preziosi; dal Portogallo nel 1759 sotto l’accusa di aver ordito una congiura contro il re; dalla Francia nel 1762 su istigazione del ministro Choiseul; dalla Spagna nel 1767 incolpati di essere i sobillatori di una rivolta popolare e quindi imbarcati verso gli Stati Pontifici; dal regno di Napoli nel 1767; dal ducato di Parma nel 1768. Sul loro conto circolavano diverse accuse, a volte diffuse ad arte e calunniose, tanto che la loro soppressione diventava quasi una conseguenza ineludibile per la pace all’interno della Chiesa e nei rapporti con gli altri Stati. Erano accusati di aver fondato nell’America del sud uno stato contro i domini di Spagna e Portogallo "sotto il Santo pretesto della conversione delle Anime" e di aver diffuso col loro assoluto monopolio fra gli indigeni "assiomi tanto contrarj alla Società Civile".
A Lugano una Raccolta di varie scritture e documenti sugli affari presenti dei PP. Gesuiti del 1761, riguardante la loro condotta in varie parti del mondo cattolico, contiene una Memoria, ed avvisi per rendere i Gesuiti utili, o sopportabili in Francia, risalente al 1814, in cui si afferma che essi "avendo intrapreso ad insegnare, ed educare la gioventù, predicare, confessare et, non senza apparenza di profitto, non hanno potuto far tanto, che non si siano renduti giustamente sospetti agli stati temporali della Cristianità, non solo per li loro portamenti in Francia, in Inghilterra, in Venezia ecc., quanto per gli scritti che mandano ogni giorno alla luce sopra le persone dei Re, e il temporale de’ loro Regni. Inoltre pel grande accrescimento di questa Compagnia, che fa paura, non senza ragione, a’ Principi medesimi. A questo gran numero, e all’essersi sparsi per tutto il Mondo, s’aggiunge la grande unione, e l’accordo tra loro, e il sostenersi tutti scambievolmente; talmenteche qualunque libro faccia uno di loro, per quanto pessimo egli sia (di che ce ne son troppi esempi) nessuno di loro l’ha impugnato". La Memoria illustra allora alcuni rimedi, fra cui, quello di far loro cambiare il nome perché Compagnia di Gesù sembra accennare ad un "orgoglio nascosto"; di nazionalizzare i membri, in modo che in Francia comandi un francese e sia soggetto al re; di sottoporli al jus comune togliendo i privilegi e le esenzioni; di togliere il quarto voto di "special sottomissione al Papa" e di abiurare ai dogmi che riguardano la dottrina del regicidio.
Si può davvero parlare a proposito dei Gesuiti del ’700, di una sorta di mito negativo che di fatto dipingeva la Compagnia come la responsabile di ogni corrompimento politico e religioso, soprattutto a causa del monopolio scolastico e dei metodi educativi. E il mito negativo continuò anche nel secolo seguente, tanto che ancora nel 1874 E. Celesia, nella sua Storia della pedagogia in Italia, dedica una decina di pagine all’opera dei Gesuiti in cui poche sono le espressioni positive. "Qual fosse la loro pedagogia altri già divisarono, riassumendola in questa sentenza: dare la maschera della scienza all’ignoranza, quella dell’ignoranza alla scienza […]. La Compagnia, fatta arbitra ovunque del costume, la scienza non oppugnò, ma disertò dal retto sentiero; fè eunuche le lettere, quando non poté atteggiarle a strumento di tirannide; ai principi predicò l’ubbidienza, ai popoli il regicidio".
Il papa Clemente XIV, nel documento di soppressione del 1773, dopo aver ribadito la responsabilità della propria missione e le proprie funzioni ("Noi per Decreto Divino siamo stati stabiliti sopra le Nazioni e sopra i Regni, acciocché nella coltivazione della vigna di Sabaoth, e nella conservazione dell’edifizio della Cristiana Religione, di cui Cristo è la pietra angolare, Noi svelliamo, distrugghiamo, disperdiamo, dissipiamo, edifichiamo e piantiamo"), ricorda il compito degli ordini regolari, fondati per il bene e la felicità della Chiesa, "in tutti i tempi singolarissimo ornamento, presidio e vantaggio a tutta quanta la Chiesa". L’apostolica sede li ha quindi protetti, ma "quando che sia egli avvenuto, che da qualcheduno degli Ordini Regolari, o non ricevessero più dal popolo Cristiano quegli ubertosi frutti, e quei desiderati vantaggi, ai quali erano stati già istituiti o sivvero sembrati sia, che eglino piuttosto recassero danno, e a perturbare, anzi che a vantaggiare la pubblica tranquillità fosser disposti", non ha esitato a sopprimerli.
Il papa enumera quindi le altre soppressioni avvenute nel corso della storia da parte dei suoi predecessori, dato che la "soverchia varietà degli Ordini regolari induceva nella Chiesa di Dio assai confusione", nonostante che Innocenzo III avesse proibito nel Concilio Lateranense IV di fondarne degli altri.
I predecessori, ricorda il papa, "procurarono di risolvere tutto l’affare, senza che dessero il permesso, e la facoltà agli Ordini Regolari destinati alla soppressione, di sperimentare le loro ragioni, e di purgarsi dalle accuse gravissime, o di frastornare le cagioni per le quali ad intraprendere sì fatte risoluzioni, eransi indotti". Nella Compagnia di Gesù, istituita da Ignazio di Loyola "alla salute dell’Anime, alla conversione degli Eretici, finalmente al maggiore avanzamento della Pietà, e della Religione", nonostante la liberalità, la munificenza di molti papi e i moltissimi privilegi di cui godeva "quasi fin dal suo bel principio pullularono, diversi semi di discordie, e di contenzione non solo tra i Socj medesimi, ma anche con gli altri Ordini Regolari, col Clero Secolare, Accademie, Università, Scuole pubbliche di Lettere, e sin con gl’istessi Principi, nelli Stati de’ quali era stata ricevuta la Società". Da qui i molti ricorsi contro la Compagnia, i richiami e le conferme da parte dei papi, e le "inquietissime dispute circa la dottrina della Società, la quale come contraria alla Fede Ortodossa, e ai buoni costumi venne da moltissimi accusata; si accesero ancora le domestiche, e l’esterne discordanze, e sempre più frequenti si fecero contro di quella le accuse singolarmente contro la soverchia cupidigia delle ricchezze terrene, dalle quali cose trassero origine non solo quelle turbolenze a tutti note, che tanto afflissero, e molestarono la Sede Apostolica, ma anche le risoluzioni prese da alcuni Principi contro la Compagnia".
Nonostante alcune limitazioni imposte alla Compagnia, "i tempi avvennero assai difficili, e più turbolenti. E vaglia in vero i cresciuti ogni giorno più grandi clamori, e le querele, anzi insorte in qualche luogo pericolosissime sedizioni, tumulti, discordie, e scandali" tanto che "i nostri carissimi Figliuoli in Cristo Regi di Francia, di Spagna, di Portogallo, e delle Due Sicilie, sono stati obbligati a licenziare affatto, e discacciare i Socj dai loro Regni, Stati e Provincie". Considerando quindi che la Compagnia di Gesù "non poteva oggimai produrre quegli ubertosissimi, ed amplissimi frutti, e vantaggi ai quali era stata istituita […] ma anzi con grandissima difficoltà o in nissun modo poter essere, che rimanendo quella in piedi si restituisca alla Chiesa una vera, e durevol pace", "con ben maturo Consiglio, di certa scienza, e con la pienezza dell’Apostolica Potestà estinguiamo, e sopprimiamo la già detta Compagnia. Tolghiamo, ed arroghiamo tutti, e singoli gli Uffizi di lei, i Ministerj, e le Amministrazioni, le Case, le Scuole, i Collegi, gli Ospizj, e qualunque altro luogo esistente in qualsivoglia Provincia, Regno, e Signoria, e in qualunque modo alla medesima appartenente".
Gli appartenenti all’Ordine, che avevano fatto solo i voti semplici, erano obbligati dal pontefice ad allontanarsi dalle case e dai collegi, "per essere in libertà di scegliere quella maniera di vita, la quale giudicheranno essi più adatta nel Signore alla vocazione, alle forze e alla coscienza di ciascheduno"; coloro che avevano ricevuto gli ordini sacri erano liberi di rifugiarsi sotto la protezione di un altro ordine o di rimanere nel secolo come preti e chierici.
La decisione di scioglimento coglieva di sorpresa gli addetti alle numerose attività istruttive ed assistenziali a cui si dedicavano i gesuiti. "Vogliamo di più, che se alcuno di loro che professavano l’Istituto della Compagnia, eserciti l’uffizio, d’insegnare le Lettere alla gioventù, o faccia da Maestro in qualche Collegio, o Scuola, rimossi tutti quanti essi sono dal Governo, amministrazione, e direzione, si conceda solamente facoltà, e comodo d’insegnare a quelli, i quali dimostrano qualche segno di sperar bene delle loro fatiche, e purché si dimostrino alieni da quelle dispute, e capi di dottrina che, o per la rilassatezza, o per la frivolezza, sogliono cagionare, e risvegliare gravissime dispute ed inconvenienti; né mai per alcun tempo si ammettano a questo Uffizio di insegnare, o si permetta, che vi perseverino, se attualmente vi sono, quegli i quali non conserveranno a tutta possa la quiete delle scuole, e la pubblica tranquillità".
La decisione del papa, inattesa ma non del tutto perché preceduta da lunghe polemiche contro la Compagnia e dalla sua già avvenuta cacciata da parte di alcuni governi, lasciò scoperta in molti comuni l’istruzione media superiore. La Dominus ac Redemptor diede l’occasione allo Stato di intervenire direttamente nell’istruzione, anche se da tempo studiosi e funzionari ne avevano preparato il terreno. La cultura settecentesca ribadiva infatti la necessità dell’impegno statale in tale campo e i principi illuminati se ne erano interessati ancor prima della soppressione dei gesuiti, avendo un concetto dello stato a forma piramidale, al culmine del quale il principe, avendo di mira la felicità dei sudditi, distribuiva gli incarichi e la cultura necessaria ai suoi sudditi. Inoltre mentre le scuole dei gesuiti non si interessavano delle scuole del popolo, o basse, in cui si insegnava a leggere e scrivere, lasciate in balia di se stesse, in mano ai privati o ai comuni o a qualche altra congregazione, in alcuni stati italiani, soprattutto nella Lombardia austriaca, sotto l’influsso delle nuove idee di stampo illuministico provenienti d’oltralpe, si notava un movimento riformatore e un’attenzione maggiore verso il popolo che sarebbe sfociata in una profonda riforma scolastica, con l’utilizzo dei fondi di varie confraternite ed ordini religiosi.
Già a Napoli il 3 novembre 1767 tutti gli edifici appartenenti alla compagnia di Gesù erano stati occupati dagli ufficiali del re, il quale il 28 luglio 1769 poteva affermare: "Dalle nostre cure paterne, dopo la giusta e necessaria espulsione da’ nostri dominii della Compagnia che dicevasi di Gesù […] sono nate le pubbliche scuole e i collegi gratuiti per educare la gioventù povera nella pietà e nelle lettere; i conservatorii per alimentare ed ammaestrare ne’ mestieri gli orfani e le orfane della povera plebe; i reclusorj per i poveri invalidi e per i validi vagabondi, che togliendosi dall’ozio, ond’erano gravosi e perniciosi allo Stato, si rendono utili con l’istruirsi alle arti necessarie alla società; il sollievo alle comunità col rilascio delle annue prestazioni che facevano agli espulsi per le scuole; l’ajuto alle genti della campagna con la divisione di vasti territori a piccioli censi e le tante altre opere pubbliche fatte, o che si vanno disponendo dopo le prime, del culto divino e degli esercizi della religione". Il re poteva quindi proclamare la laicità della scuola e la potestà sovrana sul suo ordinamento e nel 1770 poteva dar vita a scuole minori, cioè quelle limitate "alle cognizioni del leggere e dello scrivere, dell’abaco e dei rudimenti del latino".
[1] Dominus ac Redemptor is the papal brief promulgated the 21 July 1773, by which Clement XIV suppressed the Society of Jesus. The Jesuits had been expelled from Brasil (1754), Portugal (1759), France (1764), Spain and its colonies (1767) and Parma (1768). Though he had to face strong pressure on the part of the ambassadors of the Bourbon courts Clement XIII always refused to yield to their demands to have the Society of Jesus suppressed. However the issue had reached such a crisis point that the question seems to have been the main issue determining the outcome of the conclave of 1769 that was called to elect a successor to Clement XIII. Cardinal Giovanni Ganganelli, a Franciscan (Conventual) friar was elected and took the name of Clement XIV.
For a few years Clement XIV tried to placate the enemies of the Jesuits by treating them harshly: he refused to meet the Superior General, Lorenzo Ricci, ordered them not to receive novices, etc. To no avail. The pression kept building up to the point that Catholic countries were threatening to break away from the Church. Clement XIV ultimately yielded ’in the name of peace of the Church and to avoid of secession in Europe’ and suppressed the Society of Jesus by the brief Dominus ac Redemptor of the 21 July 1773.
The lengthy document is 45 paragraphs long. In the introductory paragraph Clement XIV gives the tone: Our Lord has come on earth as ”Prince of peace’. This mission of peace, transmitted to the apostles is a duty of the successors of Saint Peter, a responsibility the pope fulfils by encouraging institutions fostering peace and removing, if need be, others that impede peace. Not just if guilty, even on the broader ground of harmony and tranquillity in the Church, it may be justified to suppress a religious order.
Follows a long section in which Clement XIV reviews the reasons which, in his judgement, are calling for the ”extinction’ of the Society of Jesus. (1) A long list of charges against the Society is enumerated (but no judgment is passed on the validity of the charges). (2) He recalls that, in its history, the Society encountered severe criticism (but he remains silent on whether the criticism is justified). (3) The distress occasioned to earlier popes by clashes among Catholics with regard to Jesuit doctrine is evoked (but the Society is not explicitly blamed for that).
In a final - more technical - section Clement XIV pronounces the actual sentence of suppression of the Society of Jesus. Some provisions are dictated for the implementation of the brief.
In effect: the brief suppresses the Society without condemning it.
A second brief Gravissimis ex causis (16 August) established a commission of 5 cardinals entrusted with the task of informing the Jesuits and handling the many practical problems caused by the suppression. Two days later, a letter of the Cardinal president of the commission ordered all bishops of the Church to proclaim, and publish the brief in every Jesuit house, residence or school, in the presence of the assembled community of Jesuits. This unusual approach created a good number of problems. Non-catholic countries such as Prussia and Russia forbade the bishops to promulgate the brief and ordered the Jesuits to carry on their academic activities just as if nothing had happened.
Bibliography
• The full text of the brief, in Latin and French, can be found in Bref de N.S.P. le Pape Clément XIV en date du XXI juillet 1773 portant suppression de l’Ordre régulier dit Société de Jésus, n.d.
• BANGERT, William: A History of the Society of Jesus, Saint-Louis, 1972.